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L’intreccio tra le frodi sulla genuinità e la provenienza dei prodotti,

5. La frode in commercio e la tutela del consumatore

5.2. L’intreccio tra le frodi sulla genuinità e la provenienza dei prodotti,

dei prodotti, le norme penali a tutela del mercato e le

pratiche commerciali ingannevoli

.

Come è stato evidenziato, le fattispecie penali analizzate fin qui sono poste a presidio non solo della correttezza degli scambi commerciali e degli interessi di imprenditori e commercianti concorrenti, ma costituiscono un tassello importante nella predisposizione di una tutela garantista e incisiva dei consumatori contro le condotte connotate da un elevato grado di offensività.

Eppure, come si è avuto modo di osservare con la truffa, anch’essa pilastro della normativa penale posta a garanzia della buona fede negoziale, non è difficile cogliere una discreta somiglianza tra le condotte fin qui descritte e alcuni comportamenti professionali riconosciuti dal codice del consumo come pratiche commerciali ingannevoli.

Mi riferisco innanzitutto ad una serie di pratiche descritte in modo generico, e quindi aperte ad interpretazioni di ampio respiro, dall’art. 21, comma 1, lett. b), cod. cons., il quale dispone che è considerata ingannevole la pratica commerciale che “contiene informazioni non rispondenti al vero

o che, seppur di fatto corretta, in qualsiasi modo, anche nella sua presentazione complessiva, induce o è idonea ad indurre in errore il consumatore medio riguardo ad uno o più elementi” relativi alle

caratteristiche principali del prodotto quali: (…) la “composizione”, (…) il “metodo e la data di fabbricazione”, (…) la “quantità”, la “descrizione” e l’“origine geografica o commerciale”484.

484

Per quanto riguarda le ipotesi che vedono il consumatore cadere in inganno sull’origine geografica o commerciale del prodotto ad oggi sono numerosi i provvedimenti adottati dall’Autorità Antitrust ai sensi della disciplina dettata dal d.lgs. n. 206/2005 nella versione previgente all’attuazione della direttiva sulle pratiche commerciali scorrette. Dunque si tratta di provvedimenti adottati in materia di pubblicità ingannevole. Si veda PI4878, provv. n. 14821 del 26 ottobre 2005, in Boll. 43/2005 (Salamella calabrese-Fiorucci), dove si legge che ‹‹Il messaggio è costituito

dall’etichetta del prodotto pubblicizzato, recante la dicitura “LE SPECIALITÀ REGIONALI- SALAMELLA CALABRESE PICCANTE - PURO SUINO”. Tale messaggio lascia intendere che il prodotto in questione sia un salume preparato secondo quei parametri qualitativi tipici della tradizione salumiera calabrese. Infatti, la collocazione nel testo del messaggio dell’indicazione “Calabrese” e i caratteri grafici utilizzati risultano idonei ad indurre il consumatore a ritenere che

192 Queste fattispecie, esaminate nel precedente capitolo con riferimento alle possibili declinazioni dell’azione ingannevole, vertono proprio su quegli elementi che attengono alla “genuinità”, come la composizione, il metodo e la data di fabbricazione e l’origine geografica, alla “provenienza”, individuata in funzione dell’origine geografica e dell’origine commerciale, e più in generale alla “qualità”, la quale dipende sia dai fattori appena elencati sia dalla descrizione del prodotto resa dal professionista nella fase antecedente o la messa in circolazione del bene o la negoziazione alla quale eventualmente segue la consegna di un bene diverso da quello pattuito (e dunque l’integrazione della frode in commercio ex art. 515 c.p.).

Riprendendo il filo di quanto già detto addietro sulle pratiche commerciali articolate in modo da indurre in errore sulla composizione485, le caratteristiche del prodotto, mi pare opportuno osservare alcuni passaggi dei provvedimenti adottati sul punto dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato.

Ad esempio con riferimento al messaggio pubblicitario contenente un’indicazione che utilizza il termine “spumante” quando in realtà le bevande reclamizzate non sono propriamente qualificabili come “vini spumanti”, l’Autorità ha riconosciuto l’ingannevolezza del messaggio ai sensi degli artt. 20 e 21, lett. b) cod. cons., il quale integrerebbe una pratica

il prodotto pubblicizzato abbia le stesse qualità e caratteristiche dei salumi che godono del riconoscimento della denominazione di origine protetta, in particolare della “Salsiccia di Calabria” DOP. Il messaggio, pertanto, ingenera confusione nei consumatori tra il prodotto cui si riferisce e i salumi di Calabria qualificati come DOP. Né l’indicazione in etichetta del luogo di produzione e di confezionamento vale ad escludere il carattere ingannevole del messaggio, in quanto detta indicazione viene riportata con caratteri assai più piccoli rispetto al resto del messaggio››.

485

Si veda, in materia di pubblicità ingannevole ai sensi della disciplina previgente l’entrata in vigore del d.lgs. n. 146/2007, PI5977, provv. 17473 del 10 ottobre 2007, in Boll. 38/2007 (OMOGENEIZZATO PLASMON ALLA BANANA) e il più recente PS20, provv. 19816 del 29 aprile 2009, in Boll. 19/2009 (Danacol), dove il professionista rafforza l’induzione in errore dei consumatori mediante l’utilizzo nella comunicazione pubblicitaria ‹‹del logo relativo ad

un’importante associazione di medici accompagnata dalla menzione di iniziative congiunte sulla corretta alimentazione. Tale correlazione, effettuata con il chiaro intento di dare credibilità al prodotto è tale da rafforzare il vanto di efficacia – “scientificamente dimostrata” attribuibile al prodotto alimentare in caso di ipercolesterolemia. In altri termini si induce il consumatore a credere che l’inserimento nella dieta di Danacol quale rimedio per il colesterolo sia suggerito e avallato in ambito medico››.

193 idonea ad indurre in errore sulla composizione, le caratteristiche e il metodo di produzione del prodotto486.

Nel caso di specie non solo l’etichettatura, contenente la denominazione “spumante”, ma anche altri elementi quali la forma e il colore della bottiglia, la forma dell’etichettatura erano in tutto simili a quelli utilizzati per i vini.

Ecco che allora si inserisce un inevitabile parallelismo con la condotta rilevante come vendita di prodotti industriali con segni mendaci (art. 517 c.p.) nonché come tentativo del delitto di frode in commercio (artt. 56 e 515 c.p.), dato che viene a mancare l’atto della consegna materiale del bene ma il messaggio pubblicato su internet e la dicitura sulla bottiglia completano la fase prodromica alla negoziazione.

Ancora, il T.A.R. Lazio ha confermato l’ingannevolezza ai sensi dell’art. 21, lett. b), cod. cons., della commercializzazione di prodotti alimentari realizzata mediante l’apposizione della dicitura “approvato

FIMP”, in quanto tale sigla alludendo ad un’approvazione della

Federazione dei medici pediatri, in realtà non rilasciata, appariva idonea ad influenzare le scelte dei consumatori che, in ragione della fiducia riposta

486 Si tratta del PS2807, provv. n. 20235 26 agosto 2009, in Boll. 35/2009 (Verdi spumante-

composizione prodotto), dove si legge che ‹‹Le pratiche commerciali contestate alla società Bosca consistono nell’utilizzo del termine “spumante” ai fini della denominazione e commercializzazione di due prodotti, (…), non propriamente qualificabili come “vini spumanti”. Più in particolare, detto vocabolo si trova sull’etichetta e nelle pagine relative del sito (…)”: tale sito, nello specifico, oltre ad utilizzare immagini di entrambe le bevande in cui risulta visibile il termine “spumante”, fa più volte uso dello stesso termine nella descrittiva dei due prodotti. Da quanto emerso anche dalle informazioni rese dal Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali si evince in primo luogo che la legislazione di settore vieta l’utilizzo del termine “vino spumante” per bevande prive dei requisiti stabiliti normativamente››. L’AGCM sostiene che ‹‹per chiunque ponga in vendita prodotti lato sensu confondibili con il vino spumante, uno specifico obbligo di un comportamento attivo di distinzione del proprio prodotto dai vini spumanti. Tale obbligo di corretta informazione è riconducibile a quanto altresì previsto dal Codice del Consumo. In particolare, l’articolo 21 del Codice considera ingannevole, e dunque vietata, ogni “pratica commerciale che contiene informazioni non rispondenti al vero o, seppure di fatto corretta, in qualsiasi modo, anche nella sua presentazione complessiva induce o e' idonea ad indurre in errore il consumatore medio”. Tali errori possono avere come possibile oggetto una serie di elementi, fra i quali, nel caso di specie, rilevano la natura, la composizione ed il metodo di fabbricazione del prodotto. Ed allora i professionisti hanno violato tale obbligo di corretta informazione. Inoltre a favorire l’induzione in

errore, in termini del tutto simili a quelli della vendita di prodotti con segni mendaci, ricorre l’ulteriore osservazione fatta dall’Autorità in merito al fatto che ‹‹A rafforzare l’impressione della

scorrettezza delle pratiche si deve considerare che Bosca è un operatore noto prevalentemente nel settore dei vini spumanti; evidentemente dunque il consumatore medio, a fronte dell’utilizzo del termine “spumante” nei prodotti sopra descritti, tende ad associare i prodotti Verdi e Toselli ai vini spumanti prodotti da Bosca››.

194 nella categoria di professionisti interessata, attribuivano ai prodotti caratteristiche di particolare affidabilità e genuinità487.

L’Antitrust ha sanzionato come pratica commerciale ingannevole i messaggi pubblicitari diffusi da diverse case produttrici per promuovere l’acquisto di accappatoi che facevano leva sulla loro composizione in 100% microfibra la quale costituisce un termine solitamente associato dai consumatori a prodotti di particolare consistenza e qualità488.

Nella vicenda in questione, da un lato, non vi era corrispondenza tra il

claim principale, in virtù del quale i consumatori decidevano di acquistare il

prodotto, e la reale composizione del bene e, dall’altro, il professionista non aveva fornito una serie di informazioni dettagliate e complete sulla composizione delle fibre (come ad esempio quale sia la definizione dal punto di vista chimico e tessile di “microfibra”). Le argomentazioni dell’AGCM sono state condivise e ribadite nella sentenza dell’11 marzo

487

TAR Lazio, sez. I, 25 marzo 2009, n. 3124.

488

Si tratta del PS857, provv. n. 18782 del 21 agosto 2008, in Boll. 32/2008 (Cottonjoy accappatoi

in microfibra) e del successivo PS3461, provv. n. 20270 del 3 settembre 2009, in Boll. 35/2009

(G.I.L.-GENERAL INTERNATIONAL LAISONS - ACCAPPATOIO IN MICROFIBRA). In entrambi i provvedimenti si legge che ‹‹La pratica commerciale (…) è rappresentata dalla diffusione di un

messaggio pubblicitario, su varie testate giornalistiche nonché sulla confezione esterna del prodotto stesso, volto a promuovere l’accappatoio (…). Il suddetto messaggio pubblicitario lascia intendere ai consumatori che il prodotto in questione sia stato interamente realizzato in microfibra. Tuttavia, come risulta evidente dalle risultanze istruttorie ed, in particolar modo, dalla stessa etichetta interna, l'accappatoio (…) è composto, in prevalenza, da poliestere. Il consumatore, dunque, solo dopo aver acquistato l’accappatoio e aver aperto la confezione, può verificare l’esatta composizione dello stesso leggendo l’etichetta interna, che riporta la dicitura "100% Polyester". Occorre al riguardo precisare che l’indicazione “microfibra” riportata nel messaggio pubblicitario, nonché nel marchio stampato sulla confezione, non fornisce al consumatore alcuna informazione relativamente alla composizione e, in generale, alla materia prima impiegata per realizzare il tessuto(…). In ragione delle diverse possibili caratteristiche, composizioni e destinazioni d’uso che un prodotto in microfibra può avere, affinché il consumatore possa essere sufficientemente ed adeguatamente informato relativamente alle proprietà di un prodotto, ed in particolare relativamente alla composizione del tessuto, appare necessario che vengano indicate, in modo chiaro ed evidente, le fibre di cui la “microfibra” è composta. (…) la generica indicazione di “tessuto in microfibra” (…) non si ritiene essere sufficiente a far comprendere ad un consumatore medio quale materiale sia stato utilizzato per fabbricare l’accapatoio. (…) Si ritiene che, proprio in assenza di una specifica definizione legislativa o regolamentare della definizione di “microfibra”, né delle caratteristiche tecniche di tale prodotto, ed altresì in assenza di una prassi univoca e consolidata, il termine microfibra, (…) non si possa ritenere esaustivo e sufficiente. (…) Pertanto, anche in rapporto all’enfasi data nel messaggio e nel marchio alla composizione del prodotto, essendo proprio ciò che maggiormente caratterizza l’accappatoio stesso (in quanto ne comporta il poco ingombro e la buona capacità di assorbimento), sarebbero risultate essenziali delle precisazioni sulle fibre utilizzate, al fine di permettere ai consumatori di valutare l’effettiva composizione e convenienza del bene. È’ ormai consolidato l’orientamento dell’Autorità secondo il quale il messaggio pubblicitario deve dare delle avvertenze che in qualche modo limitino le aspettative suscitate con il claim principale, un rilievo ed un posizionamento nel contesto complessivo della comunicazione, tali da rendere ragionevolmente certo che il pubblico le percepisca e le valuti.(…)››.

195 2009, n. 4138 con cui il T.A.R. Lazio ha respinto il ricorso del professionista per l’annullamento del provvedimento ed ha affermato che ‹‹(…)la completezza e la veridicità di un messaggio pubblicitario va

verificata nell’ambito dello stesso contesto di comunicazione commerciale e non già sulla base di ulteriori informazioni che l’operatore pubblicitario renda disponibili solo a “contatto”, e quindi ad effetto promozionale, già avvenuto››489.

Da ultimo, è opportuno segnalare come un ulteriore passo avanti a beneficio della trasparenza sull'origine dei prodotti alimentari sia stato realizzato con il recente Disegno di legge sulla competitivita' del settore agroalimentare che prevede, per la prima volta, un netto segnale di arresto delle pratiche commerciali scorrette realizzate nella presentazione degli alimenti e aventi ad oggetto la reale origine geografica degli ingredienti utilizzati490.

Per quanto attiene alla “quantità” sono assai diffuse le pratiche commerciali riconosciute ingannevoli per la divergenza tra la quantità del bene indicato nel messaggio promozionale o nell’offerta di acquisto e quella effettivamente acquistata dal consumatore. In questi casi, la condotta del professionista potenzialmente idonea ad indurre il consumatore in errore sulla quantità del prodotto e ad adottare una scelta commerciale che altrimenti non avrebbe posto in essere, e dunque ingannevole ai sensi degli

489

La sentenza prosegue affermando che ‹‹Così, nel caso di specie, è innegabile che l’effetto

promozionale è riconducibile alla dicitura apposta sulla confezione, e al claim utilizzato nella pubblicità, laddove, invece, la consultazione dell’etichetta da parte del consumatore, prima dell’acquisto, è una circostanza del tutto eventuale.(…) E neppure può condividersi l’assunto secondo cui, data la sintesi che caratterizza il linguaggio pubblicitario, non si potrebbe fornire al consumatore una informazione esaustiva e, al tempo stesso, scientificamente corretta, a tanto non essendo sufficiente l’aggiunta del nome del tessuto di cui si compone la microfibra. (…) è proprio l’assenza di una definizione univoca e di una prassi consolidata, a richiedere la massima completezza informativa compatibile con la formulazione della comunicazione pubblicitaria, e, a tal fine, appare sicuramente utile l’accorgimento, non particolarmente oneroso, prescritto dall’Autorità.››

490

Il Ddl approvato dalla Camera dei deputati il 7 ottobre 2010 stabilisce che l'origine degli alimenti dovrà' essere prevista obbligatoriamente in etichetta e che non potrà' essere omessa nella comunicazione commerciale per non indurre in errore il consumatore. Viene così ribadito il diritto del cittadino di conoscere gli elementi essenziali che compongono i prodotti in osservanza del codice di consumo, nonché il diritto dei consumatori ad adottare scelte consapevoli. Inoltre, è indubbio come il testo sarà funzionale per una maggior tutela e la valorizzazione del Made in Italy.

196 artt. 20 e 21, comma 1, lett. b) cod. cons.491, integra quella che costituisce una delle più semplici condotte penalmente rilevanti come frode in commercio ex art. 515 c.p. .

E la convivenza nel medesimo fatto di un messaggio ingannevole ai sensi del codice del consumo e di una condotta fraudolenta penalmente rilevante viene confermata dalla Corte di Cassazione che ha affermato come ‹‹in tema di frode nell'esercizio del commercio, nella nozione di

dichiarazione di cui all'art. 515 c.p. rientrano anche le indicazioni circa origine, provenienza, qualità o quantità della merce contenute nell'eventuale messaggio pubblicitario che abbia preceduto la materiale offerta di vendita della stessa, essendo tale pubblicità idonea a trarre in inganno l'acquirente che riceve l'"aliud pro alio"››492.

Inoltre, accanto al reato della vendita di prodotti industriali con segni mendaci (art. 517 c.p.), anche il delitto dell’uso di marchi o segni distintivi alterati, contraffatti ad opera di soggetti terzi (prevista nella seconda parte dei commi 1 e 2 dell’art. 473 c.p.) tende a sovrapporsi ad un’altra pratica commerciale ingannevole prevista dall’art. 21, comma 2, lett. a), cod. cons., la quale ricorre laddove una pratica, idonea ad indurre il consumatore medio ad assumere una decisione di carattere commerciale che altrimenti

non avrebbe preso, “comporti una qualsivoglia attività di

commercializzazione del prodotto che ingenera confusione con i prodotti, i marchi, la denominazione sociale e altri segni distintivi di un concorrente, ivi compresa la pubblicità comparativa illecita”.

Nel precedente capitolo questa pratica commerciale è stata analizzata in prospettiva del suo stretto rapporto con la disciplina della concorrenza sleale.

491

Si vedano a titolo esemplificativo: PS725, provv. n. 19516 del 11 febbraio 2009, in Boll. 6/2009 (SUPERBASKO DI GENOVA-MANCANZA DI 0,350 LITRI DI DETERSIVO) dove era stata fornita nelle comunicazioni pubblicitarie un’erronea indicazione della quantità del prodotto contenuta nella confezione posta in vendita nell’ambito di un’offerta promozionale: la pratica è stata idonea ad indurre il consumatore medio in errore con riguardo a una delle caratteristiche principali del prodotto, la quantità del prodotto, e quindi sulla natura e convenienza dell’offerta stessa, in modo tale da indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso.

492

197 In questa sede, invece, si fornisce un’ulteriore chiave di lettura dei possibili risvolti che la medesima condotta del professionista può assumere.

Infatti, tale pratica può essere integrata qualora il professionista nell’ambito di un’attività di commercializzazione493 di un bene o servizio ricorra all’uso di un marchio o altro segno distintivo “alterato”494, ed allora in questo caso ricorrerebbe il delitto previsto dall’art. 473, comma 1, seconda parte.

Oppure laddove impieghi marchi o segni distintivi “non veri”495, come accade nella vendita di prodotti industriali con segni mendaci, i quali per determinate caratteristiche (le dimensioni, il colore, il carattere ecc.) generano nella mente del consumatore uno stato di confusione tale da indurlo a confonderli con i marchi o i segni genuini di altri professionisti e, in conseguenza di ciò, ad adottare una scelta commerciale che altrimenti non avrebbe preso.

Ancora, l’art. 473 c.p. nella forma che assume quando il produttore pone in essere un’azione di contraffazione o alterazione di marchi, segni distintivi (comma 1), o brevetti, disegni (comma 2) richiama una pratica commerciale ingannevole della black list, ovvero quella descritta alla lett.

o) dell’art. 23 cod. cons., dove il professionista promuove “un prodotto simile a quello fabbricato da un altro produttore in modo tale da fuorviare deliberatamente (e quindi vi sarebbe un agire doloso di pari intensità al

dolo richiesto dall’art. 473 c.p.) il consumatore inducendolo a ritenere,

contrariamente al vero, che il prodotto è fabbricato dallo stesso produttore”496.

493

L’art. 21, comma 2, lett. a), cod. cons., concerne una pratica commerciale che si risolva nelle sole attività di commercializzazione del prodotto le quali sono composte dalle comunicazioni commerciali per la promozione, la vendita e la fornitura di un bene e dalle tecniche di negoziazione finalizzate all’immissione nel mercato finale ed alla conservazione del prodotto.

494

Ricordando come l’alterazione consista nell’azione di mera modificazione di anche un solo elemento del marchio genuino.

495 E quindi segni distintivi che non sono stati né alterati né contraffatti. 496

Questa fattispecie, analoga all’imitazione servile, è realizzata solo da quelle condotte idonee a indurre il consumatore in uno stato di confusione tale da portarlo a credere che quel prodotto, il suo marchio, il logo che lo contraddistingue siano proprio quelli appartenenti ad un altro produttore più noto. Simili pratiche per produrre tale effetto, dove indubbiamente ricorre uno sfruttamento della notorietà di altri marchi o segni distintivi già affermati, potrebbero integrare la “contraffazione” o la condotta di “alterazione” rilevanti ai sensi dell’art. 473 c.p.. Ed allora l’interprete dovrà di volta in

198