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La mediazione penale per adulti nell'ordinamento italiano: IL D.lgs 274/2000

una sintesi introduttiva

2.4 La mediazione penale per adulti nell'ordinamento italiano: IL D.lgs 274/2000

Il D.lgs 274/2000, attuativo dell'art. 14 della legge delega 468/99, concretizza, nel nostro ordinamento, un nuovo modello di giustizia penale, ispirato a principi e preordinato ad obiettivi profondamente diversi da quelli tipici del sistema penale tradizionale. L'intervento del legislatore del 2000, lungi dal

configurarsi, almeno nelle intenzioni esplicitate, come mero tentativo di alleggerire il carico di lavoro degli operatori giudiziari, mira chiaramente a definire una nuova strategia di gestione del reato, seppur espressivo di conflittualità "minore", nuovi strumenti per la composizione del conflitto da crimine, dispositivi ascrivibili organicamente proprio al modello della Giustizia riparativa. Si è cercato altresì, di dare attuazione alle ormai pressanti richieste provenienti da organismi internazionali, di protezione e soddisfazione della vittima, di colmare il deficit di vicinanza e risposta dello Stato al verificarsi del crimine, di limitare l'utilizzo della stigmatizzante pena detentiva a vantaggio di meccanismi

"sanzionatori" a contenuto satisfattivo-riparatorio. È possibile allora affermare, che l'attribuzione della competenza penale del Giudice di Pace, rappresenti, almeno sulla carta, l'epocale superamento del carattere "ciclopico" della risposta sanzionatoria penale, il ripensamento del quasi automatico

ancoraggio della sanzione alla detenzione, promovendo invece l'accesso a modalità di definizione alternativa del conflitto innescato dal reato, semplificando e "flessibilizzando" le forme dell'intervento penale.

Prima di passare all'analisi delle misure riparative e mediatorie specificamente previste dal D.lgs 274/2000, è opportuno dedicare qualche pagina alla definizione del rapporto Giudice di Pace-Giustizia riparativa, al fine di rendere più chiaro il senso dell'inserimento della mediazione penale, tra gli

strumenti della conciliazione di cui dispone quel particolare soggetto giurisdizionale che è appunto, il Giudice di Pace. Il presupposto del rapporto in parola, mi sembra possa essere ravvisato nella natura del Giudice di Pace, come tipica struttura di gestione decentrata della conflittualità tra consociati. La dimensione di prossimità dell'attività di conciliazione, si rivela chiaramente il presupposto della

definizione di strategie di riparazione del danno. È possibile, infatti, operare nel senso di una gestione satisfattiva e costruttiva del reato, solo ipotizzando la vicinanza, e dunque la conoscenza "da dentro", delle situazioni conflittuali sulle quali si va ad agire. La prossimità permette poi, una risposta più tempestiva alle diverse istanze avanzate dai consociati, aumentando la probabilità di soddisfazione delle parti e di prevenzione del manifestarsi di conflitti di forte intensità. Il livello di prossimità

dell'operato del Giudice di Pace, come contesto della riparazione, risulta altresì, dalla considerazione del legame tra il Giudice di Pace e gli Enti Locali. Si pensi ad esempio, a come i Comuni interessati partecipino, ex art. 2 L. 374/91, all'istituzione di sedi distaccate dell'ufficio del Giudice di Pace o all'accorpamento di uffici contigui. Con la stessa prospettiva, nella stessa legge, viene stabilito che i locali nei quali sono ubicati gli uffici del Giudice, possano essere forniti dai Comuni, cui verrebbe corrisposto un contributo annuo a carico dello Stato, nel caso in cui le strutture edilizie delle preture non siano utilizzabili a quello scopo (art. 14). A ciò si aggiunge in fine, il rapporto di finanziamento che intercorre tra Giudice di Pace ed EE.LL., vale a dire il fatto che buona parte delle spese dell'ufficio del Giudice, comprese quelle per la mediazione penale, siano sostenute proprio dagli EE.LL.

Entrando ora nel merito del D.lgs 274/2000, dirò che l'attribuzione di competenze penali al Giudice di Pace, giudice non togato istituito nel 1995, è relativa a fattispecie penali espressive della cosiddetta microconflittualità intersoggettiva, tutti reati, come vedremo, caratterizzati dal fatto di destare un limitato allarme sociale. Nella gestione di tale conflittualità il Giudice di Pace dovrà perseguire la conciliazione fra le parti, principio che informa di sé tutta la normativa.

Le misure predisposte e offerte dall'ordinamento al Giudice di Pace per realizzare la conciliazione sono fondamentalmente di tre tipi: misure strettamente sanzionatorie non detentive, misure conciliativo-mediatorie, misure tipicamente riparative. Nella prima categoria di provvedimenti rientrano le prestazioni di attività non retribuite a vantaggio della comunità ex art. 54 (leggibile anche in ottica riparativa), l'obbligo di permanenza domiciliare (art. 53) e misure prescrittive specifiche (pena

pecuniaria); alla seconda categoria è ascrivibile la mediazione ex art 29 co. 4 finalizzata alla remissione della querela; alla terza categoria attengono infine, le condotte riparative "estintive" del reato ex art 35.

A quest'innovativo strumentario lato sensusanzionatorio, va aggiunta la possibilità ex art. 34

dell'esclusione di procedibilità per particolare tenuità del fatto, istituto mutuato dal processo minorile (art 27 D.P.R. 448/88).

Prima di soffermarmi sulle disposizioni del D.lgs 274/2000 che introducono nell'ordinamento penale misure mediatorie e riparative, ricordo che la prima e preliminare innovazione del decreto è

l'attribuzione (art. 21) alla parte offesa di poter citare direttamente in giudizio l'autore del reato per rivalersi dei propri interessi lesi, emancipandosi dal ruolo statico e marginale normalmente rivestito, per diventare protagonista del procedimento, tale inedito potere è esercitabile solo nei casi di reati

perseguibili a querela.

Fatta tale debita premessa, inizio la panoramica sulle innovative misure riparative del D.lgs 274/2000, con l'analisi dell'art. 29, disposizione sintomatica dello spirito che anima suddetto provvedimento.

Cito direttamente dal testo normativo:

"Il giudice, quando il reato è perseguibile a querela, promuove la conciliazione tra le parti.

In tal caso, qualora sia utile per favorire la conciliazione, il giudice può rinviare l'udienza per un periodo non superiore a due mesi e, ove occorra, può avvalersi anche dell'attività di mediazione di centri e strutture pubbliche o private presenti sul territorio.

In ogni caso le dichiarazioni rese dalle parti nel corso dell'attività di conciliazione non possono in alcun modo essere utilizzate ai fini della deliberazione".

Questo è il comma quattro di suddetto articolo, denominato "Udienza di comparizione", facente parte del capo IV, definito "Giudizio".

Per la prima volta in modo esplicito, trova sanzione giuridica come strumento di conciliazione, la possibilità di accedere alla mediazione penale, quella tecnica di gestione del conflitto innescato dal crimine, informale, consensuale e soprattutto autonoma dalla sede giudiziaria.

Il Giudice di Pace, infatti, quando il reato è perseguibile a querela, può, se lo ritiene utile, promuovere la mediazione tra le parti al fine della conciliazione, che sarà suggellata dalla remissione della querela, agendo personalmente oppure, ove occorra, servendosi di strutture apposite, esterne all'apparato giudiziario, dopo aver rinviato l'udienza per un periodo massimo di due mesi, tempo nel quale si svolgerà la mediazione.

Nodi problematici in sede esegetica, che provo ora ad analizzare, sono le espressioni testuali "qualora sia utile" (rinviare per conciliare) e "ove occorra" (servirsi di strutture di mediazione). Nel primo caso l'interrogativo cui rispondere, concerne l'utilità generale del rinvio per conciliare le parti. Come

suggerisce Carlo Sotis (8), tale rinvio dovrebbe essere sempre necessario, con eccezione delle ipotesi in cui la conciliazione sia già avvenuta, o è comunque percepibile si addivenga agevolmente e in tempi brevi ad essa. In questo caso il giudice valuterà la situazione in sede d'udienza di comparizione senza ulteriori rinvii. Altra eccezione è l'ipotesi in cui occorra accertare il fatto, mancando quello che dalla normativa internazionale viene definito requisito minimo d'accesso alla mediazione, vale a dire la convergenza delle parti nella ricostruzione essenziale del fatto delittuoso. Sotis suggerisce il rinvio sia utile anche nei casi in cui le parti non convengano pienamente sull'andare in mediazione, in modo tale da informare le stesse, quantomeno di cosa sia in concreto tale pratica.

Altro quesito interpretativo è quell'"ove occorra", riferito all'utilità della mediazione (per conciliare), magari svolta da strutture esterne, quesito che potremmo dire centrale.

La risposta più semplice da offrire, è che solo nei casi in cui le parti non desiderino ricucire la relazione interrotta dal verificarsi del delitto, ma preferiscano limitarsi a riparare gli effetti dannosi con semplici reintegrazioni, indennizzi, risarcimenti, il giudice possa fare a meno del servirsi di un servizio di mediazione professionale. In questo caso potrà operare in prima persona ai fini della conciliazione, in un'ottica transattivo-negoziale.

Chiudo la disamina dell'art 29, sul quale avrò modo di tornare in sede d'analisi sociologico-giuridica, ricordando la previsione di una rilevante garanzia che permette il coordinamento tra il ricorso alla mediazione e il principio costituzionale di presunzione di innocenza. L'art. 29 contempla, infatti, il divieto di utilizzazione delle dichiarazioni rese dalle parti durante la mediazione, ai fini della deliberazione, principio affermato anche dalla normativa comunitaria in materia.

La strada di ingresso della mediazione nel nostro ordinamento non è solo quella prevista dall'art. 29, il D.lgs 274/2000 definisce, infatti, altri due fondamentali istituti connessi (o comunque "connettibili" in via interpretativa) alla pratica mediatoria. Prima di tutto l'art 34, che prevede l'"esclusione della procedibilità nei casi di particolare tenuità del fatto". Può essere qualificato come particolarmente tenue il fatto, quando:

"[...] rispetto all'interesse tutelato, l'esiguità del danno o del pericolo che ne è derivato nonché la sua occasionalità e il grado della colpevolezza non giustificano l'esercizio dell'azione penale, tenuto conto altresì del pregiudizio che l'ulteriore corso del

procedimento può recare alle esigenze di lavoro, di studio, di famiglia o di salute della persona sottoposta ad indagini o dell'imputato".

Emerge chiaramente dal disposto dell'art. 34, la presa di coscienza del legislatore circa la virtualità stigmatizzante delle conseguenze dell'esercizio dell'azione penale, foriera di pregiudizi concreti circa il lavoro, lo studio, la famiglia e la salute dell'imputato. È per questi rilevanti motivi che nel caso di

"tenuità del fatto", ovvero della sproporzione tra il disvalore sociale del comportamento astrattamente sanzionabile e le deleterie conseguenze per il reo dell'attivazione dei meccanismi giudiziali penali, è possibile l'esclusione della procedibilità. Viene introdotta in questo modo una misura del tutto simile al non luogo a procedere per irrilevanza del fatto criminoso minorile (art. 27 DPR 448/88), adattato ovviamente alle caratteristiche del reo adulto. Da considerare tuttavia, che l'esito estintivo del reato e l'assenza di sanzione per il colpevole, potrebbero frustrare l'esigenza dell'offeso e della collettività di attribuzione della responsabilità, riparazione del danno e ripristino dell'ordine sociale. A questo vuoto di

giustizia potrebbe rispondere proprio la mediazione, fissando un percorso attraverso il quale cercare di addivenire alla riparazione del danno prima dell'esclusione della procedibilità, riparazione cui darebbe adito, seppur in modo indiretto, l'art 34.

Altro varco aperto alla mediazione penale, è rappresentato dall'art. 35, che riconosce alla "condotta riparativa" realizzata prima del giudizio, efficacia estintiva del reato:

"Il Giudice di pace, sentite le parti e l'eventuale persona offesa, dichiara con sentenza estinto il reato, enunciandone la causa nel dispositivo, quando l'imputato dimostra di aver proceduto, prima dell'udienza di comparizione, alla riparazione del danno cagionato dal reato, mediante le restituzioni o il risarcimento, e di aver eliminato le conseguenze dannose o pericolose del reato.

Il giudice di pace pronuncia la sentenza di estinzione del reato di cui al precedente comma solo se ritiene le attività risarcitorie e riparatorie idonee a soddisfare le esigenze di

riprovazione del reato e quelle di prevenzione".

Prima dell'udienza di comparizione, il reo può quindi dimostrare di aver provveduto alla riparazione del danno, elidendo gli effetti pregiudizievoli del reato, nelle forme del risarcimento o della restituzione, nonché all'eliminazione, sostenuta da presupposti diversi dalla restituzione, delle conseguenze dannose del proprio comportamento. E' disposto che si verifichi, ai fini del riconoscimento della fondatezza della causa estintiva, che la riparazione del danno sia adeguata alla soddisfazione delle esigenze di riprovazione e di prevenzione (9). La norma introduce in questo modo due criteri-guida per l'esercizio della discrezionalità del giudice, parametri tuttavia di difficile definizione interpretativa e probatoria. Prevenzione potrebbe significare prevenzione generale, la condotta riparativa dovrebbe allora essere funzionale al ripristino della pace sociale, ma anche prevenzione speciale, cioè

riconciliazione reo-vittima e conseguente effetto di risocializzazione. Riprovazione potrebbe intendere proporzionalità tra gravità del fatto socialmente, ma anche individualmente percepita e condotta riparatoria.

L'istituto in esame, ha poi sollevato diverse perplessità, circa la sua ascrizione al paradigma riparativo, dubbi amplificati dal ruolo minimale previsto per la vittima nel funzionamento dell'istituto, godendo quest'ultima dell'unico diritto di essere sentita prima della dichiarazione dell'estinzione del reato.

Altro vulnus dell'istituto appare l'assurgere a criterio guida per il giudice, dell'efficacia sanzionatoria della condotta del reo, che limita grandemente la valenza riparatoria dell'art 35, il quale a ben vedere risulta gravitare più intorno al paradigma del diritto penale minimo che della restorative justice.

Un ultimo spazio per la mediazione potrebbe ricavarsi da un'interpretazione teleologica dell'art. 54.

"Il Giudice di pace può applicare la pena del lavoro di pubblica utilità solo su richiesta dell'imputato. Il lavoro di pubblica utilità non può essere inferiore a dieci giorni né superiore a sei mesi e consiste nella prestazione di attività non retribuita in favore della collettività da svolgere presso lo Stato, le Regioni, le Province, i Comuni o presso enti od organizzazioni di assistenza sociale e di volontariato"

Una volta definiti gli spazi aperti alla mediazione penale dal D.lgs 274/2000, provo ora ad individuare e descrivere le fattispecie codicistiche realmente mediabili (soprattutto mediante il ricorso all'art. 29), riconducibili a tre categorie omogenee:

‡delitti contro l'onore: artt. 594, 595, 616 c.p.

‡delitti offensivi di interessi individuali disponibili: artt. 626, 627, 631-33, 635-639

‡delitti offensivi di interessi personali indisponibili: artt. 582, 590.

Tutte e tre le categorie fanno riferimento a reati perseguibili a querela e concretamente mediabili. Nel primo caso la perseguibilità a querela garantisce la vittima dalla pubblicità del dibattimento, per evitarla od ottenerla, quando l'obiettivo dell'inserimento di tali tipi di reati (ingiuria, diffamazione, violazione, soppressione o sottrazione di corrispondenza) tra quelli mediabili, dovrebbe essere quello di consentire un'ulteriore privatizzazione del conflitto.

Alla seconda categoria ineriscono reati come furti perseguibili a querela, sottrazione di cose comuni, usurpazione, deviazione di acque e modificazione dello stato dei luoghi, invasione di terreni ed edifici, danneggiamento, introduzione o abbandono di animali nel fondo altrui, ingresso abusivo nel fondo altrui, uccisione o danneggiamento di animali, deturpamento e imbrattamento di cose. In questo caso la

querela è finalizzata all'individuazione della meritevolezza della risposta sanzionatoria o riparativa, che spetta in concreto alla parte, non essendo fissata una volta per tutte dal legislatore. La possibilità di mediare è invece funzionale ad offrire risposte differenziate per fatti criminosi il cui limitato disvalore sociale non giustifica obiettivamente la pena, richiedendo tuttavia l'attivazione di una confacente strategia di gestione degli interessi lesi della vittima.

Al terzo gruppo afferiscono reati offensivi di interessi indisponibili, si pensi alle lesioni corporali, in questo caso la querela svolge funzioni eminentemente deflative del carico di lavoro degli operatori giudiziari, quando la mediazione assolve il compito tipico di tutelare la vittima ed evitare la sofferenza della pena al reo.

Chiare appaiono infine, le costanti criminologiche caratterizzanti il catalogo di reati mediabili: l'autore del reato è sempre una persona fisica, proprio come la vittima; la vittima è sempre perfettamente identificabile; la "gravità" del fatto, il cui indice è la sanzione penale astrattamente prevista, è modesta;

il bene giuridico offeso è sempre personale.

La portata innovativa, sperimentale delle disposizioni contenute dal D.lgs 274/2000, in generale lo spirito che anima il provvedimento, non possono non stimolare da una parte la riflessione critica sullo stesso, dall'altra, la valutazione circa l'effettività del provvedimento. La domanda che di conseguenza si può porre, è come sia stata applicata e recepita la normativa sopra vista da operatori e comunità, quanto e come funzioni nella prassi la mediazione presso il Giudice di Pace, chi vi accede, con quali esiti e prospettive. A tutti questi interessanti interrogativi proveremo a rispondere nell'ultima fase del nostro studio, l'analisi sociologico-giuridica in stile etnografico.

3. La mediazione penale: un profilo

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