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La dimensione politica nel lavoro dell’accoglienza

4. I risultati della ricerca

4.4 La dimensione politica nel lavoro dell’accoglienza

A partire dall’analisi della letteratura presentata nelle pagine precedenti, che ha messo in luce la presenza di un legame esplicito tra servizio sociale e politica su cui però ad oggi l’attenzione posta è insufficiente, nel corso delle interviste si è cercato di approfondire questo aspetto, in particolare in relazione con il lavoro dell’accoglienza.

Innanzitutto, entrambe le intervistate hanno espresso in maniera molto forte la loro consapevolezza e l’importanza del ruolo politico del proprio lavoro, come emerge anche da queste parole dell’intervistata n˚ 2:

Io, voglio dire, sono fermamente convinta che il lavoro sociale sia un lavoro politico nel senso che i principi del lavoro sociale, per quanto mi riguarda e per quanto riguarda la Cooperativa, sono dei principi che hanno a che fare con la tutela dei diritti, l’antidiscriminazione, la promozione dell'uguaglianza, il superamento dei gap sulle differenze di genere piuttosto che altri tipi di gap, l'inclusione dei migranti, quindi il tema anche come dire ecologico, in qualche modo ecologico e sociale. (…) quindi io sono fortemente convinta di questo: fare gli educatori o fare le assistenti sociali è sì lavorare con una persona che ha una situazione di bisogno, ma se si ferma a lavorare con una persona perché ha una situazione di bisogno, non è un lavoro che è in grado poi di generare un valore e un impatto dal punto di vista sociale rispetto al superamento di una serie di discriminazioni o di un po' di persone che rimangono indietro. E questo,

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come dire, se non c'è come sfondo del lavoro, va bene, forse saremo dei bravi educatori e assistenti sociali ma questo non cambierà mai niente. Insomma forse migliorerà la condizione di una singola persona ma non migliorerà la vita sociale della società che stiamo vivendo, soprattutto adesso.

Ma come si realizza nella pratica quotidiana del lavoro dell’accoglienza questa dimensione politica? Le risposte delle intervistate hanno posto l’attenzione su alcuni aspetti precisi. Innanzitutto, l’intervistata n˚ 1 sottolinea il ruolo di advocacy, che come professionisti e come categoria professionale viene portato avanti:

il movimento, le manifestazioni, anche il coinvolgimento a livello politico, anche i comunicati nell’ordine nazionale, degli ordini regionali.. non lasciavano spazio all'interpretazione, come dire. Quindi quella cosa lì si, fai advocay, il servizio sociale è anche quello, quindi sicuramente fai advocacy. Quella parte politica, almeno io, me la sento.

Il secondo elemento in cui, secondo lei, emerge quella dimensione politica è il welfare di comunità:

Anche il welfare di comunità, lo sto vedendo oggi… per il professionista questa dimensione multidimensionale ci deve essere perché è anche quello il ruolo un po' più politico che si può riassumere, stando sul territorio, sensibilizzando, parlando, cercando di capire, ascoltando prima l'ascolto e poi.… dicevo con alcuni colleghi, non è più come una volta che è il popolino che ti fai ragionamento Salviniano, il vecchietto che dice “prima io!” ... ora è trasversale la cosa, cioè parli con un professionista e ti dice che l’immigrato è il male di tutto, in paese parli con il vecchietto… cioè è trasversale. Quindi anche secondo me questa è la nostra responsabilità, quello di ascoltare e di cercare anche un po' di comprendere capire e poi raccontare il nostro lavoro.

A tal proposito, nel corso di entrambe le interviste, ciascuna delle operatrici ha raccontato la propria esperienza rispetto ai centri di accoglienza e al lavoro con il territorio:

Ho lavorato per un paio di anni in un CAS (…) e diciamo che era numericamente un CAS di 100 persone. Un’esperienza nata del 2014, dalla mattina alla sera, sull’emergenza degli sbarchi e degli arrivi e un’esperienza nuovissima anche per cooperativa che non aveva mai avuto numeri così elevati… quella cosa lì, ovviamente poi rispetto anche ad

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un territorio non pronto ad accogliere perché non c'è stato il tempo di fare un lavoro di preparazione, di sensibilizzazione di tutta una serie di reti importanti sul territorio, siamo arrivati e quella cosa lì naturalmente è stata un cazzotto. Da quel momento in poi siamo stati accolti con striscioni razzisti, è stato un po' l’onda di inizio…. poi devo dire oggettivamente l’équipe man mano si è definita, si è formata ed è stato anche poi esperienza di costruzione nuova (…) Io come assistente sociale mi sono molto occupata insieme alle colleghe di creare proprio delle reti e una serie di cose che dava la possibilità di poter agganciare questi ragazzi. In maniera particolare poi il coordinatore anche, dal punto di vista anche di relazioni politiche, e quindi anche di cooperativa ha [iniziato ad] interloquire con il comune. All'epoca c'era la giunta più sensibile alle tematiche e quindi ci sono stati degli incontri.

Tieni conto che è un territorio benestante, tanti negozi eleganti quindi capito è stata veramente una cosa molto forte. Abbiamo creato i miei colleghi, noi anche insieme ad alcuni cittadini, un movimento che si chiama “Convochiamoci la pace”. E da lì sono nate un po' di iniziative importanti (intervistata n˚ 1)

abbiamo esordito aprendo un centro di accoglienza per 25 persone, fatto insieme all'amministrazione che ce l'aveva chiesto (…) Abbiamo fatto un'assemblea pubblica in quartiere prima di aprire il centro. All'interno di questa assemblea pubblica, presenti 250 persone, all'interno della parrocchia l'abbiamo fatta, quindi ce n'erano veramente tante… all'interno di questa assemblea c’era un gruppetto di 5-6 persone in prima fila fortemente inferocite, anche schierate politicamente, fortemente inferocite e schierate politicamente che appunto accusavano l’amministrazione e noi di venire a portare delinquenze in quartiere, solite cose… poi c'erano molte persone anziane afferenti alla parrocchia che esprimevano un sentimento di paura legittimo, tipo ho in mente una signora anzianissima che diceva “ma se io vado in cantina e trovo una persona che magari viene a dormire perché non ha un posto per dormire, io mi spavento”… e allora, come dire, quello è un tema legato alla paura che va accolto e va accompagnato. Insomma, assemblea che dura tre ore, una cosa impegnativa, tutti vogliono sapere, tutti vogliono capire. Poi apriamo il centro e praticamente successe che con il portone aperto si infilò una giornalista del Il Giorno che ad un certo punto i colleghi trovarono là dentro (…) Dopo di lei, 20 minuti dopo, 10 persone militanti della Lega, fotografia davanti al centro (che non erano neanche militanti della Lega, erano palesemente un gruppo di persone messe lì a farsi fotografare). Quindi grande polvere intorno a questa roba. Le persone intanto arrivano, noi cominciamo. Arrivano 25 giovani, tutti molto neri, quindi molto visibili. Passano circa 20 giorni e ci chiama lo staff del sindaco. Ridevano come matti perché erano stati chiamati da qualcuno del territorio, da qualcuno dei negozianti

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del territorio, che disse: “Ma avete fatto un'assemblea 20 giorni fa dicendo arrivano delle persone, ma quand'è che arrivano?” Quindi, cosa vuol dire? che nel momento in cui tu dichiari che stai facendo una cosa, perché è giusto dichiararla perché devi sensibilizzare, si alza un’inutile polvere intorno che crea allarme. Di fatto poi appunto noi abbiamo avuto un grande lavoro con il territorio, dalla punta della parrocchia che invitava i nostri ragazzi a fare delle cose all'interno dei centri estivi, piuttosto che la scuola di italiano, piuttosto che delle persone che chiamavano e dicevano “ci farebbe piacere fare volontariato da voi”. Quindi di fatto poi nel momento in cui lavori nella logica dell'accoglienza diffusa, quindi piccoli gruppi e il territorio non si accorge di quello che sta succedendo dal punto di vista della paura, invece si stimola rispetto alla possibilità di fare delle cose con le persone … perché appunto se lavori con il territorio ingaggi cittadini e le cittadine che abbassano la guardia e che hanno comunque il desiderio di avvicinarsi. (intervista n˚ 2)

Dalla lettura di questi racconti emerge non solo l’importanza di un lavoro con la comunità ma anche di un lavoro di rete con le varie realtà presenti sul territorio. Come riporta l’intervistata n˚ 1, infatti:

Io tra l'altro era una che rompeva questa cosa dicendo “io ho piacere a venire lì ad incontrarvi, prendiamo un appuntamento?” perché io ho parto sempre dall'idea che il telefono va benissimo, è un grande strumento, però il nostro lavoro è il contatto, la relazione, soprattutto se devi fare rete. Nella mia esperienza ti posso dire che questa cosa poi mi è stata utile a mio avviso. Quindi io dicevo “Ma ci possiamo vedere? io vengo a raccontarvi chi siamo noi, la nostra realtà, chi sono i nostri ragazzi e voi ci raccontate” così io ho iniziato anche come dire a chiedere anche all’ASL e così via con vari servizi specialistici perché effettivamente non sapevano neanche della nostra esistenza sul territorio. (intervistata n˚1)

Secondo la seconda intervistata, invece, la dimensione politica si traduce nel lavoro quotidiano degli operatori nel momento in cui si accompagna il beneficiario in un percorso di consapevolezza dei propri diritti e doveri:

Sicuramente nella promozione di una consapevolezza nelle persone, nella consapevolezza dell'essere portatore di diritti. Ad esempio quello che ci insegna il lavoro fatto in tutti questi anni con tutte le persone che abbiamo incontrato è che sono persone che hanno un progetto migratorio molto particolare, un progetto migratorio molto

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pesante nel quale spesso il tema dell'essere in diritto, in termini di diritti civili e interni, di capacità di essere dei soggetti attivi e di cittadinanza attiva, non c'è. A volte c'è una rivendicazione, sicuramente questo l'abbiamo incontrato e su quella rivendicazione bisogna lavoraresicuramente, però molte persone migranti arrivano - è una cosa che io dico spessissimo - arrivano da paesi dove i diritti non esistono e quindi laddove non hai, secondo me, laddove non hai una cultura dei diritti, una capacità di sentirti un soggetto attivo, non riesci a capire che cosa vuol dire questo….allora per cui poi, come dire, ricadi nell’essere una persona che rivendica, rivendica delle cose che poi non sei capace di sostenere, sei una persona che rischia di essere di finire in una maniera, come dire, molto veloce nella maglia dell'assistenzialismo. Quindi “tu mi devi, tu mi devi, tu mi devi” -.. Allora il lavoro degli operatori sta nell'accompagnare una crescita di consapevolezza proprio su questo fronte con le persone, sul sentirsi portatori di diritti e di doveri naturalmente molto connessi.

Advocacy, welfare di comunità, costruzioni di reti con i servizi e le realtà presenti sul territorio, accompagnamento delle persone in percorsi di educazione civica e di consapevolezza dei propri diritti sembrano oggi quindi essere le dimensioni centrali di un lavoro sociale con le persone migranti che riconosce anche la propria sfera politica più ampia. Ma ci sono, invece, oggi, spazi e possibilità di azione ancora poco sfruttati in relazione a questa dimensione? Secondo entrambe le intervistate, sì. Innanzitutto, l’intervistata n˚ 2 sottolinea come oggi, secondo lei, bisognerebbe investire di più nel lavoro con la dimensione comunitaria:

lavorare un po' meno con le persone direttamente e lavorare un po' più con quelle comunità territoriali, nel senso che su qualsiasi tipo di disagio o di vulnerabilità il mondo che ci circonda è un mondo che pensa “a me non mi tocca quella roba lì”, “cioè io cosa c'entro con i disabili”. Questa cosa è stata eclatante quando è arrivato l'AIDS in Italia. l'AIDS negli anni Ottanta era la malattia dei tossicodipendenti e degli omosessuali. Quindi questa roba era “a me non mi tocca”. Invece ci tocca proprio un po' tutti no, nel senso che ti può toccare a un certo punto della tua vita perché ti succede qualcosa…adesso in questi anni l'equivalente dell'AIDS è la povertà economica e relazionale che stiamo vivendo, la precarietà totale, per cui dopo anni di “abbiamo tutto” adesso sembra che non abbiamo più niente…quindi un lavoro di comunità, di coinvolgimento, di promozione della partecipazione culturale e civile dei cittadini è importante.

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Secondo l’intervistata n˚1, invece, quello che oggi manca è uno spazio di scrittura scientifica, una dimensione in cui, sia come operatori sia come comunità professionale di assistenti sociali, bisognerebbe impegnarsi per offrire una narrazione diversa da quella offerta dai mass media:

Secondo me quello che noi dobbiamo fare (…) è quello di produrre della documentazione scritta, perché noi in questo siamo un po' carenti e devo dire che forse (...) secondo me ecco ci manca più quella parte di scrittura scientifica, che invece noi come comunità professionale, di professionisti, dovremmo fare. Non solo i docenti universitari ma proprio gli operatori sociali, gli assistenti sociali … ci raccontiamo poco. (…) proprio come comunità professionale siamo ancora un passetto indietro rispetto ad altre professioni che hanno un ordine, l’ordine degli avvocati è fortissimo, quello dei medici non ne parliamo proprio, l’ordine degli Psicologi…

Il tema del raccontarsi e del raccontare il proprio lavoro è, in realtà, un aspetto emerso anche nel corso della seconda intervista:

forse bisogna cominciare anche essere capaci non come singoli operatori, ma come organizzazioni di primo e di secondo livello impegnate nel lavoro sociale di, come dire, esprimere bene che non siamo volontari, siamo persone che fanno degli studi di laurea, dei corsi di laurea approfonditi, che abbiamo un aggiornamento continuo e costante, che c'è una competenza. Quindi nel momento in cui siamo capaci di rivendicare in termini di esprimere bene una competenza forse diventeremo meno, come dire, aggredibili o delegittimati anche dalle altre categorie professionali. (…)

settimana scorsa mi hanno invitato a parlare come tutrice a un incontro all'interno di un progetto. Era un progetto, un evento che voleva provare ad ingaggiare altri cittadini sulla partecipazione attiva, sul fare i tutori, sul provare a pensare all’affido… e l'operatrice che raccontava, raccontava tutto in termini di sigle. Diceva: “e perché c’è il TM”…e il TM, il cittadino normale non sa cos’è il TM!