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Integrazione tra sistemi gestionali complementari: l’HTA e il Risk

9. Proposte e conclusioni

9.3 Integrazione tra sistemi gestionali complementari: l’HTA e il Risk

L’attività di HTA, principalmente nella sua accezione di metodo di valutazione del rischio tecnologico può efficacemente integrarsi con lo strumento gestionale del Risk Management che, seppur solo di recente in ambito italiano, ampia diffusione ha avuto presso le strutture sanitarie e/o ospedaliere.

L’utilizzo del Risk Management per il governo dei rischi sanitari è stato introdotto negli USA verso la metà degli anni ’70 per cercare di ridurre i danni causati dalle cure mediche con l’obiettivo di contenere le spese dei processi e dei risarcimenti.

In principio il Risk Management sanitario si limitava ad analizzare i casi di negligenza, tuttavia già nel 1971 uno studio commissionato dall’amministrazione Nixon aveva dimostrato che i danni causati dalle cure mediche non erano necessariamente e sempre legati alla negligenza di una o più operatori, ma che potevano essere ricondotti a varie cause, diverse e spesso concomitanti:

• rischi intrinseci nelle nuove tecnologie;

• peggioramento progressivo dei rapporti medico-paziente; • attese spesso irrealizzabili dei pazienti;

• numero crescente dei professionisti coinvolti nel singolo episodio di cura. Negli anni ’70 solo poche strutture ospedaliere disponevano di una funzione specifica di Risk Management, nata più sotto la spinta degli assicuratori che non per un vero e proprio orientamento alla cultura della sicurezza.

Nel 1977 il California Medical Insurance Feasibility Study realizzò uno studio per identificare gli eventi che davano luogo a richieste di risarcimento danni negli ospedali statunitensi.

Lo studio indicò che il 4,65% delle ospedalizzazioni comportava il verificarsi di “eventi” potenzialmente soggetti a risarcimento, mentre lo 0,79% dava luogo a eventi compensabili per “negligenza”.

Nel 1980, dopo un ulteriore periodo di denunce, nacque una specifica organizzazione, la American Society for Healthcare Risk Management, che aveva l’obiettivo di fornire assistenza specifica agli ospedali che si erano dotati di una

funzione di Risk Management (che nel 1980 rappresentavano circa il 50% del totale degli ospedali statunitensi)(Marcon, 2001).

Nel 1999 l’allora Presidente degli Stati Uniti Clinton lanciò un piano per la sicurezza dei pazienti, attuato nel 2000 e rifinanziato dalla Amministrazione Bush nel 2001, che prevedeva l’implementazione delle seguenti linee progettuali:

• Progetti per la segnalazione degli errori medici;

• Uso del computer e dell’Information Technology nella prevenzione degli

errori;

• Condizioni di lavoro e sicurezza del paziente; • Approcci innovativi alla sicurezza del paziente; • Disseminazione dei risultati delle ricerche;

• Altre iniziative di ricerca sulla sicurezza dei pazienti.

L’introduzione del Risk Management propone in ambito sanitario una prospettiva nuova di analisi e di interpretazione del concetto stesso di “rischio clinico”, considerato non più solo come “errore medico”, ma “errore di sistema”, gestibile e controllabile tramite un processo integrato di azioni volte a individuare i punti critici di rischiosità e a introdurre sistemi di governo di tali rischi

Il Risk Management sanitario, in stretta analogia con quanto previsto per qualsiasi altro contesto aziendale, si concretizza in una serie di attività ordinabili per omogeneità di contenuti, in quattro fasi principali:

1. Individuazione dei rischi 2. Analisi/valutazione dei rischi 3. Trattamento dei rischi

4. Monitoraggio

Ciascuna delle suddette fasi può essere implementata tramite il ricorso a set di strumenti, alcuni dei quali appositamente sviluppati per la realizzazione delle attività di Risk Management, altri già comunemente adoperati per lo svolgimento delle attività sanitarie (per una trattazione più approfondita degli strumenti di Risk Management si rimanda all’APPENDICE III)

L’obiettivo dell’utilizzo degli strumenti di Risk Management consiste nell’individuazione della fase in cui il percorso di cura si disallinea da quello definito ottimale e nell’analisi delle cause degli scostamenti. Per una corretta valutazione dei

rischi, infatti, si rende necessario analizzare l’intero percorso del paziente, dal suo accesso alle cure ospedaliere alla sua completa remissione. Ciò anche in considerazione del fatto che l’evoluzione delle conoscenze mediche e lo sviluppo delle tecnologie utilizzate in ambito diagnostico e terapeutico hanno portato alla frammentazione del processo di cura che una volta si presentava caratterizzato da una sostanziale continuità (il medico curante generalmente seguiva il paziente anche in caso di ricovero ospedaliero). Questi strumenti di valutazione e gestione dei rischi sanitari, pertanto, contribuiscono anche a riportare l’attenzione sulla continuità dei percorsi diagnostici e terapeutici del paziente.

L’Unità di Risk Management si configura, al pari dei servizi di HTA, come una funzione trasversale alla struttura organizzativa e dotata di competenze fortemente multidisciplinari, la cui composizione può essere subire cambiamenti in base agli specifici programmi posti in essere. Il nucleo stabile non può tuttavia prescindere dalla presenza di competenze mediche, economiche, tecnologiche e legali, e può eventualmente ipotizzarsi un raccordo tra questo nucleo e sotto-unità specialistiche dislocate nei singoli reparti/dipartimenti.

In alcuni casi, focalizzando l’analisi sul rischio tecnologico, le attività di gestione del rischio (e dell’incertezza) possono esplicitarsi nella definizione – e nella revisione periodica - di linee guida e procedure comportamentali per il contenimento dei pericoli derivanti dall’interazione della specifica tecnologia con l’ambiente sanitario.

Si pensi al caso delle attrezzature per la Risonanza Magnetica per Imaging (MRI) - tecnica diagnostica innovativa per ottenere immagini bi- e tri-dimensionali del corpo umano - capaci di integrare l’informazione anatomica con parametri di caratterizzazione tessutale, biochimica e fisiopatologica.

Numerosi incidenti, taluni letali, si sono registrati, principalmente negli Stati Uniti, a causa del cosiddetto “effetto proiettile”, dovuto all’attrazione di oggetti metallici - presenti in aree attigue all’ambiente diagnostico MR - esercitata dal campo magnetico con forza tale da travolgere cose e ferire persone presenti nella traiettoria d’attrazione.

E’ questo l’esempio di una tecnologia molto diffusa - nel 2003 è stato stimato che le unità MRI presenti nel mondo fossero circa 10.000 - e ritenuta generalmente

sicura. I rischi esaminati, e ritenuti accettabili, nelle analisi di valutazione della tecnologia in oggetto di riferiscono principalmente agli effetti dei campi magnetici sul paziente mentre i pericoli derivanti dall’interazione dell’attrezzatura con l’organizzazione sanitaria, gestiti tramite la previsione di linee guida, appaiono talora sottovalutati.

Nonostante sia previsto dalle citate linee guida che nessun oggetto metallico venga condotto o depositato in prossimità dell’ambiente diagnostico MRI, bombole di ossigeno - almeno in cinque casi (Chaljub, G. et al., 2001) - parti di carrelli elevatori, una bombola di elio, un carrello per biancheria, una sedia, una scala a pioli, un portalampade, trasformatori, strumenti, forbici e pesi per trazione sono stati attratti dal campo magnetico generato dall’attrezzatura causando seri danni a persone e cose.

Tale tipologia di incidenti non presenta dimensioni significative se rapportate al numero di procedure diagnostiche effettuate in ambienti MRI17 e ciò è dovuto principalmente alla accurata formazione a cui è sottoposto il personale operante a diverso titolo in tali ambienti e il rispetto da esso garantito alle linee guida, emanate in Italia a livello regionale, in materia di detenzione ed utilizzo di apparecchiature a risonanza magnetica. Tuttavia, questi incidenti continuano ad accadere ed è probabile che ancora più numerosi risulterebbero i near misses qualora venissero registrati. La questione è che, sebbene definiti e applicati, le linee guida e i protocolli comportamentali abbisognano di essere adattati alla specifica organizzazione in cui le apparecchiature per la risonanza magnetica vengono introdotte e richiedono monitoraggio e revisione periodica. E’ necessario altresì valutare e verificare periodicamente il grado di accettazione e di condivisione delle procedure di sicurezza definite da parte del personale sanitario (medici, infermieri, ingegneri clinici, addetti alle pulizie, ecc.).

La gestione dei rischi delle tecnologie sanitarie rappresenta, pertanto, un processo continuo e circolare volto al monitoraggio e al contenimento dei fattori di rischio individuati e alla identificazioni di nuove potenziali, incerte, sorgenti di danno.

La previsione di specifiche unità di risk management all’interno delle organizzazioni sanitarie, l’implementazione di efficaci sistemi di raccolta e analisi dei dati relativi agli incidenti e ai near misses, la creazione e l’arricchimento formativo di figure professionali quali l’ingegnere biomedico, sviluppatore e profondo conoscitore di ogni aspetto della tecnologia medica, costituiscono utili passi verso una efficace gestione del rischio e dell’incertezza nelle fasi avanzate del ciclo di vita delle tecnologie biomediche.

9.4 “L’arricchimento” dei profili professionali attori del processo di HTA A partire dalla fine degli anni ‘90 è stata introdotto in Italia il corso di laurea in Ingegneria Biomedica, che prevede alcuni percorsi specifici orientati all’ingegneria clinica.

I profili professionali in uscita da tali corsi di studi sono impiegati in un numero crescente di strutture sanitarie e ospedaliere alla gestione delle tecnologie sanitarie. Tuttavia, la formazione dell’ingegnere biomedico, e in particolare dell’ingegnere clinico, risulta fortemente carente negli aspetti economico/gestionali inerenti le tecnologie biomediche.

L’art. 2 dello Statuto della Associazione Italiana Ingegneri Clinici (AIIC) definisce l’ingegnere clinico come “ un professionista che partecipa alla cura della

salute garantendo un uso sicuro, appropriato ed economico delle tecnologie nei servizi sanitari esercitando le seguenti attività:

valutazione di sistemi sanitari o procedure cliniche mediante la tecnica “technology assessment” o “technology management”;

programmazione degli acquisti di tecnologie;

valutazione degli acquisti di tecnologie;

gestione delle tecnologie (codifiche e classificazione, inventario, …)

collaudi di accettazione;

gestione della manutenzione e delle attività conseguenti;

gestione della sicurezza delle tecnologie;

controlli di sicurezza e funzionalità;

formazione sull’utilizzo delle tecnologie;

integrazione delle tecnologie nell’ambiente ospedaliero;

informatica clinica ed “information technology”;

Tali attività possono essere esercitate sia all’interno di una organizzazione sanitaria pubblica o privata (area ospedaliera) sia tramite società di servizi o attività professionali (area servizi).”

Da una indagine preliminare e sicuramente non esaustiva risulta che l’offerta di corsi post-laurea volti a formare tali professionisti – ingegneri – gestori delle tecnologie sanitarie, si concretizza, in Italia, in alcuni corsi di master, tra cui i seguenti:

• 18

Master di "Ingegneria Clinica" (di primo livello) - MIC, attivato dall’ Università di Trieste a partire dall'Anno Accademico 2003-2004;

Master specialistico (di secondo livello) in "Management in Clinical

Engineering" - SMMCE, attivato a partire dall'Anno Accademico 2003/04

dall’Università di Trieste e che rilascia titolo a valenza internazionale nell'ambito dell'University Network of the Central European Initiative

• Master in Ingegneria clinica (di primo livello) dell’Università di Bologna

• Master in Ingegneria clinica (di primo livello) in convenzione tra Prima e Seconda Facoltà di Ingegneria dell'Università di Bologna e COFIMP (Business School del mondo dell'imprenditoria e della PMI)

• Master in Ingegneria clinica dell’Università della Calabria (in rete non risultano informazioni circa l’attivazione) http://dipiter.unical.it/

I suddetti corsi mirano a formare tecnici con le seguenti 19 prospettive occupazionali:

18 I due Master, insieme alla Laurea Specialistica in Ingegneria Clinica attivata nel 2004, ereditano il contenuto formativo, ampliandolo, della Scuola di Specializzazione in Ingegneria Clinica attivata presso l’Università di Trieste nel 1991 (la riforma universitaria ha previsto la trasformazione delle Scuole di Specializzazione non mediche in corsi di Master e/o di Laurea Specialistica) I due master (e la laurea specialistica) sono realizzati dall’Università di Trieste con la collaborazione del Politecnico di Torino, dell'Università di Roma3, e di altri atenei italiani e stranieri, facenti parte del Network Internazionale ABIC-BME (Adriatic-Balcanic-Ionian Cooperation on Bio-Medical Engineering), del Network internazionale ALADIN (Alpe Adria Universities Initiative), nonché con la cooperazione di molti altri enti pubblici e privati.

19

art. 3 degli obiettivi del corso di laurea in ingegneria clinica dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, sbocchi professionali:“Per quanto riguarda la possibilità di collocamento nel mondo del lavoro del

1. Ingegnere Biomedico/Clinico nelle strutture sanitarie o nelle società che forniscono servizi nel settore dell’ Ingegneria Clinica

2. Specialista di prodotto presso produttori o distributori di attrezzature sanitarie.

Qualora l’ingegnere biomedico/clinico si configuri come dipendente di una organizzazione sanitaria svolge la sua attività all’interno del SIC (Servizio di Ingegneria Clinica) ospedaliero che si occupa principalmente di funzioni di supporto alle decisioni, quindi funzioni di staff per la Direzione Generale e Sanitaria, e funzioni più operative quali collaudi, manutenzioni, controlli. Si stima che per le circa 250 Aziende Sanitarie nazionali sono necessari 350 – 400 Ingegneri Clinici, attualmente è coperto solo il 35% circa del fabbisogno (Logo 2002). Solo in alcune Regioni è stata resa obbligatoria, tramite legge regionale, la presenza dell’ingegnere clinico all’interno delle strutture ospedaliere.

L’alternativa al SIC è costituita da società specializzate che svolgono servizi di ingegneria clinica. L’ANIE, la Federazione Nazionale imprese elettriche ed elettrotecniche, ha tra le Associazioni elettromedicali aderenti, una specifica Area Servizi Ingegneria Clinica.

Ciò che risulta evidente, sia dalle materie di insegnamento previste dai master individuati in ingegneria clinica, sia dalle attività effettivamente realizzate dai Servizi di Ingegneria Clinica interni alle aziende ospedaliere o in outsourcing, l’ingegnere biomedico/clinico è focalizzato in maniera quasi esclusiva sugli aspetti tecnici – collaudi, manutenzione, sicurezza – delle tecnologie sanitarie e sperimenta una

valore di sostituzione delle apparecchiature biomediche in Italia (1998) era superiore a 5.000 milioni di euro e il costo dei contratti di manutenzione, che le aziende ospedaliere spendono ogni anno è circa il 10 per cento di tale cifra, e cioè più di 500 milioni di euro. Occorre inoltre osservare come già da tempo le leggi vigenti (vedi ad esempio la Legge n. 626 sulla sicurezza) obblighino al collaudo di sicurezza tutte le apparecchiature biomediche, ma allo stato attuale, per la mancanza di professionisti competenti, se il collaudo viene eseguito ha solo carattere amministrativo.La mancanza di un ingegnere impedisce che vengano effettuate le verifiche strumentali delle prestazioni, della loro corrispondenza alle specifiche dichiarate dalle case costruttrici e dei requisiti di sicurezza. Nella maggioranza dei casi le apparecchiature non subiscono alcun controllo nel corso della loro vita utile né si attuano verifiche sul degrado delle prestazioni erogate né infine vengono effettuate operazioni di manutenzione programmata a meno dell’esistenza di uno specifico contratto di manutenzione. Attualmente nella maggior parte dei casi le prestazioni riguardanti la sicurezza e il controllo dell’esercizio sono affidate a personale senza sufficiente competenza tecnica.”

sostanziale carenza di 20formazione nei metodi HTA (competenze tuttavia previste per la figura dell’ingegnere clinico) e gestione delle tecnologie più in generale..

Se l’obiettivo è abilitare l’ingegnere biomedico/clinico all’Health Technology

Assessment, il termine assessment deve essere inteso come “qualsiasi processo di analisi e conseguenti relazioni delle caratteristiche di una determinata tecnologia; queste caratteristiche possono essere inerenti alla sicurezza, all’efficacia, alla flessibilità, alle indicazioni di utilizzo, ai costi, alla relazione costi-benefici, possono riguardare il campo sociale, economico ed etico.” (Institute of Medicine 1985).

L’aspetto economico/gestionale non può pertanto essere ulteriormente trascurato. Si ritiene che l’offerta di corsi post-laurea finalizzati alla formazione di professionisti del HTA possa essere ampliata e migliorata eventualmente mediante l’istituzione di percorsi formativi post-laurea, quali master e scuole di dottorato, ad hoc per ingegneri biomedici che ne integrino le competenze e ne completino il profilo

Team multidisciplinari medici economisti e ingegneri possono essere efficacemente costituiti-dopo adeguata formazione- e introdotti a supporto delle decisioni inerenti l’introduzione e la gestione delle tecnologie sanitarie a livello di sistema politico più in generale e delle singole organizzazione sanitarie/ospedaliere in particolare.

20

ad eccezione del Master di II livello dell’Università di Trieste che prevede moduli formativi in Health Management, Health Organization Management, Management of Medical Instrumentation, Health Planning, Purchases in Health