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Sulla necessità di una nuova disciplina della rappresentanza

CAPITOLO 5 – IL FUTURO DELLA RAPPRESENTANZA SINDACALE

5.3. Sulla necessità di una nuova disciplina della rappresentanza

5.1. Il dibattito dottrinale all’indomani della sent. 231/2013

Come prevedibile l‟intervento della Corte Costituzionale ha suscitato l‟interessamento di una larga parte della dottrina, e non solo per essere stato l‟ultimo round di una vicenda che ha monopolizzato le prime pagine dei giornali e gli studi televisivi, ma anche ‒e soprattutto‒ per i numerosi profili di novità introdotti, sia nella forma sia nei contenuti, i quali se da un lato hanno risolto alcune problematiche precedenti, dall‟altro hanno introdotto nuovi ed ulteriori interrogativi.

Partendo dai meriti, non si può fare a meno di riconoscere alla sentenza di aver quantomeno “collaborato” a chiudere il caso Fiat, e del resto non poteva esimersi dal farlo; non possiamo parlare di decisività poiché ben avrebbe potuto la Fiat, sulla base della mancata partecipazione della Fiom alle trattative sui CCSL, almeno per quanto riguarda alcune unità produttive, mantenere fermo l‟atteggiamento di chiusura nei confronti del sindacato dissenziente, scatenando un nuovo iter giudiziale. Inoltre, sul piano teorico, ha l‟ulteriore merito di aver preso atto della contraddizione che dal 1995 accompagnava l‟art. 19 dello Statuto, nel momento in cui richiedeva, a conferma di una rappresentatività già ampiamente dimostrata con la sola partecipazione al negoziato, l‟ulteriore dato della sottoscrizione del contratto collettivo307.

Per quanto riguarda l‟aspetto formale, ha suscitato qualche critica la scelta della Corte di redigere una sentenza manipolativa di tipo additivo, sostituendosi de

307 F. C

ARINCI, Il buio oltre la siepe: Corte Cost. 23 luglio 2013, n. 231, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D‟Antona”.IT, 182/2013, p. 35 ss.

facto «sia alle scelte discrezionali del legislatore, sia alle scelte che competono

alle parti sociali»308; analizzando, però, le alternative a disposizione dei giudici di legittimità, la maggior parte degli autori ha ritenuto tale scelta come la più idonea allo scopo.

In primo luogo, infatti, una sentenza di accoglimento avrebbe prodotto «l‟effetto radicale di aprire l‟accesso alla rappresentanza in azienda e ai diritti promozionali del Titolo III, non ai sindacati soltanto ma a qualsiasi gruppo formato tra i lavoratori occupati nell‟unità produttiva»309

, cancellando ogni portata selettiva della norma e creando un vulnus di dimensioni tutt‟altro che trascurabili; ed è proprio l‟horror vacui, che ha caratterizzato da sempre la giurisprudenza della Corte, ad averla indotta a non dichiarare la totale incostituzionalità ed optare ‒a mio avviso giustamente‒ per una soluzione compromissoria310

. L‟alternativa più probabile, alla vigilia della sentenza, era quella di una pronuncia di rigetto, corredata magari da un‟interpretazione costituzionalmente orientata della norma, sotto forma di monito rivolto al legislatore ad intervenire in tal senso, similmente a quanto accaduto con la sentenza 30/1990; soluzione che però avrebbe dovuto fare i conti sia con l‟aspetto pratico della vicenda, vale a dire con il mantenimento del “paradosso” di un sindacato maggiormente rappresentativo che non aveva accesso alla rappresentanza aziendale, sia con la tendenza cronica del legislatore al disinteresse per il tema in questione, a maggior ragione in un periodo di forte instabilità politica come quello in cui i giudici si trovarono a decidere.

Pertanto, pur essendo indubbia l‟invasione della competenza riservata all‟autonomia collettiva, la scelta in senso additivo della Corte può essere ritenuta la più bilanciata ed efficace, in quanto volta sì a «provocare un forte strappo ‒ quasi uno shock per il sistema‒ ed a mostrare l‟intenzione propositiva e

308

E.GHERA, L’articolo 19 dello statuto, una norma da cambiare?, in giorn. dir. Lav. e relazioni

ind., n. 138, 2013, p. 194. 309 Ibidem.

310 U. C

ARABELLI, Rappresentanza e rappresentatività sindacale dopo la sentenza della Corte

costituzionale n. 231/2013, in F. Carinci (a cura di), Legge o contrattazione? Una risposta sulla rappresentanza sindacale a Corte costituzionale n. 231/2013, Labour studies e-book series, n. 20,

coraggiosa della Corte»311, ma evitando comunque, eliminando ogni criterio selettivo, di fare più danni di quanti ne avrebbe risolti. Una sentenza definita «discreta», riguardante comunque un elemento ‒la partecipazione alle trattative‒ già presente nel sistema: prima utilizzato solo in funzione ancillare, per qualificare la sottoscrizione, ora reso un autonomo canale d‟accesso al Titolo III312

.

Per quanto riguarda, poi, la critica espressa dalle parti resistenti nella vicenda, e sostenuta anche da una parte minoritaria della dottrina313, di aver ribaltato completamente i propri precedenti, contraddicendo il proprio precedente avallo del criterio della sottoscrizione come idoneo misuratore della forza di un sindacato, basti osservare che il criterio in questione, essendo un indice

presuntivo indiretto, tutt‟altro che esprimente un giudizio oggettivo sulla

rappresentatività, ben può essere suscettibile di periodici controlli di ragionevolezza314. Inoltre, come rilevato dalla stessa sent. 244/1996, è la partecipazione attiva al negoziato, e non la sottoscrizione, ad essere un criterio di rappresentatività, un prius rispetto alla firma.

Viene mutuata dunque l‟idea che la rappresentatività sia una qualità «radicata esclusivamente nel rapporto dell‟organizzazione sindacale con i lavoratori»315

, e non con il datore di lavoro, per dichiarare costituzionale una norma che, al contrario, con un indebita sanzione del dissenso, riteneva non rappresentativo un sindacato che, nei fatti, lo era. Assunto criticato fortemente da quella parte della dottrina che, al contrario, ritiene che «la protezione dei lavoratori avvenga mediante la firma dei contratti collettivi, e non con la semplice partecipazione»316, ritenendo indispensabile che il sindacato si assuma anche una concreta

responsabilità contrattuale. L‟accoglimento di quest‟ultima tesi, però, finirebbe

per «rendere del tutto subalterno il diritto all‟esercizio della libertà sindacale nei

311 O.M

AZZOTTA, L’art. 19 Stat. Lav. davanti alla Corte Costituzionale, in F. Carinci (a cura di),

Legge o contrattazione? Una risposta sulla rappresentanza sindacale a Corte costituzionale n. 231/2013, Labour studies e-book series, n. 20, Adapt University Press, 2014, p. 130.

312

F.LISO, M. MAGNANI,R. SALOMONE, Opinioni sul “nuovo” art. 19 dello Statuto dei Lavoratori, in Giorn. Dir. Lav. e relazioni ind., 141, 2014, p. 105 ss.

313 M.N

APOLI, La Corte costituzionale ”legifera” sulla Fiom nelle aziende Fiat, in lav. dir., 4, 2013, p. 521 ss.

314

O.MAZZOTTA, op.cit., p. 129.

315 F.L

ISO, M. MAGNANI,R. SALOMONE, op. cit., p. 111.

316 M.N

luoghi di lavoro alle dinamiche del sistema contrattuale, rendendo in definitiva arbitro il datore di lavoro delle sorti finali»317.

Vediamo adesso l‟aspetto maggiormente problematico della pronuncia, tanto da far convergere la maggior parte della dottrina, ed anche ‒in parte‒ lo stesso giudice costituzionale, sulla necessità di un intervento legislativo che chiarisca una volta per tutte la materia.

5.1.1. La partecipazione alle trattative: soluzione al problema o spostamento del problema?

La questione riguarda il “nodo” centrale di tutta la sentenza, vale a dire il “nuovo” criterio di rappresentatività costituito dalla partecipazione alle trattative: la Corte, infatti, non brilla per chiarezza a riguardo, lasciando intendere in un primo momento che ci sia in capo al datore di lavoro un vero e proprio obbligo a trattare con un sindacato rappresentativo, essendo il rifiuto perseguibile per condotta antisindacale ex art. 28; subito dopo però, tra i suggerimenti dati al legislatore per una regolazione della materia, inserisce «l‟introduzione di un obbligo a trattare con le organizzazioni sindacali che superino una determinata soglia di sbarramento»318, ammettendo così implicitamente il fatto che tale obbligo non sia ancora operante. La questione è molto delicata anche nei risvolti pratici, in quanto, interpretando restrittivamente il concetto di negoziato nel senso di ammettere solo il sindacato che, pur non firmatario, abbia comunque oggettivamente intavolato una trattativa, il potere di accreditamento sanzionato dalla Corte non verrebbe eliminato, bensì solamente spostato “a monte”, in quanto basterebbe al datore di lavoro negare l‟ingresso nella “stanza dei negoziati” al sindacato scomodo per ottenere lo stesso risultato della mancata sottoscrizione. Dall‟altro lato, un‟interpretazione eccessivamente lata di trattativa, intesa come la mera manifestazione di volontà unilaterale da parte di un sindacato, anche senza

317

S. SCARPONI, La sentenza della Corte Costituzionale n. 231 del 2013: la quadratura del

cerchio?, in Lav. Dir., 4, 2013, p. 503. 318 C. Cost., sent. n. 231/2013, cit., pto. 9.

collaborazione datoriale, rischierebbe di minare alla radice la funzione selettiva dell‟art. 19, aprendo la porta a qualunque associazione sindacale.

La risposta dottrinale è stata prevalentemente negativa rispetto alla sussistenza di un generale obbligo a trattare in capo al datore di lavoro: anche se, verosimilmente, una simile previsione risolverebbe alla radice il problema sottoposto alla Corte, essa finirebbe per stravolgere la ratio selettiva dell‟art. 19, oltre che introdurre una sorta di principio di parità di trattamento “a tutti i costi”, certamente lesivo dell‟art. 3 Cost.

Il presupposto per risolvere la questione sta, in realtà, nel fatto che «quando si parla di trattative, si parla di una relazione preliminare fra due soggetti entrambi disponibili a misurarsi, nel che sembra riemergere inevitabilmente la prospettiva, e il problema, dell‟accreditamento da parte del datore di lavoro»319

. Pertanto, la chiave di volta «sarà quella di capire quando questo accreditamento è fisiologico come in ogni relazione (e trattativa) contrattuale, e quando invece è

patologico»320; decisione che spetta necessariamente al giudice, tramite la tutela prevista dall‟art. 28 dello Statuto per condotte antisindacali: egli infatti potrà valutare, di volta in volta, se l‟esclusione dalle trattative di una sigla sindacale corrisponda, o meno, ad un atteggiamento discriminatorio del datore di lavoro. Anche in questa prospettiva però si aprono ulteriori problematiche, in quanto tale tutela è azionabile solo in sede aziendale, nei confronti del datore di lavoro, e quindi sembrerebbe non operare «nel caso in cui l‟esclusione dalle trattative avvenga ad opera dell‟associazione rappresentativa dei datori di lavoro in occasione della stipula di contratti territoriali o nazionali»321. In realtà non si vede la ragione di limitare il diritto di partecipazione alla sola sede aziendale, ma resta il fatto che, data la limitata applicazione del rimedio ex art. 28, senza una regolamentazione certa permane il rischio che, in concreto, a livello sovra-

319 C.C

ESTER, Prime osservazioni sulla sentenza n. 231/2013 della Corte Costituzionale, in F. Carinci (a cura di), Legge o contrattazione? Una risposta sulla rappresentanza sindacale a Corte

costituzionale n. 231/2013, Labour studies e-book series, n. 20, Adapt University Press, 2014, p.

111.

320 Ibidem. 321 F.L

aziendale «il diritto alla partecipazione non riceva soddisfazione e che quindi possa non concretizzarsi»322.

Peraltro (anche) su questo aspetto il nuovo articolo 19 sembra essere passato in secondo piano, così come avvenne nel 1995 con la formulazione post- referendaria, a causa della ritrovata unità sindacale che ha portato, in ultimo, alla stipula del T.U. Rappresentanza, e che ha sostanzialmente ridotto il campo di applicazione della disciplina legale ai casi in cui non sia applicato alcun contratto collettivo, ai sindacati non aderenti agli Accordi oppure a quelle aziende, in primis la Fiat, estranee al sistema confindustriale.

Le Confederazioni sindacali, infatti, dopo lo strappo che ha portato alle ormai note conseguenze esposte nel capitolo precedente, hanno anche in questa occasione accolto prontamente i moniti che la Corte Costituzionale ha rivolto al legislatore, prevedendo nel “trittico” di Accordi una puntuale regolamentazione dei requisiti necessari a considerare un sindacato “trattante”.

Afferma infatti il T.U. che, «ai fini del riconoscimento dei diritti sindacali previsti dalla legge (…) si intendono partecipanti alla negoziazione le organizzazioni che abbiano raggiunto il 5% di rappresentanza, secondo i criteri concordati nel presente accordo, e che abbiano partecipato alla negoziazione in quanto hanno contribuito alla definizione della piattaforma e hanno fatto parte della delegazione trattante l‟ultimo rinnovo del CCNL definito secondo le regole del presente accordo»323. Il raggiungimento di tali requisiti, inoltre, comporta un vero e proprio

obbligo a trattare per il datore di lavoro.

I requisiti ulteriori alla soglia di rappresentatività, non presenti nel precedente Protocollo d‟Intesa, sono stati criticati in quanto potrebbero portare ad una c.d. ”dittatura della maggioranza”: parte della dottrina infatti, partendo dal presupposto che «il negoziato per il contratto nazionale si svolge, in caso di più piattaforme rivendicative, sulla piattaforma presentata dai sindacati che, nel loro

322 Ibidem.

insieme, abbiano il 51% di rappresentatività»324, e che «si intende che abbia partecipato al negoziato solo il sindacato che abbia contribuito a formulare la piattaforma rivendicativa maggioritaria»325, conclude che il Testo Unico, aggirando la sentenza 231/2013, precluderebbe ai sindacati minoritari l‟accesso alla rappresentanza.

Il problema in realtà è sempre quello di definire il significato dei requisiti richiesti, in questo caso di “contribuire alla definizione della piattaforma” e “partecipare alla delegazione trattante”: in questo caso però, data la legittimazione negoziale che comunque permette alle parti di “sapere prima chi si ha di fronte”, non sembra illogico avallare un‟interpretazione estensiva dei requisiti, considerando pertanto anche i sindacati che presentino una piattaforma minoritaria idonei a costituire r.s.a., «anche se poi la trattativa dovesse interrompersi immediatamente o addirittura non avviarsi»326.

Tirando le somme, la sentenza 231/2013 ha assolto all‟obiettivo pratico per cui era stata chiamata in causa, individuando nella partecipazione alle trattative un rimedio efficace al paradosso costituito dalla cacciata della Fiom, ma non è andata oltre, ancora una volta, «ad una soluzione interpretativo-correttiva di pura emergenza costituzionale»327; e d‟altro canto non sembra possibile chiedere di più ad una Consulta che, da quasi trent‟anni, chiede a gran voce al legislatore di intervenire per fornire delle regole di rappresentanza certe. Anche in questo caso, come visto, il monito è tutt‟altro che velato, arrivando la Corte persino ad elencare un range di possibili soluzioni che, evidentemente, hanno ricevuto una sorta di “avallo costituzionale preventivo”.

Certo la sensazione di deja-vu resta palpabile, dato che oltre agli espliciti moniti della Corte, oggi come allora è intervenuta l‟autonomia negoziale che, dopo una fase di rottura dell‟unità d‟azione, ha “messo una pezza” all‟inerzia legislativa con

324 P. A

LLEVA, I pericoli dell’accordo interconfederale sulla rappresentanza, in www.dirittisocialiecittadinanza.org, pto. 2.

325 Ibidem. 326

V. BAVARO, note sul Testo Unico sulla Rappresentanza del 10 gennaio 2014, in www.dirittisocialiecittadinanza.org, pto. 4.

327 O.M

una disciplina negoziale suppletiva di quella legale, nascondendo l‟urgenza di riformare quest‟ultima.

In ultimo non deve stupire il fatto che un così rapido e “sofferto” mutamento nel sistema di relazioni sindacali abbia riportato in auge la ‒ciclica‒ questione circa la necessità di una legge sindacale che dia un minimo di certezza del diritto alle parti sociali, soprattutto in relazione alla strutturale fragilità della disciplina negoziale, richiesta a gran voce, oltre che ‒ma non è una novità‒ dalla Corte Costituzionale, anche dalla stessa Fiat.

5.2. Una legge sindacale: le ragioni del no328

I sostenitori del “no” ad un intervento legislativo organico in ambito sindacale (una c.d. Legge sindacale) muovono in primo luogo dal fatto che una intrusione generale di una fonte eteronoma nella delicata disciplina intersindacale «segnerebbe senz‟altro un elemento di forte e significativa rottura con il passato, e quindi la necessità di ripensare il nostro sistema di relazioni industriali, non solo, come ovvio, nel rapporto con la fonte unilaterale, ma in tutte le sue composite sfaccettature, compresa quella del rapporto con l‟art. 39 Cost. nella sua interezza»329.

Riguardo al primo timore, basti prendere ad esempio la disciplina del settore pubblico, a dimostrazione di una volontà legislativa che, a prescindere dalla collocazione politica, tende alla compressione delle prerogative sindacali anche in ambiti ulteriori rispetto alla contrattazione collettiva, oltre a portare ad una burocratizzazione dell‟azione sindacale, anche in relazione al godimento dei diritti sindacali330. E seppur le proposte di riforma inoltrate al Parlamento (v. infra cap.

328

Il titolo del seguente paragrafo è ripreso da M.TIRABOSCHI, Legge sindacale: le ragioni del no, in F. Carinci (a cura di), Legge o contrattazione? Una risposta sulla rappresentanza sindacale a

Corte Costituzionale n. 231/2013, Labour studies e-book series, n. 20, Adapt University Press,

2014, p. 165.

329 S.M

AINARDI, Le relazioni collettive nel “nuovo” diritto del lavoro, in AA.VV., Legge e

contrattazione collettiva nel diritto del lavoro post-statutario, giornate di Studio Aidlass, Napoli,

16-17 giugno 2016, p. 60.

5, par. 3) siano per la maggior parte “leggere”, ovvero incentrate al recepimento più o meno generalizzato delle regole disposte dal T.U., «sopravvive lo spettro di un testo che, entrato in Parlamento con un contenuto di promozione, potrebbe ben uscire con uno diverso, di controllo e di contenimento del conflitto»331. Timore che non solo fa propendere decisamente per il “no” ad una legge sindacale le Confederazioni Cisl e Uil, preoccupate dal fatto che la trasformazione della pur condivisibile regola della maggioranza da ex contractu ad ex lege farebbe perdere loro la possibilità di “chiamarsi fuori” senza perdere l‟accesso al Titolo III tramite l‟art. 19, ma anche la stessa Cgil, seppur tradizionalmente favorevole all‟intervento legislativo332

. Il generale “no grazie” delle parti sociali ad una legge sindacale è inoltre ‒e soprattutto‒ desumibile dallo stesso T.U.: se infatti nel Protocollo 1993 le Confederazioni «auspicano un intervento legislativo finalizzato, tra l'altro, ad una generalizzazione dell'efficacia soggettiva dei contratti collettivi aziendali che siano espressione della maggioranza dei lavoratori, nonché alla eliminazione delle norme legislative in contrasto con tali princìpi»333, nel Testo Unico tale auspicio non si trova, segno della volontà di «pensare ed agire per una regolamentazione autosufficiente concordata con la loro controparte classica, la Confindustria»334

Intervento legislativo che, verosimilmente, comporterebbe poi la rottura della tanto faticosamente ritrovata unità sindacale, non solo tra le Confederazioni, ma anche nel rapporto con le organizzazioni imprenditoriali: da un lato, infatti, è sufficiente leggere gli Statuti delle tre Confederazioni storiche per dissipare ogni dubbio circa la profonda frattura fra le visioni di “cosa sia un sindacato”, divergenze che, se fisiologicamente superabili nella prassi dialettica di accordi sindacali, in un‟ottica generale di pluralismo, diventerebbero inconciliabili se condite da «scelte di campo o invasioni della politica e del legislatore, (…) se non con soluzioni dirigistiche e coercitive o di precario compromesso»335.

331 F.C

ARINCI, Il diritto del lavoro che verrà, in WP Adapt, 28 maggio 2014, n. 158, p.13.

332 Ibidem. 333

Protocollo 23 luglio 1993, cit., parte 2, sez. rappresentanze sindacali, lett. f).

334 F.C

ARINCI, op.cit., p. 14.

335 M.T

Per quanto riguarda, poi, i contenuti di una eventuale legge sindacale, l‟utilizzo del principio maggioritario, connesso all‟estensione erga omnes dell‟efficacia dei contratti collettivi, appare ‒non solo per gli astensionisti‒ in conflitto con il principio di libertà sindacale sancito dall‟art. 39 della Costituzione. Inoltre, alcuni autori ne sottolineano gli eventuali pericoli sostanziali, in quanto «la regola maggioritaria applicata alle relazioni industriali finirebbe insomma per rafforzare e radicalizzare quelle posizioni massimaliste del sindacato più demagogico e deresponsabilizzato che pure, almeno a parole, i sostenitori della legge sindacale intendono marginalizzare»336.

Insomma un intervento legislativo di ampio respiro, oltre ad essere a rischio illegittimità rispetto all‟art. 39, svuotando di significato la scelta del lavoratore di aderire o meno al sindacato, «finirebbe per ingessare le dinamiche intersindacali comprimendone l‟attività all‟interno di logiche stataliste», e non solo per la tendenziale lentezza del legislatore ad adeguarsi alla mutata realtà delle relazioni sindacali, ma soprattutto per il rischio che i vari Governi, senza i contrappesi tipici dell‟autonomia sindacale, ingeriscano sulla disciplina sindacale in base a considerazioni puramente settoriali e mutevoli; ne è un esempio l‟art. 8 del d.lgs. 138/2011, “mostro” legislativo che non solo propende nettamente per la parte datoriale, ma opera una vera e propria sanatoria ex post a favore di una singola impresa, la Fiat.

E, d‟altro canto, nemmeno le organizzazioni imprenditoriali, «pur nella prevedibile e “forte” vicinanza con il legislatore, sarebbero difficilmente propense ad una codificazione delle regole di accertamento della rappresentatività dei datori di lavoro ai fini di legge e di vincolatività dei trattamenti previsti dai contratti collettivi nazionali», essendosi invece mostrate favorevoli alla disciplina

336 Ibidem, p. 168. Della stessa opinione anche Marco Biagi, per cui affidarsi alla legge o al

numero di voti ottenuti per affermare la rappresentanza «è una soluzione che ha sempre dato risultati non convincenti e non farebbe altro che esasperare le divisioni già profonde fra le nostre organizzazioni sindacali, destabilizzando ancor di più il sistema di relazioni industriali nel suo complesso»; M.BIAGI, Votare suo contratti esaspera le divisioni, in Il sole 24 ore, 23 novembre 2001.

intersindacale introdotta dal T.U., come testimonia la buona percentuale di adesioni, anche successive, da parte delle associazioni datoriali337.

Nel novero degli “astensionisti” rispetto ad una legge sindacale deve essere registrata anche la posizione favorevole di alcuni autori riguardo una diversa e più