2. Agency e lavoro sociale: una cornice teorica
2.1 Per una definizione di agency
2.1.1 L’agire dai classici ai contemporanei della sociologia
Come già accennato, il concetto di agency fonda le proprie origini nel campo della filosofia e della sociologia. Innanzitutto, fu Aristotele ad interrogarsi sull’idea dell’azione umana, seguito poi da altri filosofi; solo molto più tardi, però, intorno al 1600 con pensatori quali Hobbes e Locke, si iniziò a ragionare anche in merito alle implicazioni sociali dell’agire umano. Sarà la sociologia moderna a fare dell’agire personale e collettivo uno dei suoi temi fondamentali: i sociologi si sono, infatti, da sempre interrogati sulle possibilità e le modalità di azione e hanno cercato di tracciarne i confini, interrogandosi in particolar modo sia sui
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condizionamenti che la struttura sociale può esercitare sui singoli individui e sulle loro scelte di azione sia sull’influenza che le azioni degli individui possono avere a loro volta sulla realtà sociale.
Si noti che il pensiero dei sociologi moderni si divide sostanzialmente in due correnti: da un lato, coloro che hanno evidenziato l’oggettività dell’azione umana, considerando la struttura sociale come l’elemento che definisce le azioni degli individui; dall’altro lato, coloro che ne hanno invece esaltato la dimensione soggettiva, ritenendo l’intenzionalità dei singoli come il fattore determinante nelle scelte degli individui. Solo in un secondo momento, la sociologia dell’azione sociale ha cercato di superare l’unidimensionalità dei suoi predecessori, evidenziando la compresenza sia di una dimensione oggettiva sia di una dimensione soggettiva nell’agire umano.
Il primo ad interrogarsi in merito alla struttura sociale fu Emile Durkheim (1858-1917), sociologo francese a cui va il merito di aver portato per primo la cattedra di sociologia. Per capire il suo pensiero circa l’azione umana, è necessario premettere che Durkheim guardava agli individui come coloro che, all’interno della società, svolgono il proprio ruolo necessario al funzionamento della società. Il sociologo infatti, interrogandosi sulla coesione sociale, partiva dall’osservazione che la divisione del lavoro fosse l’elemento centrale per definire la società moderna: questa divisione ha portato nel tempo le persone a specializzarsi nello svolgimento di funzioni diverse e perciò, proprio perché ciascuno svolge un ruolo differente, oggi gli individui hanno bisogno gli uni degli altri. In questa cornice, l’autore non lasciava spazio al potere di azione degli individui, escludendo quindi che questi ultimi potessero eventualmente influenzare i vari ruoli o le strutture della società; coloro che tentano di uscire dal ruolo assegnato devono essere invece, secondo il sociologo, considerati come devianti. Contrariamente a quanto si potrebbe immaginare, un primo pensiero circa l’idea che la società sia formata da individui che scelgono come agire si trova nel pensiero di due autori tedeschi, Max Weber (1864 – 1920) e Karl Marx (1818 – 1883), che hanno fatto della divisione della società in classi il punto cardine del loro pensiero.
Innanzitutto, bisogna evidenziare che Weber fu il primo ad ammettere la presenza di una certa intenzionalità nell’agire individuale, fornendo una classificazione ed un’analisi delle azioni sociali sia in relazione alle intenzioni dell’agente che compie l’azione sia in relazione al movente per cui queste vengono compiute. Dal punto di vista dell’agente, Weber invita a distinguere tra i comportamenti, intesi come le azioni che gli individui compiono involontariamente, le azioni private che un soggetto compie senza intenzionalmente rivolgersi ad altri e le azioni sociali vere e proprie, che si rivolgono intenzionalmente agli altri.
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In relazione ai moventi, Weber classifica le azioni in strumentali, affettive e tradizionali: le prime sono quelle che derivano da scelte razionali in vista del raggiungimento di uno scopo, le seconde sono dettate da bisogni emotivi mentre le ultime comprendono abitudini e regole sociali. Secondo Weber, i confini tra le diverse tipologie di azioni possono comunque essere sfumate: ad esempio, un’espressione di stupore potrebbe essere un comportamento involontario oppure potrebbe essere enfatizzata per fare in modo che sia notata da altri; aiutare una signora anziana a salire su un bus potrebbe essere letta come un’azione morale, ma anche affettiva, se la donna ricorda la nonna, o tradizionale, se si tratta di qualcosa che si compie quotidianamente.
A livello macro, Weber condivide con Marx la visione di una società stratificata, divisa cioè in classi e ceti sociali. Se l’idea di una società costruita in questo modo potrebbe rimandare ad una sensazione di staticità, in realtà come anticipato possiamo osservare che nel loro pensiero:
le classi possono essere più o meno strutturate, ovvero le persone possono più o meno orientare le loro azioni riferendosi alla comune posizione di classe; esistono processi di mobilità sociale, vale a dire passaggi da una classe all’altra […]; cambia anche la regolazione politica dell’economia […] anche come effetto dei conflitti attivati su base di classe. (Bagnasco, 2009, 62).
È proprio tra le parole di Marx che potremmo trovare una prima definizione di agency quando afferma che sono gli uomini a fare la loro storia; nel suo pensiero, però, la storia realizzabile non può corrispondere a ciò che gli stessi desiderano poiché deve comunque tenere in considerazione le circostanze dettate da scelte non loro:
Gli uomini fanno la propria storia, ma non la fanno in modo arbitrario, in circostanze scelte da loro stessi, bensì nelle circostanze che trovano immediatamente davanti a sé, determinate dai fatti e dalle tradizioni. (Marx, 1852)
L’idea di una storia come progressione deriva sicuramente dall’influenza su Marx del pensiero del filosofo Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831) il quale, a partire dall’idea che sia la ragione a guidare il mondo, propose di guardare alla storia non come qualcosa di immutabile o come una semplice successione di fatti ma, al contrario, proprio come una realtà in costante progressione.
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individuale come dettato dall’esterno, si colloca, a partire da Sigmund Freud (1856-1939), tutto il filone dei psicoanalisti che, negli stessi anni, guardava al comportamento umano come il risultato dell’influenza delle dimensioni interne degli individui.
Va a Talcott Parsons (1902-1979) il merito di essere stato il primo sociologo a sottolineare, nell’analisi delle varie dimensioni che compongono la realtà, anche la presenza di una sfera di vita interiore degli individui, arrivando a riconoscere per la prima volta la presenza di fattori psicologici. Parsons fallisce però quando, nella sua teoria sull’azione sociale, non tiene in considerazione questi aspetti ma al contrario ritiene che l’azione di ciascuno sia determinata esclusivamente dal contesto sociale: secondo Parsons, infatti, le persone agiscono in relazione agli obiettivi che si prefiggono, ma è necessario tenere in considerazione che è la società ad insegnare a ciascuno le mete da prefiggersi e le modalità per conformarsi al sistema sociale. Gli individui agiscono, dunque, in vista di fini e nel rispetto di norme sociali.
La teoria di Parsons sarà poi ripresa dal suo allievo Robert King Merton (1910-2003), il quale guarderà alla realtà come caratterizzata da una maggiore complessità rispetto a quanto intuito dal maestro: secondo Merton, la società può anche spingere l’individuo a raggiungere determinati obiettivi, tuttavia non è detto che garantisca anche i mezzi necessari per raggiungerli. È in queste situazioni di conflitto che le persone possono decidere come agire, assumendo quindi posizioni diverse nei confronti delle mete e dei mezzi per raggiungerle. Inoltre, secondo lo stesso Merton, non solo gli individui prendono posizione rispetto alle richieste della società ma contribuiscono anche a definirle.
Negli anni più recenti, dunque, la teoria dell’azione sociale ha cercato di equilibrare maggiormente i diversi elementi, anche quelli soggettivi, nell’agire sociale, in contrapposizione all’unidimensionalità che aveva caratterizzato le precedenti.
Il pensiero di autori quali Alain Tourraine (1925) e Pierre Bordieu (1930-2002) partirà proprio dalla critica alle teorie strutturaliste colpevoli di “aver perso di vista il duplice carattere del rapporto tra struttura e agire degli attori sociali, in quanto la struttura non è solo un
condizionamento che determina l’azione degli individui, ma è anche il prodotto della loro azione,
che trasforma continuamente la struttura stessa.” (Crespi, 2002, 197) e alle teorie soggettiviste, che si erano invece soffermate sull’intenzionalità delle azioni degli individui senza tenere in considerazione l’influenza che il sistema stesso ha su questi ultimi.