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una sintesi introduttiva

Capitolo 5 Profili critici

3. Intersezioni critiche

È emerso in quest'ultimo capitolo, l'esistenza di un vero potenziale degenerativo delle pratiche di Riparazione: penso al fenomeno di assimilazione della logica riparativa alla logica del diritto penale, ad alcune questioni come lo sviluppo di dinamiche ingovernabili dell'informalità e flessibilità della

Riparazione, piuttosto che all'effetto collaterale della neutralizzazione del conflitto e dell'espansione del controllo sociale, oppure ancora alla riconferma degli status di vittima e reo.

È possibile sostenere quanto questi diversi vulnera teorici e pratici, siano riconducibili alla Riparazione come concepita dalle interpretazioni "classiche" del paradigma riparativo, che vedono in quest'ultimo null'altro che un nuovo (magari postmoderno) paradigma di giustizia penale.

Tuttavia anche la concettualizzazione da me proposta, di Riparazione come reazione "entropica"

della Lebenswelt, come tentativo di rivitalizzazione del mondo vitale, presenta limiti e contraddizioni:

anche in questa prospettiva, la Riparazione detiene un potenziale degenerativo, potendo involvere in forme subdole di riproduzione dell'ordine giuridico-penale, pervenendo addirittura ad una

regolazione normalizzante di ogni micro-conflitto.

Ricordo che la Giustizia riparativa è stata concettualizzata in questa sede, come un particolare

dispositivo di interpretazione e regolazione della conflittualità sociale dichiarata, realizzante un effetto di rivitalizzazione della Lebenswelt atrofizzata, nelle sue potenzialità autoregolative, dall'azione

complementare di giuridificazione e giudiziarizzazione sociale, fenomeni connessi alla parabola del Welfare State biopolitico.

Ebbene, anche questa lettura ha i suoi limiti. Penso ad esempio, in questa prospettiva, all'effetto possibile della Riparazione come regolazione normalizzante "dal basso" delle interazioni sociali conflittuali, effetto che potrebbe far pensare ad alcune delle caratteristiche di quella che ho definito biopolitica post-disciplinare. Una delle ultime acquisizioni del primo capitolo si fondava sull'affermazione che l'esaurimento della biopolitica "tradizionale" del Welfare State, consistesse nell'esaurimento della sua componente disciplinare, con tutte le conseguenze "strutturali e "funzionali"

che questo ha comportato e comporta.

L'esaurimento delle tecniche di controllo disciplinare operative attraverso dispositivi e istituzioni, che anticipavano e rendevano possibile l'assoggettamento/soggettivazione biopolitico (comunque meno cogente di quanto sostenuto da Foucault), non significava fine della biopolitica, ma probabilmente, evoluzione della stessa. Lo scopo specifico del modelloneobiopolitico d'integrazione lato sensu sociale, mi sembrava essere la responsabilizzazione del soggetto, l'individualizzazione del sociale,

"promuovendo una forma governamentale di potere" (29), finalizzata ad irreggimentare le "forme"

cognitive, linguistiche e comunicative dei singoli; un sistema, quello neobiopolitico, basato su flessibilità, esaltazione di responsabilità individuali e facoltà cognitive, un sistema produttivo aperto, basato sulla collaborazione, sulla rete e su soggettività adattabili a ogni contesto. Centralità in questo modello veniva data alle risorse comunicative e relazionali, alle risorse "sociali" produttive di

"comunità", utilizzate (paradossalmente) per la de-socializzazione della moltitudine, la singolarizzazione delle responsabilità. La Giustizia riparativa potrebbe rappresentare una manifestazione ed un veicolo per questa forma tardo-moderna di biopolitica: funzionalizzando il processo comunicativo tra soggetti in conflitto alla responsabilizzazione degli stessi, astraendo la relazione conflittuale dalle contraddizioni della più ampia struttura sociale nel quale è radicata, privatizzando il conflitto, normativizzando la comunicazione tra le parti e stabilendo una disciplina per l'interazione comunque prodotta dall'esterno, le tecniche riparative contribuirebbero al processo di individualizzazione del sociale di cui sopra, asservendo la biopolitica tardo-moderna. I sedicenti vantaggi di tipo psico-pedagogico dell'azione riparativa come la presa di coscienza personale, l'incremento dell'autostima delle vittime ed del senso di responsabilità degli autori, il senso d'appartenenza alla comunità, piuttosto che la realizzazione attraverso la Riparazione di interventi psicosociali, nei quali viene riscoperta l'importanza delle emozioni e dei sentimenti, rappresenterebbero effetti neo-biopolitici, partecipando ad un processo di

normalizzazione delle facoltà cognitive, linguistiche e comunicative delle parti confliggenti secondo standard fissati dall'esterno, inducendo l'adesione delle stesse a forme di interazione costruite artificialmente e distanti dalla specificità reale dei confliggenti, finalizzate al controllo pervasivo degli stessi.

Proprio perché la biopolitica è relativamente indipendente dalle istituzioni statali, essa si può riprodurre in maniera proteiforme, in molti altri contesti, in forme inedite, anche al di là dei limiti dello statalismo welfarista, ad esempio attraverso i meccanismi de-centrati della Giustizia riparativa.

C'è un'altra "intersezione critica" che credo valga la pena di analizzare: si tratta del rapporto tra Lebenswelt e Riparazione, questa volta interpretabile in termini maggiormente critici.

Rammento che in questa sede l'azione Riparativa è stata intesa, ad elevato grado di astrazione teorica, come una forma di agire comunicativo esprimentesi in una tecnologia di interpretazione e gestione del conflitto sociale, che attraverso la risorsa comunicativa attinta dai mondi della vita quotidiana, permette ai partecipanti al conflitto di produrre-riprodurre "argomentativamente" il significato dell'interazione conflittuale e di gestirla in modo intersoggettivo e coerente con quella specifica rappresentazione

"relazionale" del conflitto, prescindendo dalla riduzione "oggettivistica" che ne farebbe il dispositivo giuridico. Questa interpretazione, inevitabilmente presenta dei limiti e delle contraddizioni.

Prima di tutto non tutti quelli che il diritto penale definisce crimini implicano una relazione sulla quale poter lavorare (reati senza vittima p. es.); in secondo luogo questa lettura nega i differenziali di potere

"sociale" nella generazione della realtà del conflitto in capo alle parti; anche poi, a voler prescindere dall'obiettiva difficoltà di identificare istanze e valori così generalmente condivisi da poter fondare una costruzione intersoggettiva della realtà del conflitto, non si può sottovalutare come il pericolo di istanze materiali indotte abbia presentato, recentemente, difficoltà alla riproduzione simbolica del mondo vitale e alle stesse forme di garanzia delle libertà, cosa dire infatti, della difficoltà o impossibilità di individuare

unaLebenswelt unitaria come sfondo condiviso dai soggetti socializzati nella società multiculturale? La società multiculturale è una società conflittuale (30). Il problema però, è che nella società del politeismo dei valori (31), individuare quel serbatoio di evidenze e convinzioni che i partecipanti alla

comunicazione utilizzerebbero per i processi di interpretazione e di interazione cooperativa e di

regolazione argomentativa dei conflitti, la Lebenswelt appunto, è operazione particolarmente difficile, se non impossibile.

Non mi diffondo oltre sui nodi problematici della Riparazione, promettendo una presa di posizione nelle conclusioni finali, per ora mi limito a dire, in maniera un po' perentoria, che tutte le critiche riproposte sono sensate se in quanto esse siano intese come "individuazione" di rischi possibili, mentre non possono non produrre perplessità se queste venissero intese come individuazione di rischi inevitabili (32).

Note

1. F. W. Nietzsche, Al di là del bene e del male, Newton & Compton, Roma, 1977.

2. R. Abel (ed), The Politics of Informal Justice, Academic Press, Los Angeles, 1982.

3. M. Pavarini, Dalla pena perduta alla pena ritrovata? Riflessioni su una "recherche", in "Rassegna penitenziaria e criminologia", 1/3, pp. 71-102, 2001.

4. Ibidem.

5. S. Cohen, Visions of Social Control, Polity Press, Oxford, 1985.

6. T. E. Marshall, Out of Court: More or Less Justice?, in R. Matthews (ed.), Informal Justice?, Sage, London, 1995.

7. R. Abel, The Politics of Informal Justice, cit.

8. M. Pavarini, Dalla pena perduta alla pena ritrovata? Riflessioni su una "recherche", cit.

9. R. Abel, The Politics of Informal Justice, cit.

10. G. Mannozzi, La Giustizia senza spada, Giuffrè, Milano, 2003.

11. R. Drislane, G. Parkinson, Social Science Dictionary, Athabasca University, 2003.

12. D. Macallair, Widening the Net in Juvenile Justice and the Dangers of Prevention and Early Intervention, Center on Juvenile and Criminal Justice, San Francisco, 2002.

13. D. Macallair, Widening the Net in Juvenile Justice and the Dangers of Prevention and Early Intervention, cit.

14. G. Mannozzi, La Giustizia senza spada, cit.

15. G. Cosi, Invece di Giudicare. Scritti sulla mediazione, Giuffrè, Milano, 2007.

16. R. Abel, The contradictions of Informal Justice, in R. Abel (ed.), The Politics of Informal Justice, cit.

17. G. Cosi, Invece di Giudicare. Scritti sulla mediazione, cit.

18. C. B. Harrington, Shadow Justice? The Ideology and Institutionalization of Alternatives to Court, Greenwood Press, Westport, 1985.

19. C. Messner, Mediazione penale e nuove forme di controllo sociale, in "Dei Delitti e Delle Pene", VII, 3, pp. 93-111 2000.

20. Ibidem.

21. C. Messner, Mediazione penale e nuove forme di controllo sociale, cit.; cfr. G. Ponti, Tutela della vittima e mediazione penale, Giuffrè, Milano, 1995.

22. Ibidem.

23. Ibidem.

24. C. Messner, Mediazione penale e nuove forme di controllo sociale, cit.

25. Ibidem.

26. Ibidem.

27. C. Messner, Mediazione penale e nuove forme di controllo sociale, cit.

28. M. Wright, Justice for Victims and Offender, Open University Press, Philadelphia, 1996.

29. M. Poster, The Second Media Age, Polity Press, Cambridge, 1997.

30. Cfr. J. Tully, Strange Multiplicity. Constitutionalism in the Age of Diversity, Cambridge University Press, Cambridge, 1995.

31. M. Weber, Il lavoro intellettuale come professione, Einaudi, Torino, 1977.

32.

M. Pavarini, Dalla pena perduta alla pena ritrovata? Riflessioni su una "recherche", cit.

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