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Politica economica comunitaria: diritti sociali condizionati?

Prima e oltre che attraverso le politiche sociali comunitarie, il grado di protezione dei diritti sociali viene influenzato dall’economia. Gran parte dei diritti sociali proprio in quanto si configurano quali diritti a prestazione positiva, non possono prescindere dalle risorse economiche necessarie a darvi attuazione, né dall’amministrazione dei servizi alle persone che serve a loro garanzia. Da qui si comprende come il modello sociale europeo sia strettamente dipendente dai vincoli che l’Unione economica e monetaria ha imposto agli stati membri a partire dall’introduzione della moneta unica. Nel 1997, ai paesi candidati ad entrare nella Uem, è stato chiesto sulla base dei parametri di convergenza stabiliti nel Patto di stabilità e crescita, di presentarsi alla vigilia dell’ingresso nella moneta unica con debiti e deficit contenuti, nonché con bassi livelli d’inflazione535. Con l’ingresso nella Uem si è pervenuto all’unificazione delle politiche monetarie così che, se da un lato non si è potuto più ricorrere allo strumento delle svalutazioni competitive,536 dall’altro anche le scelte di bilancio hanno iniziato ad essere orientate verso il rispetto di criteri di efficacia e di efficienza. Lo stato ha dovuto garantire la sostenibilità della spesa corrente cercando al contempo di allargare i margini riservati alla spesa in investimenti. Se a tale contesto politico si aggiungono le conseguenze prodotte dai cambiamenti che hanno interessato il mercato del lavoro a livello internazionale, a causa dei processi di globalizzazione e alla liberalizzazione del commercio di un gran numero di beni prima sottoposti a regimi protezionistici, si comprende come attualmente gli investimenti tendano sempre più a spostarsi dove il costo del denaro e del lavoro risulta essere più basso. Da qui la previsione di nuove cornici contrattuali in grado di tradurre in termini giuridici forme di lavoro che, per rispondere alle esigenze del ciclo

535 All’Italia è toccato compiere un immane sforzo, anzitutto per ridurre il disavanzo pubblico

prodotto da decenni di finanza “allegra”: anni in cui la spesa pubblica è stata fatta lievitare, per dirla nei termini della scuola della Public Choice, sacrificando la razionalità economica alla tirannia della razionalità politica. Enormi quantitativi di denaro pubblico sono stati utilizzati a scopo assistenzialistico e in primis al fine di orientare il consenso elettorale.

536 Se in periodi di crisi tali svalutazioni hanno contribuito a risollevare i bilanci negativi di tante

imprese in affanno, di contro hanno prodotto un effetto disincentivante rispetto a quelle forme d’investimento che avrebbero dovuto portarle ad incrementare in modo autonomo la propria produttività rendendo al contempo le loro produzioni più competitive.

economico, diventano sempre più flessibili e precarie, nonché la necessità da parte dello stato, d’intervenire con misure a sostegno del reddito dei lavoratori nei periodi intercorrenti tra la perdita del lavoro e l’ottenimento di una nuova occupazione. Tale stato di cose costringerà a porsi in modo più netto il problema dei livelli minimi, costituzionalmente irrinunciabili dei diritti sociali e delle idoneità dei vari sistemi, qualitativamente diversi, a soddisfare tali livelli. Il notevole spostamento in avanti della speranza di vita pone, inoltre, i paesi europei di fronte ad una massiccia crescita della spesa pensionistica,537 da qui la necessità di contemperare le istanze di contenimento del disavanzo pubblico dettate dai vincoli comunitari, con la necessità di prevedere una efficace rete di ammortizzatori sociali in grado di contrastare i fallimenti del mercato del lavoro, e di far fronte alle gravose voci della spesa previdenziale e sanitaria che, specie nel nostro paese, incidono fortemente sulle casse dello stato.

In riferimento alla spesa pensionistica è emblematica di questo trend la sentenza della Corte di giustizia 13 novembre 2008, C-46/07: Commissione contro Repubblica italiana. Sulla base di tale giudizio la Corte di giustizia ha imposto all’Italia la modifica della legge (23 ottobre 1992 n. 421) sul regime pensionistico Inpdap, nella parte in cui subordina l’accesso al diritto alla pensione a differenti requisiti anagrafici legati al sesso del lavoratore (65 anni per gli uomini e 60 per le donne538).

Secondo la Corte tale legge violava539 il principio comunitario di parità di retribuzione per uomini e donne a parità di lavoro svolto, o per un lavoro di pari valore (articolo 157 TFUE, ex 141 TCE)540. Tale decisione è emblematica di

537«Il fenomeno che marcherà i prossimi decenni sarà il progressivo pensionamento della

generazione nata negli anni del boom demografico del secondo Dopoguerra. Questa evoluzione demografica produrrà, in un primo tempo, un invecchiamento della forza lavoro poi, dal 2010 in avanti, un forte aumento del numero dei pensionati e, successivamente, una crescente richiesta di cure mediche e di assistenza a lungo termine». “La futura evoluzione della protezione sociale nel

lungo periodo: pensioni sicure e sostenibili”, Comunicazione della Commissione 2000-622,.

538 Veniva fatta comunque salva la facoltà di chiedere il proseguimento del rapporto di lavoro fino

ai sessantacinque anni.

539Per le modifiche apportate al regime Inpdap a seguito della sentenza 13 novembre 2008 della

Corte di giustizia vedere il paragrafo 3.4.1 del terzo capitolo

540 Tale caso ha posto l’esigenza di stabilire se il regime Inpdap dovesse essere ricondotto nel

campo di applicazione dell’articolo 157 TFUE in quanto regime professionale, oppure in quello della direttiva 79/7 (progressiva applicazione del principio di parità in materia di sicurezza sociale) che concerne i regimi legali. Al fine di pervenire ad una graduale attuazione del principio di parità di trattamento tra uomini e donne in materia di sicurezza sociale, la direttiva 79/7 ha previsto la

come la Corte di giustizia, in riferimento ad un ambito di particolare rilievo economico, come la spesa pensionistica, tenda ad estendere i principi elaborati in sede comunitaria ai sistemi previdenziali di tutti gli stati membri, senza tenere conto delle condizioni giuridiche e sociali interne. La facoltà concessa alle donne di andare in pensione alcuni anni prima rispetto agli uomini, ha costituito nel nostro ordinamento, un’azione positiva accordata dal legislatore al genere femminile per raggiungere finalità di eguaglianza sostanziale, ovvero, prevedere misure compensativa degli sforzi sostenuti per conciliare vita lavorativa e vita familiare, alla luce dello storico gap di opportunità che fa della parità tra i due sessi una meta ancora da raggiungere.

Se dunque, in materia di accesso al lavoro, l’ordinamento italiano si è negli anni evoluto superando la storica concezione attitudinale del lavoro ed eliminando i divieti imposti alle donne in riferimento all’esercizio di determinate professioni, oggi, l’appartenenza alla Ue e segnatamente alla Uem, costringono il nostro paese a fare un passo indietro chiedendogli di sacrificare alcune storiche misure finalizzate a riequilibrare delle situazioni strutturali di svantaggio in nome del rispetto dei vincoli imposti al bilancio pubblico nazionale.

Da quanto esposto si comprende come gli ultimi decenni sia stato necessario ridefinire i rapporti tra stato e mercato andando a riformulare su nuove basi le politiche d’intervento pubblico in ragione della crescente crisi fiscale dello stato, possibilità di accesso differenziato per età al diritto alla pensione di vecchiaia e di fine lavoro. Tale direttiva si applica ai regimi pensionistici legali, aventi carattere generale, istituiti dallo stato in base a considerazioni di politica sociale ed aventi natura obbligatoria, ovvero, non negoziati tra datori di lavoro e lavoratori. Rientrano, invece nel campo di applicazione dell’articolo 157 TFUE i regimi pensionistici professionali, in quanto negoziati tra datori di lavoro privati e lavoratori ai fini dell’erogazione di un trattamento pensionistico di vecchiaia che sia possibile considerare, sulla base del criterio dell’impiego, quale forma di retribuzione differita. Vedi sentenza Barber, 17 maggio 1990 in causa C-262/88, e sentenza Ten Oever 6 ottobre 1993, causa C-109-91 in cui la Corte afferma che una pensione corrisposta da un datore di lavoro ad un ex dipendente per il rapporto di lavoro tra loro intercorso costituisce una retribuzione ai sensi dell’articolo 157 TFUE. Il sistema Inpdap è stato classificato come regime professionale in quanto giudicato soddisfare i tre criteri stabiliti nei leading cases in materia: sentenza Beune 28 ottobre 1994 in causa C-7-93, sentenza Niemi 12 settembre 2002 in causa 351/00 (riguarda una categoria particolare di lavoratori, è funzione degli anni di servizio prestati ed il suo importo viene calcolato in base all’ultimo stipendio del dipendente pubblico). Consideriamo, inoltre, condivisibili le perplessità espresse da B.GRANDI, Le interferenze di fatto della giurisprudenza della Corte di giustizia sul

regime pensionistico dei pubblici dipendenti, Rivista del diritto della sicurezza sociale, I, 2009, p.

207, quando osserva come la Corte, ai fini della qualificazione del regime Inpdap come professionale o legale avrebbe più semplicemente dovuto valutarne la conformità o meno ai criteri contenuti nella direttiva 83/378 Ce (modificata dalla direttiva 2000/54).

delle trasformazioni subite dal mercato del lavoro, nonché dall’attuale crisi economico –finanziaria.

Osservando le ripercussioni prodotte da tali cambiamenti nel contesto italiano, pare condivisibile la posizione di chi ritiene che i problemi del futuro saranno probabilmente sempre meno connessi alla costituzionalità di mancate estensioni di vantaggi- in ordine alle quali la Corte costituzionale operava con la leva dell’articolo 3 – e sempre più riguarderanno la costituzionalità di discipline più sfavorevoli rispetto al passato. Si configurano quindi riduzioni in riferimento a forme di protezione disposte per ragioni di omogeneità di trattamento (nell’ottica quindi dell’eguaglianza verso il basso) così come difficoltà legate all’eventuale insufficienza, viceversa, dei livelli esistenti di protezione rispetto ai minimi costituzionalmente necessari541.

541 V.ONIDA, Eguaglianza e diritti sociali in Corte costituzionale e principio di eguaglianza, Atti

CAPITOLO TERZO

IL SUPERAMENTO DELLE VISIONI TRADIZIONALI

DELLE RELAZIONI INTERORDINAMENTALI: LA

SENTENZA 13 NOVEMBRE 2008

3.1. RICOSTRUZIONE DELL’INTERPRETAZIONE COSTITUZIONALE