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Intervista a Lilian Pizzi, psicologa clinica.

Tabella 1 Distribuzione sul territorio dei migranti secondo il Piano di accoglienza

3.2 Aspetti Sanitar

3.2.2 Intervista a Lilian Pizzi, psicologa clinica.

Ho conosciuto Lilian Pizzi durante la mia attività di volontariato sull’isola di Lampedusa nell’estate del 2013 e ho ritenuto fosse importante la sua testimonianza al fine di contribuire al presente testo con uno squarcio di realtà sulla situazione del lavoro psicologico con i migranti. Segue il testo dell’intervista effettuata sabato 11 gennaio 2014.

Nome: Lilian Pizzi Genere: F

Età: 37

Professione: psicologa clinica

o Qual è la tua formazione? Come sei arrivata a lavorare con i migranti?

Psicologa clinica e di comunità, laureata alla sapienza di Roma, ho strutturato e seguito un master di etnopsichiatria clinica e psicologia transculturale conseguito a Roma all’istituto Beck, intanto ho iniziato la scuola di psicoterapia transculturale a Milano presso la fondazione Cecchini Pace, ho poi un master in gestione della violenza di genere a Roma Tre e ho cominciato il lavoro con i migranti nel 2003 quando sono ritornata da un lungo viaggio in Africa che ho fatto per circa due mesi e mezzo, e ho cominciato a lavorare con le donne migranti per una ricerca che era sui sogni e sui bisogni delle donne straniere a Roma. Poi da lì non ho più smesso perché ho lavorato con le persone transgender italiane e straniere presso l’associazione Libellula e poi la mia grandissima formazione l’ho avuta al centro Frantz Fanon di Torino che è un centro di etnopsichiatria diretto dal professore Roberto Beneduce dove ho molto lavorato con le donne vittime di tratta, con vittime di tortura, con torturatori e migranti in genere da un punto di vista proprio della psichiatria poi nel 2011 ho strutturato per conto di una cooperativa insieme ad altri colleghi un servizio di supporto psicologico proprio per l’ENA (Emergenza Nord Africa) e ho lavorato quindi a Civitavecchia inizialmente quando sono arrivati i primi flussi fino al novembre 2011 e poi fino al 2013 ho lavorato nei vari CARA di Roma sempre come psicologa.

o Che ruolo ha lo psicologo all’interno dei CARA dove hai lavorato?

Allora bisogna fare una differenza tra i Cara e i CPSA di Lampedusa perché sono due cose diverse. Ti posso dire quale ruolo rischia di avere lo psicologo: è quello di controllore, di colui che analizza la persona sulla base di categorie nostre occidentali quindi non adeguate e anche sulla base di una domanda presunta che non c’è perché i CARA come tutti i centri di accoglienza in realtà sono luoghi di controllo e non sono dei luoghi di accoglienza quindi se uno psicologo non è formato a quella che è la violenza di questo campo rischia di fare dei danni molto grossi nel senso che…per esempio ci sono dei CARA in cui fanno interviste strutturate in cerca del trauma, questo è ovvio che è una violenza diagnostica proprio perché chi arriva è una persona forte, è una persona che non esprime una domanda d supporto in questi termini quindi il ruolo dello psicologo secondo me dovrebbe essere ed è almeno nel modo in cui poi io ho sempre strutturato il mio lavoro è quello di essere un punto di riferimento che offre uno spazio alla confusione della persona e non che dà risposta; questo significa ovviamente che è molto difficile costruire dei rapporti di fiducia con le persone che prima ti devono osservare, ti devono studiare per capire in che termini possono parlare con te ovviamente la politica deve sempre entrare nella clinica perché sono dei soggetti politici che arrivando qui poi vengono scorporati nelle loro dimensioni perché i CARA comunque tendono ad indurre una frammentazione della persona, bisogni psicologici, sanitari, giuridici dove si perde il soggetto. Sono luoghi molto spersonalizzanti.

o Quale ruolo invece al CPSA di Lampedusa?

Quello che cambia è il momento nel percorso delle persone, quando arrivano sono estremamente contenti ed estremamente confusi, io lì lavoravo con i minori stranieri e con le famiglie con bambini quindi non con gli adulti, anche se poi mi sono ritrovata lo stesso a lavorare anche con gli adulti. L’importante è quando arrivano…

Io posso dirti quello che mi sono inventata naturalmente, che poi alla fine l’ho strutturato quest’anno questo servizio (con Save the children. ndr), in genere appunto quando arrivavano i migranti noi facevamo dei gruppi, per esempio dei minori stranieri dalla Somalia piuttosto che dal Ghana o altri paesi c’erano già dei gruppettini naturali nel senso che sono dei ragazzi che fanno dei viaggi insieme quindi io andavo e oltre a dar loro il benvenuto, a chiedergli se loro avevano voglia di darmi del tempo quindi

cercando di creare un dialogo che non fosse di sopraffazione o di tipo educativo che è assolutamente dannoso in contesti di quel genere offrivo uno spazio in cui iniziavo presentando appunto chi eravamo noi, spiegavo il perché di uno psicologo anche se poi per tanti di loro neanche è chiara che cosa sia la figura dello psicologo in un centro, spiegavo anche dove eravamo nel senso che a loro poi di fatto nessuno spiega effettivamente dove sono, spiegavo che la polizia non avrebbe fatto loro violenza quindi, come dire, cercavo di lanciare degli input sia per comprendere meglio il contesto considerando che sono tutte persone che arrivano dalla Libia e che quindi hanno subito delle violenze estreme quasi tutte o che comunque hanno subito processi di cosificazione97 , di schiavitù perché questo avviene in Libia. Accennavo appunto al fatto che la polizia qui non è cattiva..ecco..diciamo così.. è che molti di loro avevano degli scatti quando vedevano la polizia e infatti tutti dicevano “è vero quando vediamo i militari ci viene da scappare ecc..” . chiedevo come stavano, come si sentivano e poi partendo da quello quindi dando a loro comunque la palla nel senso che io poi alludevo a qualcosa dei loro paesi d’origine perché se una persona arriva dalla Somalia piuttosto che dalla Nigeria ha una storia diversa e motivazioni diverse.

Anch’io cercavo di creare un dialogo con il gruppo e anche con ognuno di loro, dando spazio appunto alla confusione nel senso che lasciavo uno spazio insaturo affinché poi fossero loro a riempirlo offrivo anche delle cose più pratiche ovvero chiedevo per es. “avete bisogno di sapere qua come funziona il sistema scolastico piuttosto che di occupazione. Ditemelo.” Però quello che cercavo di fare era far loro comprendere come mi potevano usare in qualche modo sia come punto di riferimento nelle cose pratiche sia come punto di riferimento invece per questioni più profonde infatti quasi sempre appunto poi emergeva il tema della Libia, il tema della paura della morte, il tema del viaggio come rituale di passaggio ma anche come rito che li univa anche molto e poi nei gruppi c’erano sempre delle persone che mi cercavano per parlare in maniera più approfondita e quindi ho fatto anche dei micro percorsi individuali che terminavano in genere con una segnalazione fatta sia a Save the Children che all’ente gestore che avrebbero poi inviato alla comunità dove la persona poi sarebbe stata mandata e in queste mie relazioni non ci sono ovviamente diagnosi ma un tentativo di far capire ai colleghi la complessità del contesto in cui le persone arrivano.

                                                                                                                         

o Quali implicazioni psicologiche si porta dietro il non essere riconosciuti come parte di una società?

Ti posso parlare sulla base del lavoro che ho fatto per circa due anni durante l’emergenza Nord Africa, allora bisogna dire questo.. le persone che arrivano qua conoscono l’occidente, conoscono l’Europa, conoscono i bianchi, termine infelice ma che ha ancora senso all’interno di un tema complesso, però i danni sono importanti nel senso che le persone arrivano qua e si sentono forti. Quando arrivano dalla Libia comunque hanno una grande energia da investire. A me infatti quando sono sull’isola e vedo le persone che partono fiduciose di trovare un qualche cosa di meglio mi si stringe il cuore perché so poi quello che vanno a trovare. Vanno a trovare una realtà in cui sembra che il loro tempo non abbia valore perché i tempi di attesa sono lunghissimi come se ci fosse una sorta di parallelismo tra una svalutazione delle matrici storiche che portano le persone a migrare quindi le cause geo-politiche e anche storiche naturalmente e la considerazione del tempo soggettiva del migrante che sembra non aver valore, sembra che possano aspettare due anni, tante volte, come ho poi scritto nell’articolo che ti manderò, sentono dire “ah ma hai già fatto un viaggio lungo due anni, cosa ti cambia aspettarne altri due?” come se il loro tempo avesse un altro valore rispetto al nostro. Io ho visto delle persone ammalarsi all’interno dei centri d’accoglienza, ammalarsi proprio per questi processi di spersonalizzazione, di scorporarizzazione del soggetto nel senso che loro esistono e sono visibili solo quando vanno a farsi visitare, per esempio come corpi da studiare, da analizzare, mentre come camminano per la strada diventano invisibili e parlando poi del caso del nostro paese è doppiamente difficile perché parlando del nostro sistema che chiamano d’accoglienza è profondamente svalutante e non favorisce la riuscita di queste persone ma anzi il loro fallimento perché i fondi che vengono presi dalle cooperative non vengono usati per le persone di fatto vengono usati per creare occupazione tra gli italiani e i migranti che vivono nei centri d’accoglienza hanno chiarissimo questo meccanismo di nuova schiavitù come se la loro vita non servisse a loro ma a noi. E ci sono delle fantasie di vampirizzazione, questo termine è stato usato da un mio paziente che poi è morto a Malta, me l’hanno detto quest’estate…un signore cha ha passato nel centro d’accoglienza durante l’ENA un anno e mezzo, non ha potuto fare niente…all’interno del centro c’era un corso di lingua italiana tenuto da una persona che non sapeva insegnare…quindi è tutto volto a far capire a queste persone che non sono i benvenuti, che non li vogliamo. Perché è un

sistema d’accoglienza che ti respinge in realtà e che ti condanna alla marginalità. Pensa che in una città come Roma se tu non dai neanche un biglietto per l’autobus a queste persone e quindi le esponi a continue umiliazioni o se tu non dai dei soldi alle persone ma gli dai una tesserina con dentro un credito con la quale loro possono prendere delle merendine, 30 euro di merendine a settimana oltre ad essere uno schiaffo che tu dai alla persone, le esponi anche ad un processo di umiliazione, li tratti come bambini, li tratti come “non soggetti” fondamentalmente e quindi sono costretti ad andare a cercare nella spazzatura delle cose che poi rivendono e mandano in Africa però sono persone che non possono raccontare ai loro familiari ciò che stanno vivendo perché non vengono credute, perché come spiega anche il sociologo Sayad Abdelmalek ne “la doppia assenza” il migrante vive una doppia assenza…qui perché appunto nessuno lo vede e nel paese d’origine quando lui dice quanto sia difficile qua la vita non viene creduto. Parte da un meccanismo di difesa da parte dei familiari in una sofferenza che potrebbero provare nel sapere che la persona sta così male e poi perché molto di loro vogliono venire qua e molti pensano che si voglia “mangiare la torta tutto da solo”. E in più perché c’è una difficoltà a livello collettivo a riconoscere che l’Africa è stata ed è tuttora schiacciata da una popolazione così violenta (occidente) e quindi ci si chiede “ma com’è possibile che questa cultura che ha vinto quando poi tu la sposi ti respinge?! “ ti puoi immaginare la sofferenza di queste persone che quindi poi si ammalano, molte bevono, molte cominciano a fare uso di droghe, ad entrare nei circuiti di spaccio perché è l’unica cosa che possono fare . vengono offesi nelle piccole cose, c’è una violenza anche nelle piccole cose che poi non porta a fidarsi.

o Storie che ti hanno colpito?

Queste persone sono dentro un vincolo di violenza strutturale. La violenza strutturale è quel tipo di violenza economica politica e sociale che poi penetra i rapporti personali e famigliari, tutte le persone che arrivano dall’area della post colonia, sono delle aree dove non ci sono di meccanismi democratici, sono costretti ad elaborare delle strategie contro la violenza che viene messa in atto quotidianamente cioè c’è una differenza sicuramente tra la violenza che viene vissuta in Eritrea dove c’è una dittatura feroce, in cui tutti devono stare attenti a tutto ciò che dicono perché il paese è pieno di spie e un paese come per esempio il Ghana o il Gambia dove c’è un totale squilibrio della distribuzione delle ricchezze e quindi sai che o tu hai conoscenze o non potrai neanche

studiare e quindi sono delle persone abituate alla violenza sociale, politica che elaborano fin da piccoli per sopravvivere, infatti ci sono gli scritti di un sociologo camerunense Achille Mbembe che parla proprio dello stato psicologico delle persone che vivono in uno stato di guerra o che vengono da zone in cui le persone hanno dovuto elaborare strategie di difesa sempre più elaborate per sopravvivere. Poi il viaggio nel Sahara già inizia un processo di cosificazione della persona nel senso che lì si ha la percezione di essere trattati come oggetti, le violenze e anche soprattutto essere presenti durante le violenze che vengono messe in atto nei confronti delle donne poi restano delle tracce abbastanza indelebili nelle persone perché fa forse più male assistere ad una violenza senza poter fare nulla piuttosto che subirla. Sono tanti gli uomini che passano per il Sahara e per le carceri libiche, soprattutto eritrei che assistono allo stupro delle donne che vengono portate via durante la notte e non fanno niente, non possono fare niente.Parlavo con un ragazzo del Gambia di 19 anni a Lampedusa che mi ha mostrato la foto di un suo amico che è stato freddato da un colpo di pistola per la strada in Libia solamente perché guardava una persona e dopo avergli detto “sporco negro” gli hanno sparato oppure gli stupratori seriali malati di HIV che stuprano in Libia le donne. Quindi le donne e gli uomini che arrivano qua hanno già vissuto delle violenze estreme sia nei loro paesi di provenienza che durante il viaggio, quello che non si aspettano ed è forse la cosa più strabiliante è la violenza che portiamo avanti nei sistemi d’accoglienza. Tanti di loro arrivano a dire “ meglio in Libia che qua” perché arrivano qui e si aspettano un paese che dice di difendere i cosiddetti diritti umani e poi invece è il primo a schiacciarli. Di casi ne avrei tantissimi… ho lavorato con i superstiti del 3 ottobre con i quali sono ancora in contatto…un contatto d’amicizia ormai perché abbiamo passato insieme un mese e mezzo. È stato micidiale.

o Emergenza nord africa e aspetti sanitari

Ti posso parlare di ciò che ho visto io dentro il CARA dove ho lavorato durante l’ENA, c’era una massiccia medicalizzazione dei corpi dal punto di vista sanitario, questi tempi biblici di attesa della Commissione a volte venivano riempiti facendo fare esami ai migranti continuamente . li mandavano a fare un esame da una parte, un esame dall’altra… chissà forse si sono ammalati anche per le dosi massicce di OKI date per qualsiasi cosa. Il dolore di queste persone sicuramente tante volte non è stato compreso perché poi passava attraverso il corpo quella che era una domanda d’ascolto, di

riconoscimento. Dal punto di vista della salute mentale purtroppo l’Italia non è preparata a lavorare con i migranti quindi molte volte fa dei danni più che aiutare le persone, molte volte si fanno delle diagnosi sorde a qualsiasi considerazione di quelle che sono poi tutte le condizioni politiche che vive la persona ma anche le condizioni di vita ecce cc… molte volte c’è stata una non comprensione di tutti questi aspetti e quindi una psichiatrizzazione di casi che non erano psichiatrici. Ho visto tante scene schifose, proprio quando vedo il CARA di Civitavecchia, era settembre 2011, c’era circa mille persone in un CARA vergognoso, senza acqua corrente, veramente uno dei luoghi più squallidi, disumani che io abbia mai visto, in cui sono passate tantissime persone, era un ex caserma dei Carabinieri, tutta fatiscente immensa dove sono state tenute, non posso dire ospitate. Io ero lì da pochissimi giorni e c’era un uomo nella stanza d’attesa dove c’era l’operatrice sanitaria, che non era nemmeno un’infermiera e lui era sdraiato a terra senza sensi e aveva dei tremori, dei sussulti, dei movimenti volontari e c’erano con lui i suoi due compagni di stanza che parlavano a questa operatrice che non parlava neanche inglese, quindi puoi immaginarti la comunicazione e urlavano dicendo “guarda che sta male!” e avevano la federa del cuscino dove c’era del liquido uscito dall’orecchio, del sangue e lei che urlava “non è niente. Fa finta. Fa finta. Fa finta.” C’era il direttore di questo centro e anche quello della cooperativa che lo gestiva che era l’ARCI Confraternita, sono dei mafiosi, che passavano di lì e dissero: “che cos’è questo macello?” allora fuori c’erano un centinaio di persone che gridavano “chiamate l’ambulanza. Chiamate l’ambulanza!” perché non chiamavano l’ambulanza visto che fuori dal centro c’erano parecchi giornalisti?! Perché sarebbe emerso che mancava nella struttura il medico h 24. Io parlai con il mio coordinatore, chiusi la porta perché veramente fuori c’erano 100 persone che urlavano “chiamate l’ambulanza”, parlai con i suoi due compagni di stanza chiedendo in modo normale cosa stesse succedendo, trattandoli da esseri umani perché questi delle cooperative sono veramente pazzi, gente che sta male e che danneggia il prossimo. Insomma parlai con il mio coordinatore e gli dissi di chiamare l’ambulanza perché non me ne importava niente se li avessero scoperti o meno …alla fine questa persona aveva un timpano perforato e lì capisci perché le persone non si fidano, perché non vanno negli ospedali, perché ti fanno capire che non vali niente. Il supporre che l’altro stia fingendo, che l’altro ti stia ingannando perché?! Perché in realtà nel nostro subconscio storico sappiamo che siamo noi stessi che li abbiamo ingannati, che non siamo stati trasparenti con loro quindi ci aspettiamo che loro siano così con noi però in un modo non consapevole e quindi si proietta sull’altro

questa scorrettezza. Come dice Frantz Fenon nell’articolo “la sindrome nordafricana” in cui parla dei medici che curano persone nordafricane e che sospettano sempre si tratti di persone che li ingannano.

Capitolo 4