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Spazi di azione per gli operatori dell’accoglienza

2. Agency e lavoro sociale: una cornice teorica

2.3 Spazi di azione per gli operatori dell’accoglienza

Queste novità normative ti porterebbero ad abbatterti, a buttare tutto all’aria...ma ormai, a lottare contro difficoltà continue, gli anticorpi ce li siamo creati, ci inventeremo modi nuovi per tutelare i diritti...non è certo la prima volta che si torna indietro, è un’occasione per rimboccarsi le maniche, per rilanciare con entusiasmo!

Ora sono combattuta tra un momento di grosso scoramento e la necessità di presidiare i diritti...ma io sono un po’ entusiasta di mio: ce la faremo. (Oxfam Italia, 2019)

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Così alcuni operatori commentavano l’introduzione delle nuove norme del Decreto Salvini, parole in cui possiamo leggere come l’immigrazione rappresenti oggi uno dei settori in cui è più evidente lo spazio in cui si gioca la capacità di agency dei lavoratori sociali.

Sebbene la letteratura professionale in ambito di immigrazione risulti ad oggi ancora scarsa, nonostante l’aumentare della popolazione straniera in Italia e della domanda di aiuto ad essa correlata, un elemento trasversale ai vari autori è il riconoscimento della profonda contraddizione nel quale il lavoro sociale con le persone immigrate è inserito. A partire da quanto già discusso nel precedente capitolo, infatti, possiamo osservare che oggi l’immigrazione rappresenta uno dei contesti in cui si delinea maggiormente il conflitto tra professioni sociali che fondano il loro lavoro a partire da diritti e principi etici, ed un contesto istituzionale che, con la propria normativa e il proprio welfare, sta oggi portando ad un percorso di forte attenuazione in termini di diritti:

Il lavoro sociale con le persone immigrate si situa in una profonda contraddizione: da un lato il servizio sociale ha un mandato universalistico e antidiscriminatorio, dall’altro il servizio sociale, inteso come espressione del welfare state, non necessariamente. La domanda di aiuto degli immigrati stranieri si situa in mezzo a questa contraddizione (Barberis, Boccagni, 85)

lo scarto tra obiettivi dichiarati e pratiche effettive è un nodo strutturale delle politiche di accoglienza, e di gran parte delle politiche sociali; il singolo operatore, o il singolo staff di un centro, non sono in grado di superarli del tutto. (Faso, 2017)

A partire dall’analisi di Lipsky, possiamo affermare che è allora tra queste contraddizioni che si situa la discrezionalità e lo spazio di azione degli operatori sociali che lavorano con utenza straniera e all’interno dei centri di accoglienza. È evidente che in un contesto con questi lineamenti il primo passo diventa, innanzitutto, il riconoscimento di questa contraddizione da parte di coloro che operano all’interno del sistema, operazione necessaria per evitare di scaricare sugli ospiti le contraddizioni del sistema e iniziare a pensare a soluzioni ed interventi che possano realizzare veri percorsi di inclusione:

In un sistema istituzionale frammentato come quello italiano, con linee guida e standard nazionali limitati, questo significa che gli assistenti sociali hanno una responsabilità fondamentale nel fare politica di inclusione per gli immigrati (Barberis 2010; Campomori 2008; Tarsia, 2010; Ferrari, 2010). Troppo spesso però, questo ruolo viene sottovalutato dagli assistenti sociali stessi: la consapevolezza che l’implementazione

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delle norme comporta spazi di azione e di discrezionalità più o meno legittimati non è sempre alta (Saruis, 2016 in: Barberis, Boccagni, 29).

La professionalità e la competenza di un operatore si giocano proprio sul modo in cui gestisce questa contraddizione tra scopi dichiarati e pratiche effettive dell’accoglienza. È più facile risolvere la contraddizione scaricandone la responsabilità sugli ospiti: così, ad esempio, l’irrigidimento delle regole in un centro può essere attribuito ai comportamenti violenti di alcuni richiedenti asilo […] È importante però non scambiare le cause con gli effetti: l’operatore deve saper vedere, nei comportamenti delle persone accolte, le conseguenze di un disagio che ha a che fare con le aporie e le contraddizioni del sistema di accoglienza […] Per questo, ci sembra urgente, qui, cercare di dar senso al lavoro dell’operatore; ciò richiede una riflessione sull’esperienza quotidiana, le scelte che continuamente siamo chiamati a operare, l’insieme delle opportunità disponibili e degli ostacoli insormontabili, che spesso privano l’operatore della responsabilità del proprio lavoro e riducono anche i più volenterosi all’accettazione di routines non sempre gratificanti. (Faso, 2017, 45)

Essere consapevoli del contesto e delle strutture in cui si lavora è allora il punto di partenza per gli operatori per riflettere sui propri spazi di azione e diventare soggetti attivi, un approccio critico riflessivo già riconosciuto nell’ambito del servizio sociale come uno dei possibili modi di organizzare il lavoro sociale per fronteggiare il pericolo della “degenerazione dei servizi”. L’importanza di assumere una dimensione di riflessività nelle professioni dell’aiuto è già stata sottolineata da diversi autori nell’ambito del servizio sociale ed è così importante da essere definita, da Maria Dal Pra Ponticelli (in: Sicora, 2005) come uno dei tre elementi che, insieme alle conoscenze teoriche e alle pratiche operative, dovrebbero definire la competenza di un professionista dell’aiuto:

Una definizione condivisa legge la riflessività critica come quel processo messo in atto dai professionisti, di comprensione degli assunti che governano le proprie pratiche, e delle loro basi storiche, sociali, culturali […]

In questo senso è importante aggiungere la dimensione critica alla riflessività: interrogare la pratica significa anche riconsiderare visioni e modi di pensare dati per scontati, che tuttavia rappresentano solo una possibile prospettiva sulla realtà. La dimensione critica inoltre comporta una messa in discussione delle dimensioni di potere inscritte nelle pratiche professionali all’interno dei servizi, e dell’impatto che lo squilibrio di potere può avere sulle relazioni e sui contenuti degli scambi con le persone. (Fargion, 2013, 36)

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In un contesto in cui i diritti delle persone vengono sistematicamente erosi e gli assistenti sociali operano in un ambiente ostile alla professionalità, lo sviluppo di una pratica riflessiva apre le possibilità di contrastare e mettere in discussione le tendenze alla degenerazione dei servizi (Lay, McGuire, 2010).

Come già evidenziato, è importante tenere in considerazione che nell’ambito dell’accoglienza il personale impiegato non comprende solo personale sociale qualificato, quali assistenti sociali ed educatori, bensì, da un lato coinvolge anche professionalità diverse, dall’altro i centri di accoglienza nati sull’onda dell’emergenza non si sono dotati, anche perché non richiesto, di personale sempre qualificato.

Quale consapevolezza e quale sguardo hanno allora gli operatori sociali impiegati nell’accoglienza sul loro agire come professionisti? Una prima restituzione sul lavoro viene dalla ricerca Naga “(Stra)ordinaria accoglienza” del 2007 che, concentrandosi sul territorio milanese, ha cercato di mettere in luce come gli stessi riconoscano l’utilità del loro lavoro (voto medio 4 su una scala da 1-5) sebbene con delle differenze dettate proprio da un diverso sguardo alle difficoltà imposte dal sistema. Dalle risposte degli intervistati, infatti, i ricercatori hanno essenzialmente definito tre gruppi. Il primo, denominato il gruppo dei “gestori attenti” (voto medio 4,4) è costituito da coloro che guardano al loro lavoro come il tentativo di far funzionare un sistema di accoglienza definito come “un meglio che niente”, riconoscendo, in particolare nel sistema SPRAR, oggi SIPROIMI, una possibilità per favorire i percorsi di inclusione. Il secondo, quello dei “proattivi” (voto medio 4,2), si compone degli intervistati che ritengono utile la loro azione ma non efficace, visto la presenza delle difficoltà oggettive dettate dal sistema, e riconoscono soprattutto il loro ruolo come quello di informatori rispetto a diritti e strumenti. Infine, c’è il gruppo dei “critici frustati” (voto 2,9), coloro cioè che, guardando ai limiti del sistema, li considerano ostacoli insormontabili.

L’80% degli intervistati, inoltre, rispondendo alle domande circa gli aspetti valutati più problematici, conferma anche una visione sugli aspetti considerati maggiormente come ostacoli: quelli “tecnici, legislativi, di sistema (comportamenti delle istituzioni, vincoli legislativi, tempistiche)” (Naga, 2017, 61) rappresentano una delle aree principali. La ricerca del Naga, dunque, può fornire una prima restituzione circa la percezione che intervistati hanno delle contraddizioni del sistema in cui sono inseriti e, di conseguenza, delle loro funzioni e dello spazio di azione ad essi riservato.

Infine, interessante in linea con gli studi di Lipsky, è anche osservare come l’esito della ricerca restituisca anche le motivazioni per cui gli operatori abbiano scelto di inserirsi in questo

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contesto che li rende policy maker de facto: tra questi, troviamo motivi legati alla propria “passione, politica e personale […] per essere parte attiva di questo cambiamento”, oltre che l’interesse per l’ambito dell’immigrazione e della multiculturalità e per la continuità rispetto al proprio profilo formativo e professionale.

Passati alcuni anni da questi risultati, con la mia ricerca cercherò di offrire una nuova restituzione oggi della valutazione degli operatori sociali circa la loro funzione, cercando di approfondire l’importanza ad essi attribuita alla loro dimensione dell’agency e verificando se ci sono state occasioni di essere stati in prima persona anche soggetti attivi contro il razzismo e le discriminazioni. È innegabile, infatti, che l’approccio antidiscriminatorio rappresenti oggi una dimensione importante in cui si può giocare l’agency degli operatori.