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La capacità di agire nella sfida dell’accoglienza. Ricerca e analisi della percezione degli operatori

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Academic year: 2021

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Corso di

Laurea magistrale

in

Lavoro, cittadinanza sociale, interculturalità

Tesi di Laurea

La capacità di agire nella sfida

dell’accoglienza:

ricerca e analisi della percezione degli

operatori

Relatrice

Ch.ma Prof.ssa Francesca Campomori

Laureanda

Sofia De Ponti Matricola 966811 Anno Accademico

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3

Indice

Introduzione ... 5

1. Dalle convenzioni internazionali alle nuove discriminazioni: il contesto italiano del lavoro sociale con richiedenti asilo e rifugiati ... 8

1.1 Premessa ... 8

1.2 Vecchie e nuove forme di protezione nell’ordinamento giuridico italiano ... 9

1.3 Accenni alla procedura di valutazione delle domande di protezione ... 16

1.4 L’accoglienza istituzionalizzata ... 19

1.4.1 Il lavoro sociale nei progetti SIPROIMI ... 27

1.4.2 Il lavoro sociale nei Centri di Accoglienza Straordinaria ... 33

1.5 Il razzismo in Italia: dallo Stato ai molti ... 36

2. Agency e lavoro sociale: una cornice teorica ... 40

2.1 Per una definizione di agency ... 40

2.1.1 L’agire dai classici ai contemporanei della sociologia ... 40

2.1.2 La teoria dell’azione di A. Giddens ... 43

2.1.3 Dall’agency all’approccio delle capacità ... 45

2.2 Azione e discrezionalità nel lavoro sociale ... 46

2.2.1 Lipsky e il suo studio sugli street-level bureaucrats ... 51

2.3 Spazi di azione per gli operatori dell’accoglienza ... 54

2.4 Un approccio antidiscriminatorio ... 58

3. Il disegno di ricerca ed il profilo degli intervistati ... 60

3.1 Premessa ... 60

3.2 Gli obiettivi della ricerca ... 60

3.3 Gli strumenti della ricerca e il profilo degli intervistati ... 61

3.3.1 Il questionario ... 62

3.3.2 Le interviste semi - strutturate ... 68

4. I risultati della ricerca ... 72

4.1 La capacità di agency degli operatori per i percorsi di inclusione individuale ... 72

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4.3 Operatori discriminati? ... 80

4.4 La dimensione politica nel lavoro dell’accoglienza ... 86

4.5 Le conseguenze del Decreto Salvini: un taglio all’azione e al pensiero ... 91

4.6 Dalle ipotesi di ricerca ai risultati ... 97

Conclusioni ... 99

Riferimenti bibliografici ... 103

Riferimenti sitografici ... 105

Appendice A ... 106

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5

Introduzione

Quasi un anno fa, accompagnai una donna di nazionalità nigeriana accolta nel centro di accoglienza dove lavoravo in un ospedale per una visita medica specialistica al torace. Alla dottoressa che ci accolse spiegammo i motivi della visita, ovvero di dolori che saltuariamente arrivavano e che, secondo la donna, erano legate ad alcune percosse che riportava di aver subito durante il periodo trascorso in Libia. Ad accoglierci in ospedale fu una dottoressa che, nel corso della visita, si rivelò però più concentrata ad interrogarmi sui motivi per i quali la donna avesse lasciato il suo paese piuttosto che ad approfondire la situazione sanitaria della stessa. Più volte, dovetti intervenire per fermare la curiosità della dottoressa ed evitare l’imbarazzo della donna la quale, nonostante qualche fatica con la lingua italiana, aveva ben decifrato l’ostilità del medico nei suoi confronti, come mi rivelò appena uscita dallo studio. La dottoressa non si risparmiò né ad esprimere le proprie perplessità circa il futuro delle persone che venivano in Italia - considerato che gli immigrati qui sono già troppi e di lavoro, si sa, non c’è nemmeno per gli italiani – né circa il mio lavoro, giudicato a suo parere inutile. È da qui, ovvero dalla mia esperienza personale e professionale come operatrice ed assistente sociale impegnata nell’ambito dell’accoglienza per le persone richiedenti asilo e rifugiate, che nasce l’idea per questo elaborato finale di tesi. Il lavoro quotidiano con le persone immigrate ed il confronto altrettanto abituale con i servizi e le istituzioni, oltre che con il contesto più ampio in cui il sistema di accoglienza si inserisce, mi hanno spesso portato ad interrogarmi rispetto alle sfide, professionali e personali, a fronte delle quali questo lavoro ti pone e agli spazi di azione possibili per gli operatori, non solo nei confronti dei beneficiari dei percorsi di accoglienza ma anche rispetto al contesto socio – culturale esterno. Accanto all’esperienza professionale, anche il percorso formativo mi ha portato ad una continua riflessione circa le criticità e le contraddizioni che il lavoro dell’accoglienza porta con sé, oltre che alla profonda consapevolezza che il settore dell’immigrazione rappresenta oggi uno degli ambiti in cui è più evidente la contrapposizione tra un lavoro sociale fondato sulla promozione dei diritti umani e della giustizia sociale e un sistema di servizi, espressione delle politiche sociali di un determinato contesto temporale e socio- culturale, che non necessariamente ne condivide gli assiomi. Nonostante tali criticità, è possibile oggi affermare non solo la carenza di letteratura sul tema del lavoro sociale con le persone immigrate ma anche che l’esperienza degli operatori dell’accoglienza non è stata ad oggi ancora sufficientemente raccontata ed analizzata.

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accoglienza delle persone richiedenti asilo e rifugiate e si pone l’obiettivo di restituire la percezione degli operatori sociali rispetto ai propri spazi di azione nella relazione con una dimensione sociale e comunitaria più ampia, ponendo in relazione tali aspetti anche con gli attuali cambiamenti normativi, in particolare con l’introduzione nello scorso anno del Decreto Salvini, e con il clima politico – sociale, verificando in particolare l’eventuale presenza di qualche forma di discriminazione da parte del personale di servizi ed istituzioni anche nei confronti degli stessi operatori.

Per rispondere a tali interrogativi, è stato predisposta un’indagine con strumenti sia quantitativi sia qualitativi, mediante la costruzione di un questionario rivolto ad operatori dell’accoglienza e la realizzazione successiva di alcune interviste semi – strutturate a testimoni privilegiati.

Prima di presentare la ricerca con i suoi risultati, è stato però necessario delineare il quadro di osservazione, presentato nei primi capitoli di questa tesi, analisi necessaria sia come punto di partenza della ricerca sia come chiave per la successiva interpretazione dei risultati. L’elaborato prende infatti avvio dalla descrizione del contesto in cui oggi il lavoro degli operatori si inserisce, illustrato nel primo capitolo. Per delineare tale cornice, è stato innanzitutto necessario partire dalla presentazione del quadro normativo per evidenziare il percorso di forte attenuazione ed i problemi di reale effettività che il diritto in materia di protezione internazionale sta conoscendo, sintomo di quel razzismo istituzionale che, come mostrato sempre nelle stesse pagine, viene poi socializzato e condiviso a livello popolare, andando a creare un clima di fatto ostile all’accoglienza delle persone che arrivano oggi nel nostro paese. La presentazione della normativa è stata arricchita da commenti ed osservazioni di esperti del diritto specializzati in materia di immigrazione, oltre che da alcune analisi di ricercatori che con i loro studi hanno approfondito queste tematiche. In questo primo capitolo, un particolare spazio è stato poi riservato al sistema di accoglienza istituzionalizzato, presentato sia attraverso una digressione normativa che ne ricostruisce l’evoluzione nel tempo sia con una descrizione approfondita dei due principali attuali sistemi di accoglienza, i progetti SIPROIMI e i Centri di Accoglienza Straordinaria, che restituisce una prima fotografia, basata su documenti ufficiali e sui pochi dati disponibili, del lavoro sociale all’interno di queste strutture.

Il secondo capitolo mira ad offrire un quadro teorico relativo al servizio sociale intorno al tema di agency, ovvero a quel concetto che definisce l’abilità “degli individui e dei gruppi di agire nelle situazioni, di comportarsi come soggetti invece che come oggetti nelle loro vite” (Jeffery, 2011, 6), per sottolineare non solo il ruolo di policy maker di fatto svolto dagli

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operatori sociali ma per offrire spunti per una riflessione in merito al ruolo di influenza che il lavoro sociale può esercitare sul contesto socio-culturale in cui è inserito. L’analisi della letteratura qui illustrata si delinea in un percorso che, partendo dal pensiero sociologico tradizionale, arriva ad analizzare le teorie di agency applicate al servizio sociale e si conclude con una riflessione sulle contraddizioni in cui si situa la discrezionalità e lo spazio di azione degli operatori sociali che lavorano con utenza straniera e all’interno dei centri di accoglienza. Nel terzo capitolo, viene invece presentato il disegno di ricerca realizzato: dopo una breve premessa, vengono illustrati in maniera approfondita gli obiettivi della ricerca e gli strumenti utilizzati, con alcune informazioni relative al reperimento degli intervistati e con, in aggiunta, la descrizione del profilo degli stessi.

Infine, il quarto capitolo è dedicato alla presentazione e all’illustrazione dei risultati della ricerca, i cui esiti saranno ripresi nelle conclusioni.

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1. Dalle convenzioni internazionali alle nuove discriminazioni: il

contesto italiano del lavoro sociale con richiedenti asilo e rifugiati

1.1 Premessa

Il 22 dicembre 1947 l'Assemblea Costituente approva il testo della Costituzione della Repubblica Italiana, entrata in vigore il 1° gennaio dell’anno successivo, riconoscendo tra i principi fondamentali del nuovo ordinamento il diritto d’asilo.

Pochi anni dopo, precisamente il 28 luglio 1951, viene approvata la Convenzione sullo status dei rifugiati, conosciuta come Convenzione di Ginevra e ratificata dall’Italia nel 1954, che costituirà il punto di partenza per lo sviluppo di una normativa di promozione internazionale del diritto d’asilo.

Il documento, i cui principi da sempre hanno ispirato le professioni sociali, rientra tra le convenzioni riportate nelle Linee Guida sull’Etica1, approvate nel 2018 dai rappresentanti

dell’associazione delle scuole di servizio sociale di tutto il mondo e dalla federazione internazionale dei lavoratori sociali che, superando i codici deontologici nazionali, condividono, tra i vari principi del lavoro sociale, la promozione dei diritti fondamentali e inalienabili di tutti gli esseri umani “come riflesso nei dispositivi e nelle convenzioni sui diritti umani”.

I principi etici o deontologici che guidano le pratiche degli operatori sociali nell’ambito del diritto di asilo oggi si inseriscono però in un sistema che ha conosciuto negli anni un problema di reale effettività e, più recentemente, un percorso di forte attenuazione, tanto che alcuni autori hanno iniziato a parlare già negli scorsi anni di “razzismo di stato” (Basso, 2010). Tali aspetti rientrano in un ordinamento giuridico italiano che si caratterizza per la mancanza di una normativa organica di settore in materia d’asilo ma che ha visto negli anni, al contrario, susseguirsi un insieme di disposizioni e di interventi, vasti, disorganici e non sempre coerenti tra di loro, provenienti da diverse fonti del diritto (trattati e convenzioni internazionali,

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Statement of Ethical Principles; Social Work, elaborata ed approvata nel 2018 a Dublino dall’International Association of School of Social Work (IASSW) e dall’International Federation of Social Worker (IFSW). Come si legge nelle note alla Dichiarazione, il termine assistente sociale, tradotto nella lingua italiana, si riferisce alle diverse categorie di social workers e a docenti, studenti, ricercatori e operatori nell’ambito del servizio sociale.

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norme internazionali, direttive dell’Unione Europea, norme costituzionali, leggi e atti aventi forza di legge, regolamenti). A queste, inoltre, è necessario aggiungere l’insieme delle prassi e delle circolari amministrative che, pur non essendo fonti di diritto, di fatto contengono ordini e disposizioni che rappresentano un vero e proprio “universo sotterraneo normativo” in tale materia (Gjergi, 2016, 61).

1.2 Vecchie e nuove forme di protezione nell’ordinamento giuridico italiano

Quando si parla di diritto d’asilo si fa riferimento ad una forma di protezione riconosciuta da uno Stato sul proprio territorio e fondata su diritti riconosciuti a livello internazionale e nazionale.

Come anticipato, fondamento del sistema d’asilo nell’ordinamento legislativo italiano è l’articolo 10 della Costituzione Italiana. L’articolo, che rientra tra i principi fondamentali del testo costituzionale, recita:

Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione Italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge.

Dalla lettura del testo, si evince il richiamo ad una legge ordinaria che possa meglio specificarne le condizioni. La mancanza di tali indicazioni legislative, nonostante la pronuncia della Corte di Cassazione che, a sezione unite2, ha dichiarato sufficientemente chiara la norma

costituzionale permettendone quindi anche un’applicazione diretta, ha in realtà fortemente limitato l’uso diretto di tale articolo.

Sul piano internazionale, cardine del diritto d’asilo è invece la Convenzione sullo status dei rifugiati, approvata il 28 luglio 1951 e ratificata dall’Italia con la legge n° 722 del 24 luglio 1954. In base alla definizione contenuta nella Convenzione di Ginevra, rifugiato è colui che:

per causa di avvenimenti anteriori al 1° gennaio 1951 e nel giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato; oppure a chiunque, essendo apolide e trovandosi fuori del

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suo Stato di domicilio in seguito a tali avvenimenti, non può o, per il timore sopra indicato, non vuole ritornarvi.

Con la ratifica del Protocollo sullo status di rifugiato, siglato il 31 gennaio 1967 a New York, venne eliminato il limite temporale (fatti avvenuti prima del 1 gennaio 1951) e le limitazioni geografiche contenute nella Convenzione di Ginevra, allargando così tale protezione. Sia la Convenzione sia il Protocollo sono richiamati nell’art. 18 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, approvata dal Parlamento europeo nel novembre 2000:

Il diritto di asilo è garantito nel rispetto delle norme stabilite dalla convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951 e dal protocollo del 31 gennaio 1967, relativi allo status dei rifugiati, e a norma del trattato che istituisce la Comunità̀ europea.

È possibile osservare come la Convenzione di Ginevra, differenziandosi dalla norma costituzionale italiana, definisca la nozione di rifugiato ponendo l’accento sul timore di persecuzione, nozione meglio approfondita dall’Unione Europea con la direttiva 2004/83/CE3, recepita nell’ordinamento italiano con il decreto legislativo n°251 del 2007.

E’ opportuno evidenziare che tale direttiva arrivò dopo che, con la riunione straordinaria di Tampere del 15 e 16 ottobre 1999, il Consiglio Europeo sentì la necessità di intervenire per l’istituzione di una politica europea comune che garantisse il rispetto della Convenzione di Ginevra per tutti i paesi membri dell’Unione, in linea con quanto previsto dal Trattato di Amsterdam del 19994, trattato grazie al quale le politiche di immigrazione e di asilo avevano

trovato spazio in ambito comunitario, passando da materia di cooperazione intergovernativa a competenza comunitaria sovranazionale.

Il recepimento delle direttive europee 2004/83/CE, 2005/85/CE e 2013/32/UE rappresentano i pilastri della normativa italiana attuale in materia di diritto d’asilo. All’interno della normativa viene approfondito ciascuno dei motivi di persecuzione espressi dalla Convenzione di Ginevra (razza, religione, nazionalità, appartenenza a gruppo politico) e viene chiarito che per atti di persecuzione bisogna intendere quelle azioni “sufficientemente gravi, per loro natura o frequenza, da rappresentare una violazione grave dei diritti umani fondamentali” (art. 9 direttiva europea 2004/83/CE) che possono assumere la forma di:

3 Direttiva 2004/83/CE del Consiglio del 29 aprile 2004 recante norme minime sull'attribuzione, a

cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta.

4 Il trattato di Amsterdam venne firmato il 2 ottobre 1997 dai paesi membri dell’Unione Europea ed

entrò in vigore in data 1 maggio 1999. Il trattato di Amsterdam apportò modifiche al trattato sull’Unione Europea e ai trattati istitutivi della Comunità Europea.

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a) atti di violenza fisica o psichica, compresa la violenza sessuale;

b) provvedimenti legislativi, amministrativi, di polizia e/o giudiziari, discriminatori per loro stessa natura o attuati in modo discriminatorio;

c) azioni giudiziarie o sanzioni penali sproporzionate o discriminatorie

d) rifiuto di accesso ai mezzi di ricorso giuridici e conseguente sanzione sproporzionata o discriminatoria

e) azioni giudiziarie o sanzioni penali in conseguenza al rifiuto di prestare servizio militare in un conflitto, quando questo comporterebbe la commissione di crimini, reati o atti che rientrano nelle clausole di esclusione di cui all'articolo 12, paragrafo 2;

f) atti specificamente diretti contro un sesso o contro l'infanzia.

a)

La norma individua come soggetti responsabili della persecuzione “lo Stato, i partiti o le organizzazioni che controllano lo Stato o una parte consistente del suo territorio oppure altri soggetti non statuali se può essere dimostrato” che lo Stato o le organizzazioni “non

possono o non vogliono fornire protezione contro persecuzioni o danni gravi.” È in relazione alla valutazione di tutti questi elementi, dunque, che uno stato membro può riconoscere lo status di rifugiato ad una persona che presenta la relativa domanda.

Oltre a definire meglio le previsioni della Convenzione di Ginevra sullo status di rifugiato, la direttiva 2004/83/CE introduce una seconda forma di tutela, denominata protezione sussidiaria, che può essere prevista per un:

cittadino di un paese terzo o apolide che non possiede i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato ma nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel Paese di origine o, nel caso di un apolide, se ritornasse nel paese nel quale aveva precedentemente la dimora abituale, correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno […] e il quale non può, o a causa di tale rischio, non vuole avvalersi della protezione di detto paese. (art. 2)

La direttiva europea precisa che possono essere considerati danni gravi (art. 15):

a) la condanna a morte o all'esecuzione; o

b) la tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante ai danni del richiedente nel suo paese di origine; o

c) la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale.

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Il decreto legislativo n° 251/2007, dando attuazione in Italia alla direttiva 2004/83/CE, ha riconosciuto le due diverse forme di tutela. Nello specifico, la normativa italiana prevede per i titolari dello status di rifugiato il rilascio di un permesso di soggiorno di validità quinquennale rinnovabile. La durata di validità del permesso di soggiorno per protezione sussidiaria, invece, inizialmente prevista per tre anni, è stata successivamente aumentata a cinque anni; tale permesso di soggiorno è rinnovabile solo previa verifica della permanenza delle condizioni che ne hanno consentito il rilascio ed è convertibile per motivi di lavoro, previa valutazione dei requisiti necessari al rilascio di un permesso di soggiorno per motivi di lavoro (art. 23). I titolari dello status di rifugiato o di protezione sussidiaria hanno diritto ad accedere al sistema di istruzione e a godere del medesimo trattamento previsto per il cittadino italiano in materia di lavoro e di assistenza sociale e sanitaria (artt. 25 – 27). Oltre a queste due forme di protezione riconosciute dalla normativa internazionale e comunitaria, il legislatore italiano aveva previsto un’ulteriore forma di protezione, denominata umanitaria, e recentemente abrogata con l’introduzione del decreto legge n° 113/2018 recante disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale dello straniero e

immigrazione, sicurezza pubblica, conosciuto come “Decreto Salvini”, convertito con

modificazioni dalla legge n° 132 del 2018.

La norma abrogata, prevista all’articolo 6 del decreto legislativo n° 286 del 1998, consentiva il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari nei casi in cui, pur non essendoci i requisiti per accogliere la domanda di protezione internazionale (status di rifugiato o protezione sussidiaria), si ritenesse sussistere “serie e gravi ragioni” di carattere umanitario (Regolamento d’esecuzione del D. Lgs n° 286/98, art. 5). La normativa italiana, non specificando in termini univoci quali fossero le esigenze di protezione umanitaria, rimaneva così ampia e generica e permetteva la possibilità di una concessione della protezione umanitaria come forma di tutela residuale legata, ad esempio, a questioni relative a problemi di salute, alla presenza di vulnerabilità, al viaggio migratorio e, in alcuni casi, concessa a persone che avevano già avviato, al momento della decisione circa la loro protezione, percorsi di integrazione di successo in Italia.

Eliminata la discrezionalità legata alla tutela umanitaria, il decreto legge n° 113/2018 introduce la possibilità di rilascio di un permesso di soggiorno, denominato per “casi speciali”, delineando alcune fattispecie ben definite e riducendo così di fatto il numero possibile dei destinatari.

E’ opportuno evidenziare come nell’ambito dell’immigrazione lo strumento del decreto legge, previsto agli articoli 72 e 73 della Costituzione Italiana per permettere al governo di

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intervenire in breve tempo in situazioni di urgenza e di emergenza, sia continuamente scelto dal legislatore per intervenire in materia di asilo; un uso da molti valutato illegittimo e incostituzionale in quanto sottrae potere legislativo al Parlamento per regolarizzare una situazione che, come dimostrato dai dati, non si caratterizza più come un fenomeno emergenziale ma che, al contrario, ha caratteristiche ormai ben note. A questo proposito, l’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (ASGI)5 osservava proprio a

proposito del Decreto Salvini:

Non si comprende, innanzitutto, la necessità del ricorso alla decretazione d’urgenza – specie in una fase come quella attuale, in cui il numero delle persone straniere che giungono in Italia è talmente ridotta da non comportare alcuna forma di allarme sociale. È evidente che in relazione a quasi tutte le misure previste dal decreto legge non sussistono i presupposti di necessità di cui agli artt. 72 e 77 della Costituzione trattandosi di una radicale riforma modificativa di istituti giuridici esistenti da molto tempo. Tale modus procedendi è evidentemente rivolto ad impedire ogni confronto democratico sia in sede parlamentare, sia (soprattutto) nella società civile e tra le istituzioni maggiormentecoinvolte da tale decreto.6

La prima tipologia di permesso “casi speciali” introdotta è per cure mediche: può essere rilasciata:

agli stranieri che versano in condizioni di salute di eccezionale gravità, accertate mediante idonea documentazione, tali da determinare un irreparabile pregiudizio alla salute degli stessi, in caso di rientro nel Paese di origine o di provenienza (art. 19 D. Lgs. 286/1998).

Tale permesso, valido solo nel territorio nazionale, ha validità pari al tempo attestato dalla certificazione sanitaria, comunque non superiore ad un anno, ed è rinnovabile finché persistono le condizioni di salute di eccezionale gravità debitamente certificate. La norma non specifica se alle persone titolari di un permesso per cure mediche sia consentito o meno di svolgere attività lavorativa, compatibile con il grave stato di salute, né se tale permesso possa essere convertito in un permesso per lavoro; secondo ASGI, in assenza di un chiaro

5 L’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione è un’associazione di promozione sociale

composta da avvocati, giuristi e studiosi del diritto specializzata nell’analisi delle norme, della giurisprudenza e delle prassi in materia di immigrazione.

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divieto normativo, bisogna ritenere sussistere tale opportunità sebbene bisogna poi considerare la possibilità che le Questure, interpretando in maniera più restrittiva, non ne consentano la conversione7.

La seconda tipologia di permesso di soggiorno “casi speciali” per “calamità” è rilasciato nei casi in cui:

il Paese verso il quale lo straniero dovrebbe fare ritorno versa in una situazione di contingente ed eccezionale calamità che non consente il rientro e la permanenza in condizioni di sicurezza (art. 20 bis).

È da evidenziare come la normativa non precisa il concetto di calamità, che rimane oggi quindi indefinito. Tale permesso, valido solo nel territorio nazionale, ha validità̀ di sei mesi ed è rinnovabile per un periodo di altri sei mesi solo nel caso in cui le condizioni di calamità permangano; consente di svolgere attività̀ lavorativa ma non può essere convertito in permesso di soggiorno per lavoro.

All’interno dei casi speciali, rientrano infine, le forme di protezione previste dall’articolo 18 e 22 del decreto legislativo n° 286 del 1998, rivolte a cittadini stranieri vittime di tratta e grave sfruttamento o di violenza; il permesso di soggiorno rilasciato ha una validità di sei mesi, prorogabile fino ad un anno.

Con il decreto è stato introdotto inoltre il permesso di soggiorno “per atti di particolare valore civile” che può essere riconosciuto, come ne suggerisce la denominazione, in seguito ad atti di particolare valore civile. Tale permesso, rilasciato su autorizzazione del Ministro dell’Interno e su proposta del Prefetto, ha validità di due anni ed è rinnovabile; consente di svolgere attività lavorativa e può essere convertito in permesso di soggiorno per lavoro. Infine, la normativa ammette la possibilità di riconoscere un permesso di soggiorno per protezione sociale della durata di un anno nei casi in cui esista:

§ il rischio di persecuzione di cui all’art. 19, c. 1, d.lgs. 286/98, che stabilisce che: “In nessun caso può̀ disporsi l'espulsione o il respingimento verso uno Stato in cui lo straniero possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni

7 Le principali novità sui permessi di soggiorno introdotte dalla legge n˚ 113/2018. Scheda per operatori

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personali o sociali, ovvero possa rischiare di essere rinviato verso un altro Stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione”;

§ o il rischio di tortura di cui all’art. 19, c. 1.1, d.lgs. 286/98, che stabilisce che “Non sono ammessi il respingimento o l'espulsione o l'estradizione di una persona verso uno Stato qualora esistano fondati motivi di ritenere che essa rischi di essere sottoposta a tortura. Nella valutazione di tali motivi si tiene conto anche dell'esistenza, in tale Stato, di violazioni sistematiche e gravi di diritti umani”;

§ salvo – in entrambi i casi – che possa disporsi l’allontanamento verso uno Stato che provveda ad accordare una protezione analoga. 8

Tale permesso di soggiorno ha validità annuale può essere rinnovato solo se alla scadenza viene verificata la continuità del rischio di persecuzione e tortura. Consente di lavorare ma non è convertibile in un permesso per motivi di lavoro.

Alla luce di quanto descritto, è opportuno evidenziare che parlare di immigrazione nel mondo contemporaneo significa definire un fenomeno sociale ormai strutturale, che vede tra le sue cause sicuramente fattori quali persecuzioni e conflitti armati ma che ha radici anche in un più complesso sistema di relazioni tra nazioni. L’esperienza del colonialismo, la diseguaglianza di sviluppo tra i cosiddetti “paesi del sud del mondo” ed i “paesi del nord del mondo”, la trasformazione capitalistica dell’agricoltura mondiale ed il debito estero sono, ad esempio, alcuni dei fattori che arrivano a condizionare la vita delle singole persone che decidono di partire dai paesi più poveri verso quelli più ricchi del mondo.

In assenza di un sistema legale di ingresso nel nostro paese, la richiesta di asilo ha rappresentato l’unica alternativa per le persone immigrate di paesi terzi di regolarizzare la propria posizione sul territorio italiano ed europea. L’abolizione della protezione umanitaria e del ruolo svolto da questo ha provocato inevitabilmente un aumento della percentuale di stranieri irregolarmente soggiornanti e, dunque, privi di diritti. Come osserva ASGI,

Ben altre sarebbero le iniziative necessarie ad affrontare le conseguenze delle politiche sociali, economiche e militari di Paesi quali l’Italia e gli altri Stati membri della UE. Tali politiche, evidentemente, sono la causa di processi migratori scomposti che, in ragione dell’assenza di visione prospettica, si proibisce per non regolare adeguatamente.9

8 Ibidem.

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1.3 Accenni alla procedura di valutazione delle domande di protezione Secondo la Convenzione di Dublino, ratificata in Italia nel 1990, lo Stato europeo competente all’esame di una domanda di asilo presentata da cittadini di paesi terzi è lo stato di p\rimo arrivo dello straniero richiedente.10

Secondo quanto previsto dal decreto legislativo n° 25 del 2008, in attuazione della direttiva 2005/85/CE e successive modificazioni11, la domanda d’asilo deve essere presentata presso

la polizia di frontiera al momento di arrivo sul suolo italiano o presso la Questura qualora lo straniero si trovi già in Italia. La normativa prevede che, nel momento in cui una persona manifesti la propria volontà a chiedere protezione venga immediatamente considerata richiedente asilo, richiesta che è tenuta successivamente a formalizzare con la compilazione di un documento denominato modello C3. In seguito alla formalizzazione della domanda, la Questura è tenuta a rilasciare un permesso di soggiorno temporaneo per richiesta asilo e ad inviare la documentazione del richiedente di cui è in possesso alla Commissione Territoriale per il Riconoscimento della Protezione Internazionale, autorità deputata alla valutazione della sussistenza dei requisiti per il riconoscimento della protezione. Inizialmente, in Italia era presente un’unica Commissione con sede a Roma; dal 2008, con l’obiettivo di ridurre i tempi di esame delle domande, il numero delle Commissioni è stato ampliato dapprima a dieci e successivamente a venti e sono state create diverse sottosezioni, ciascuna di esse con una propria competenza territoriale. Oltre alle Commissioni Territoriali, è istituita la Commissione Nazionale per il diritto di asilo, con competenza in materia di revoca e cessazione degli status di protezione internazionale riconosciuti, incarichi di indirizzo e coordinamento delle Commissioni territoriali e compiti di informazione e di raccolta dati. Ciascuna Commissione Territoriale è formata da vari membri12: un funzionario di carriera

10Il 15 giugno 1990 i 12 Stati membri della Comunità europea (Belgio, Danimarca, Germania, Grecia,

Spagna, Francia, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo, Regno Unito) firmarono la

Convenzione sulla determinazione dello stato competente per l’esame di una domanda di asilo presentata in uno degli stati membri delle Comunità Europee, conosciuta con il nome di Convenzione di Dublino, con l'obiettivo

di armonizzare le politiche in materia di asilo. La Convenzione è stata poi sostituita dal Trattato di Dublino II, sottoscritto dagli Stati dell'Ue nel 2003, poi modificato nel 2013 e rinominato Dublino III.

11 Attuazione della direttiva 2005/85/CE recante norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai

fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato, così come modificato dal Decreto Legge del 17

febbraio 2017, n˚ 13, convertito con modificazioni dalla Legge del 13 aprile 2017, n˚ 46.

12 La composizione delle Commissioni Territoriali è stata modifica nel 2017 con l’introduzione del

decreto legislativo n˚ 220. Precedentemente, ciascuna Commissione si componeva di un funzionario di carriera prefettizia, con funzione di presidente, un funzionario della Polizia di Stato, un rappresentante di un ente territoriale designato dalla Conferenza Stato – Regioni ed autonomie locali ed un rappresentante dell’UNHCR (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, agenzia istituita nel 1950.

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prefettizia, con funzione di presidente, un membro designato da UNHCR e funzionari specializzati selezionati mediante concorso pubblico. L’audizione del richiedente asilo avviene in presenza di uno solo dei componenti scelti, preferibilmente dello stesso sesso del richiedente, mentre la decisione in merito al riconoscimento della protezione è presa collegialmente. È rilevante evidenziare come la decisione sull’eventuale riconoscimento della protezione internazionale si basa molto spesso esclusivamente, in assenza di altre prove, sul racconto del richiedente in sede di audizione, sulla raccolta delle informazioni, sulla valutazione della credibilità del racconto e sulla valutazione del rischio che avviene in sede di colloquio.13

Anche relativamente alla procedura per il riconoscimento della protezione internazionale, possiamo oggi sottolineare molti fattori particolarmente critici, tra cui alcune modifiche introdotte recentemente. Innanzitutto, oltre alla discrezionalità delle diverse Questure che di fatto agiscono in maniera differente a seconda dei territori e con procedure che cambiano continuamente, possiamo sottolineare alcuni aspetti concernenti le Commissioni. In primo luogo, è opportuno precisare che le competenze della figura di interprete, ruolo che secondo la normativa vigente deve sempre essere presente nel corso dell’audizione per la sua evidente importanza, non sono in realtà definite e codificate all’interno dell’ordinamento italiano. Inoltre, sebbene il richiedente abbia diritto ad essere assistito, durante l’audizione, da un avvocato, è opportuno evidenziare come tale possibilità non sia coperta dal gratuito patrocinio e sia quindi un’opzione spesso insostenibile per il richiedente. A discrezione del presidente della Commissione, può essere invece ammessa la presenza di un operatore sociale.

Con il decreto legge n° 14 del 201714 recante Disposizioni urgenti per l'accelerazione dei procedimenti

in materia di protezione internazionale, nonché per il contrasto dell'immigrazione illegale, conosciuto come

Decreto Minniti, sono state introdotte poi alcune novità di fatto molto criticate dagli esperti del settore, riguardanti sia l’audizione in Commissione sia le possibilità e le modalità di ricorso di fronte ad un giudice a fronte di una decisione negativa dell’istituzione preposta alla valutazione della domanda.

Innanzitutto, tra le novità introdotte, si prevede l’obbligo di videoregistrazione dell’intervista, audizione che, secondo quanto già previsto, deve sempre essere trascritta e riletta al termine della stessa.

13 Guida pratica dell’EASO: valutazione delle prove, pubblicata nel marzo 2015.

14 Disposizioni urgenti per l'accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale, nonché per il

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In secondo luogo, sono stati introdotti cambiamenti riguardanti i procedimenti di ricorso avverso la Commissione Territoriale in caso di rigetto della domanda. Secondo quanto previsto dalla normativa già precedentemente in vigore, la Commissione Territoriale può decidere di accogliere la domanda, riconoscendo lo status di rifugiato o la protezione sussidiaria, suggerire alla Questura il rilascio di un permesso di soggiorno per casi speciali oppure può procedere al diniego della domanda; in quest’ultimo caso, il richiedente ha diritto a ricorrere contro la decisione della Commissione presentando ricorso entro 30 giorni dalla notifica dell’esito della Commissione, tempo che però viene dimezzato nel caso in cui nel provvedimento di notifica della decisione sia esplicitato che la domanda di asilo è manifestatamente infondata. La presentazione del ricorso produce un effetto sospensivo automatico del provvedimento negativo della Commissione, fino alla decisione del giudice. Con il Decreto Minniti, nel 2017, sono state istituite sezioni specializzate in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell'Unione europea all’interno dei tribunali. Lo stesso decreto, inoltre, ha introdotto il rito camerale senza udienza, che consente al giudice di prendere visione della videoregistrazione del colloquio del richiedente davanti alla Commissione Territoriale, eliminando l’audizione e dunque la possibilità che il giudice possa confrontarsi direttamente con il richiedente. L’audizione del richiedente è rimasta un’opzione possibile solo nel caso in cui la videoregistrazione non sia stata realizzata, se l’impugnazione del provvedimento della Commissione si basa su elementi di fatto non dedotti in Commissione oppure se la richiesta di audizione appare motivata nel ricorso e ritenuta essenziale dal giudice ai fini della decisione.

Oltre a modificare il rito del primo grado di giudizio, il decreto ha abolito inoltre il secondo grado di giudizio per i richiedenti asilo, negazione di diritto che rappresenta un unicum nell’ordinamento italiano. Così Lorenzo Trucco, presidente dell’Associazione sugli Studi Giuridici sull’Immigrazione commentava il Decreto Minniti nell’aprile 2017, osservandone l’approccio discriminatorio e la forte riduzione dei diritti:

Durante l'intervista possono succedere molte cose e nel 90% dei casi tutto ciò che conta è la storia raccontata dai ricorrenti. Nel migliore dei casi, si tratta di persone che lasciano paesi in cui non è più possibile vivere, per non parlare delle gravi violazioni dei diritti umani, delle persecuzioni, dei conflitti e così via. Ci vogliono anni perché persone provenienti dal Gambia o dal Mali attraversino il deserto, mentre soffrono di indicibili molestie, e arrivano in Libia, dove subiscono ulteriori abusi nei centri di accoglienza, e poi “vanno in crociera” nel Mediterraneo ... Il minimo che dovrebbero ricevere è un

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contesto decente in cui raccontare la propria storia in modo dignitoso e credibile. Invece, l'approccio adottato è completamente sbagliato. Tutti gli avvocati sono preoccupati perché quando tocchi un pezzo nel sistema, anche il resto cade. Spesso in passato la legislazione sugli stranieri ha percorso strade pericolose. Il nostro sistema si basa su tre livelli di giurisdizione per tutti, siano essi stranieri o no. Questo è un diritto fondamentale garantito dalla nostra Costituzione e dalle convenzioni internazionali. L'orizzonte è molto buio: esiste il rischio che il sistema di asilo sia completamente cambiato, al fine di prevenire l'arrivo dei migranti e l'avvio della procedura di domanda di asilo15.

Eliminato il secondo grado di giudizio, l’ultima occasione per un richiedente rimane il ricorso in Cassazione, ricorso che deve avvenire entro 30 giorni dalla notifica della decisione negativa: essendo giudice di legittimità, la Cassazione si può però esprimere solo relativamente al rispetto della legge nel corso del procedimento della domanda senza invece poter entrare nel merito del contenuto.

Per tutta la durata del procedimento, il richiedente è autorizzato a rimanere nel territorio dello Stato fino alla conclusione dello stesso.

1.4 L’accoglienza istituzionalizzata

La nascita del sistema di accoglienza istituzionalizzata in Italia risale al marzo 1991 ed è legata al primo arrivo in massa degli albanesi. Secondo la legge Martelli n° 39 del 1990 in vigore in quegli anni, l’ingresso in Italia sarebbe stato possibile solo con un visto d’ingresso. Dopo alcuni giorni di confino della nave nella zona portuale in attesa delle valutazioni delle autorità pubbliche e azioni di forzatura degli albanesi che decisero di bruciare i motori della nave, i sindaci del luogo presero la decisione di organizzarsi diversamente ed iniziarono a gestire l’emergenza con i loro mezzi: i cittadini si mobilitarono ed alcune persone vennero accolte nelle case, altre nelle scuole. A fronte della mobilitazione delle autorità locali, il governo decise di intervenire nei giorni successivi; blindati di carabinieri e volontari vennero inviati nelle città e sistemati davanti alle scuole, iniziando a creare quelle situazioni di custodia e prassi, ad esempio la necessità di chiedere permesso per uscire dalle strutture, che saranno poi le basi del sistema di accoglienza istituzionalizzato.

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La prima normativa in Italia ad occuparsi di accoglienza fu il decreto legge n° 451 del 1995, conosciuto come "Legge Puglia", che decretò l'apertura, per gli anni 1995, 1996 e 1997 di strutture ricettive lungo la frontiera marittima pugliese per far fronte alle esigenze di prima assistenza per gli stranieri sbarcati sulle coste italiane. Tale normativa, benché non preveda il mantenimento permanente di strutture, è stata convertita con la legge n° 563 del 1995 e, nonostante non sia organicamente inserita nell’impianto legislativo, si sono visti negli anni nascere diversi centri, quali i centri di transito per l’emergenza dei siriani, sulla base di questo dettato normativo.

L’accoglienza degli stranieri nell'ordinamento italiano verrà normalizzata solo nel 1998, con l’entrata in vigore del decreto legislativo n° 286, ovvero del Testo unico delle disposizioni concernenti

la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero. Il dettato normativo prevede

infatti la possibilità per le regioni, in collaborazione con le province e con i comuni e con le associazioni e le organizzazioni di volontariato, di predisporre centri di accoglienza per persone straniere regolarmente soggiornanti che siano temporaneamente prive di mezzi di sussistenza ed impossibilitate a provvedere autonomamente alle proprie esigenze alloggiative. Il testo normativo non descrive le tipologie di permesso di soggiorno che rientrano in tale possibilità ma indica come obiettivo dell’accoglienza la promozione dell’autosufficienza degli stranieri ospitati nel più breve tempo possibile, definendo i centri di accoglienza come:

strutture alloggiative che, anche gratuitamente, provvedono alle immediate esigenze alloggiative ed alimentari, nonché, ove possibile, all'offerta di occasioni di apprendimento della lingua italiana, di formazione professionale, di scambi culturali con la popolazione italiana, e all'assistenza socio-sanitaria degli stranieri impossibilitati a provvedervi autonomamente per il tempo strettamente necessario al raggiungimento dell'autonomia personale per le esigenze di vitto e alloggio nel territorio in cui vive lo straniero.

La norma precisa, inoltre, che è compito di ogni regione determinare i requisiti gestionali e strutturali dei centri e consentire convenzioni con enti privati e finanziamenti.

L’articolo 20 del medesimo testo legislativo presenta, infine, l’opportunità, per eventi eccezionali, di adottare misure straordinarie, ammettendo così non solo la possibilità di rilasci di permessi di soggiorno di protezione ma anche di predisporre centri di accoglienza temporanei:

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Con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, adottato d'intesa con i Ministri degli affari esteri, dell'interno, per la solidarietà sociale e con gli altri Ministri eventualmente interessati, sono stabilite, nei limiti delle risorse preordinate allo scopo nell'ambito del Fondo di cui all'articolo 45, le misure di protezione temporanea da adottarsi, anche in deroga a disposizioni del presente testo unico, per rilevanti esigenze umanitarie, in occasione di conflitti, disastri naturali o altri eventi di particolare gravità in Paesi non appartenenti all'Unione Europea.

Con tale decreto vennero istituiti anche i Centri di Permanenza Temporanea ed Assistenza, rinominati successivamente Centri di Identificazione ed Espulsione (CIE) con il pacchetto sicurezza del 2008 (decreto legge n° 92 del 2008). La permanenza nei CIE è prevista per un periodo massimo di 18 mesi (decreto legge n° 89 del 2011) per quei richiedenti asilo che siano già destinatari di un provvedimento di espulsione prima della presentazione della domanda. Trattandosi di una forma di limitazione della libertà personale, la legge richiede pertanto la convalida da parte del giudice di pace dell'atto che dispone il trattenimento della persona nel CIE.

Nel 2015, con un altro decreto legislativo, il legislatore italiano ha dato attuazione alla direttiva 2013/33/UE recante norme relative all'accoglienza dei richiedenti protezione internazionale e alla direttiva 2013/32/UE recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale, definendo nello specifico le norme relative alle misure di accoglienza da applicare dal momento della manifestazione della volontà di chiedere protezione internazionale da parte dei cittadini di Paesi non appartenenti all'Unione europea e degli apolidi. Tale decreto ha determinato la logica dell’accoglienza fino allo scorso anno, quando con l’introduzione del Decreto Salvini sono state apportate nuove modifiche.

Il Sistema di accoglienza previsto dal 2015 distingueva una fase di prima accoglienza, destinata a garantire ai richiedenti asilo primo soccorso, a procedere con la loro identificazione e ad avviare le procedure per la domanda di protezione internazionale. I Centri di prima accoglienza descritti dalla normativa erano, dunque, i luoghi deputati all’identificazione e alla verbalizzazione della domanda di asilo: l’articolo 9 del Decreto legislativo n° 142 del 2015, infatti, prevedeva che il richiedente potesse rimanere nei centri di prima accoglienza “per il tempo necessario all’espletamento delle operazioni di identificazione, ove non completate precedentemente, alla verbalizzazione della domanda e all’avvio della procedura di esame della medesima domanda nonché all’accertamento delle condizioni di salute diretto anche a verificare, fin dal momento dell'ingresso nelle

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strutture di accoglienza, la sussistenza di situazioni di vulnerabilità.”.

Espletate tale operazioni, si prevedeva il trasferimento nel sistema di accoglienza territoriale SPRAR, ovvero il Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati, previsto dall’articolo 14 del testo normativo per quei richiedenti che risultavano privi di mezzi di sostentamento sufficienti.

La normativa non indicava, dunque, un tempo necessario per le operazioni di identificazione né un tempo massimo di permanenza dei richiedenti all’interno dei centri di prima accoglienza; ammetteva, invece, che la permanenza all’interno di tali strutture potesse variare anche a seconda della consistenza dei flussi e della disponibilità̀ dei posti nella rete di accoglienza SPRAR.

Il sistema basato sui centri di prima accoglienza, che avrebbe dovuto superare la molteplicità di centri, è andato in realtà ad affiancare i precedenti luoghi deputati alle procedure di identificazione: tra questi, i Centri di Primo soccorso e Assistenza (CPSA), istituiti con decreto interministeriale del 16 febbraio 2006 con l’obiettivo di fornire una prima temporanea assistenza ai migranti intercettati e soccorsi in mare prima dell’invio degli stessi presso gli altri centri, e i Centri di Accoglienza per Richiedenti Asilo (CARA), istituiti nel 2002 con la denominazione di Centri di Identificazione (CDI) e successivamente disciplinati dal Decreto del presidente della Repubblica n° 303 del 2004 e dal Decreto Legislativo n° 25 del 2008 a cui si deve l’attuale denominazione, destinati ai richiedenti asilo per i quali fosse necessario procedere alla verifica della propria nazionalità ed identità o per i quali emergesse la presenza di un provvedimento di espulsione precedente alla presentazione della richiesta d’asilo.

Come accennato, la seconda fase di accoglienza, prevista dal Decreto legislativo n° 142 del 2015, era il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR), introdotto per la prima volta nell’ordinamento italiano con la Legge n° 189 del 2000, conosciuta come “Legge Bossi - Fini” che, modificando la legislazione già in vigore, andò in realtà a codificare un’esperienza già presente nel tessuto sociale da alcuni anni.

A partire da alcune esperienze di accoglienza decentrata e in rete, realizzate tra il 1999 e il 2000 da associazioni e organizzazioni non governative, nel 2001 infatti il Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del Ministero dell’Interno, l’Associazione nazionale dei comuni italiani (ANCI) e l’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (UNHCR) siglarono un protocollo d’intesa per la realizzazione di un “Programma nazionale asilo” che portò così alla nascita di un sistema pubblico per l’accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati,

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diffuso su tutto il territorio italiano, che vedeva il coinvolgimento e una condivisione di responsabilità tra le istituzioni centrali e gli enti locali.16

Il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, che si compone dunque di una rete strutturale di enti locali che accedono al Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo, veniva codificato dal decreto legislativo n° 142 del 2015 come sistema nazionale di seconda accoglienza, destinato a quei richiedenti che avevano formalizzato la domanda di protezione e che risultavano privi “dei mezzi sufficienti a garantire una qualità di vita adeguata per il sostentamento proprio e dei propri familiari”. La valutazione dei mezzi di sussistenza veniva effettuata dalla Prefettura - Ufficio territoriale del Governo tenendo come riferimento l'importo annuo dell'assegno sociale.

Per quanto concerne la durata delle misure di accoglienza, il testo normativo prevedeva che l’accoglienza presso le strutture SPRAR avrebbe potuto comprendere tutta la durata del procedimento di esame della domanda da parte della Commissione territoriale e, in caso di rigetto, la possibilità di accoglienza fino alla scadenza del termine per l'impugnazione della decisione; anche il ricorrente, privo di mezzi sufficienti, avrebbe potuto continuare ad usufruire delle misure di accoglienza.

Oltre ai centri di prima accoglienza e al sistema SPRAR, il Decreto Legislativo n˚ 142/2015 prevedeva, nel caso in cui fosse “temporaneamente esaurita disponibilità di posti all’interno delle strutture” di prima accoglienza e SPRAR “a causa di arrivi consistenti e ravvicinati di richiedenti”, la possibilità di allestire strutture temporanee individuate dalle prefetture. Tali strutture:

soddisfano le esigenze essenziali di accoglienza nel rispetto dei principi di cui all'articolo 10, comma 1, e sono individuate dalle prefetture-uffici territoriali del Governo, sentito l'ente locale nel cui territorio è situata la struttura, secondo le procedure di affidamento dei contratti pubblici. È consentito, nei casi di estrema urgenza, il ricorso alle procedure di affidamento diretto ai sensi del decreto-legge 30 ottobre 1995, n. 451, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 dicembre 1995, n. 563, e delle relative norme di attuazione.

Nei casi di estrema urgenza, dunque, viene prevista la possibilità di ricorrere alle procedure di affidamento diretto ai sensi della Legge Puglia.

Il testo normativo precisava che la permanenza dei richiedenti in tali strutture doveva essere subordinata al tempo necessario al trasferimento degli stessi nei centri di prima accoglienza o nelle strutture SPRAR; come si evince dalle tabelle 1.1 e 1.2 riportate alla pagina seguente,

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però, tali strutture sono diventate di fatto negli anni il sistema di accoglienza maggiore a fronte degli scarsi numeri offerti dal sistema SPRAR che, con il tempo, è invece stato deputato all’accoglienza dei titolari di protezione.

Come possiamo osservare dalla Tabella 1.1, infatti, che mostra i dati relativi alle richieste di asilo presentate in Italia dal 2013 al 2018, il numero di richieste di asilo presentate ha conosciuto negli ultimi anni un incremento costante fino al 2018, anno in cui si è assistito ad un dimezzamento delle domande di protezione, diminuzione proseguita poi anche nell’anno successivo. Comparando tale grafico con la tabella 1.2, che riporta invece il numero delle persone richiedenti asilo divise per tipologia di accoglienza emerge come, al crescere della presenza di persone richiedenti asilo, sia aumentata la quota di persone accolte nei Centri di Accoglienza Straordinaria, a scapito del sistema SPRAR.

26. 620 63. 456 83. 970 123. 600 130. 119 53. 596 2 0 1 3 2 0 1 4 2 0 1 5 2 0 1 6 2 0 1 7 2 0 1 8 Fonte: Dipartimento per le libertà civili e l’Immigrazione. Quaderno statistico dal 1990 al 2018.

Fonte: Def 2018 (dati al 3 aprile 2018) – Elaborazione in “Centri d'Italia, bandi gestori e costi dell'accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati” a cura di Openpolis e Actionaid

Tab 1.1 Richieste di asilo presentate in Italia dal 2013 al 2018

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Come anticipato, il più recente Decreto Salvini, oltre ad introdurre modifiche sul rilascio dei permessi di soggiorno, è intervenuto anche in materia di accoglienza, prevedendo, dall’entrata in vigore del decreto in poi, accesso ai progetti della rete SPRAR esclusivamente per i titolari di protezione internazionale (status di rifugiato o protezione sussidiaria), per i minori non accompagnati e per i titolari dei permessi di soggiorno introdotti con tale normativa. Il nuovo sistema ha così preso il nome di SIPROIMI, ovvero Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per minori stranieri non accompagnati.

Con il nuovo decreto è stata, quindi, esclusa la possibilità di accesso per i richiedenti asilo e per le persone titolari di permesso di soggiorno per motivi umanitari; per i richiedenti asilo è stata prevista l’accoglienza nei Centri di Accoglienza Straordinaria o nei centri governativi di prima accoglienza mentre per i titolari di protezione umanitaria non è stato più possibile accedere all’accoglienza istituzionalizzata.

Ad integrazione del quadro appena presentato, è opportuno infine citare altre due realtà previste all’interno del circuito dell’accoglienza per i richiedenti asilo: gli hotspot e gli hub regionali.

Il cosiddetto modello Hotspot, ovvero dei “punti di crisi”, nasce all’interno dell’Agenda Europea sulle Migrazioni ed è stata introdotta in Italia con la circolare Decisioni del Consiglio

Europeo n° 1523 del 14 settembre 2015 e n° 1601 del 22 settembre del 2015 per istituire misure temporanee nel settore della protezione internazionale a beneficio dell’Italia e della Grecia – Avvio della procedura di relocation, emanata il 6 ottobre 2015 dal Dipartimento per le libertà civili e

l’immigrazione del Ministero dell’Interno. Poiché le circolari non sono riconosciute nel sistema giuridico italiano come fonti di diritto pubblico, è possibile affermare che gli hotspot non hanno alcun fondamento giuridico reale nel sistema italiano; essi si inseriscono piuttosto all’interno di una tradizione di governo per circolari delle migrazioni che vede le sue origine sin dalla nascita dello stato italiano (Perocco, Gjergi).

Il sistema hotspot è in concreto costituito da strutture chiuse istituite nei pressi dei luoghi di sbarco; come si evince leggendo la circolare del Ministero dell’interno – Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del 06/10/2015, “il meccanismo – a regime - prevede che tutti i migranti sbarchino in uno dei siti hotspot individuati affinché possano essere garantiti nell’arco di 24/48 ore le operazioni di screening sanitario, pre-identificazione (con accertamento di eventuali vulnerabilità), registrazione e fotosegnalamento per accesso illegale”. In realtà:

È da evidenziare innanzitutto che sia nell’ Agenda europea sulla migrazione, sia nell’art. 17 della Legge 46/2017, manca una definizione di hotspot. L’Agenda descrive le

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modalità con le quali «l’approccio hotspot» debba essere attuato: il personale distaccato dalle Agenzie dell’UE-Frontex, l’Ufficio europeo di sostegno per l’asilo presente nei porti caratterizzati da un numero cospicuo di migranti in arrivo, ha il compito di offrire il proprio supporto operativo, procedendo allo screening sanitario, alla pre-identificazione, alla registrazione, al foto-segnalamento e ai rilievi dattiloscopici delle persone in ingresso. I caratteri del supporto operativo sono successivamente specificati nel regolamento UE 2016/1624 del 14 settembre 2016, che detta una serie di prescrizioni in tema di cooperazione tra gli Stati e la nuova “Agenzia Europea della Guardia di Frontiera e Costiera”, arrivando ad ipotizzare poteri sostitutivi, nel caso di mancata collaborazione degli stessi Stati, nella gestione dei “punti di crisi”. Si tratta di una novità di non poco rilievo: la politica comune in materia di visti ed asilo si delinea in una competenza concorrente tra Unione e Stati membri. Tuttavia, come è stato notato, con tale regolamento la gestione congiunta delle frontiere cede il passo ad un controllo particolarmente pregnante dell’operato degli Stati, al punto di prospettare, nel caso di forte pressione migratoria, la possibilità di un vero e proprio commissariamento di fatto. (D’Andrea, 2017)

Come osserva Gjergji:

la circolare istituisce gli hotspot, che vengono definiti in italiano in modo assai vago, “aree di sbarco attrezzate” […]. Nessun ulteriore chiarimento è fornito dalla circolare e nulla si dice circa lo status giuridico di queste “aree di sbarco attrezzate”, oltre che sullo status di coloro che devono essere sottoposti alle procedure di pre-identificazione, registrazione e fotosegnalamento previste all’interno di questi luoghi […].

Appare opportuno qui ricordare che le autorità italiane hanno legiferato in materia di asilo e protezione internazionale a seguito dell’Agenda Europea sulla migrazione e, dunque, hanno avuto il tempo e l’opportunità di riflettere e fornire una definizione negli hotspot (Gjiergji, 2016, 98 -100)

Con l’introduzione del decreto legge n° 13 del 2017, conosciuto come decreto Minniti e convertito con la legge n° 46 del 2017, il legislatore sembra individuare in realtà un fondamento normativo, fino ad allora mai dichiarato però, nella Legge Puglia del 1995:

Lo straniero rintracciato in occasione dell'attraversamento irregolare della frontiera interna o esterna ovvero giunto nel territorio nazionale a seguito di operazioni di salvataggio in mare è condotto per le esigenze di soccorso e di prima assistenza presso appositi punti di crisi allestiti nell'ambito delle strutture di cui al decreto-legge 30

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ottobre 1995, n˚ 451, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 dicembre 1995, n˚ 563, e delle strutture di cui all'articolo 9 del decreto legislativo 18 agosto 2015, n˚ 142.

Per concludere, con l’accordo stato-regioni nel 2014, è stata prevista anche l’istituzione di hub regionali, ovvero centri temporanei di accoglienza istituiti in ogni regione dedicati ad accogliere i richiedenti asilo destinati ad essere successivamente smistati sul territorio della regione.

1.4.1 Il lavoro sociale nei progetti SIPROIMI

Come si è avuto modo di osservare nelle righe precedenti, il Sistema di Protezione Per Richiedenti Asilo e Rifugiati è stato codificato con il Decreto Legislativo n° 142 del 2015 e recentemente modificato con l’introduzione del Decreto Legge n° 113 del 2018, che ne ha ristretto i requisiti di accesso. Se, almeno sulla carta, il sistema SPRAR avrebbe dovuto essere il sistema di accoglienza rivolto sia a richiedenti asilo sia a persone a cui era stata riconosciuta la protezione internazionale o umanitaria, il nuovo sistema SIPROIMI può accogliere oggi solo adulti a cui sia già stato riconosciuto lo status di rifugiato o la protezione sussidiaria o minori stranieri non accompagnati.

La gestione dei progetti SPRAR è stata regolamentata negli anni dal Decreto Ministeriale del 10/08/2016 che, oltre a definire i requisiti di accesso e di permanenza, ne disciplina le modalità di adesione e condivide le linee guida da seguire per la realizzazione dei progetti, esplicitate poi nel Manuale operativo per l’attivazione e la gestione di servizi di accoglienza integrata in favore di richiedenti e titolari di protezione internazionale e umanitaria, guida predisposta dal Servizio Centrale SPRAR nel 2015.

Secondo quanto previsto, la domanda per l’apertura e la gestione dei progetti SPRAR/SIPROIMI può essere presentata al Ministero degli Interni esclusivamente dagli enti locali che intendono avviare l’accoglienza sul proprio territorio. L’ente locale competente può però, a sua volta, avvalersi di uno o più enti attuatori per la realizzazione dei servizi del progetto, soggetti individuabili tra gli enti di terzo settore con esperienza nella presa in carico di percorsi migratori. L’ente locale può presentare la domanda sull’apposita piattaforma online del Ministero dell’Interno, presentando informazioni sull’ente proponente del progetto e sugli enti attuatori e la descrizione e i dettagli sul progetto che intende realizzare. La domanda può essere presentata in qualunque momento dell’anno e, successivamente alla valutazione positiva della Commissione competente, il progetto può avviarsi con durata triennale. È opportuno precisare che ciascun ente locale può presentare domanda

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specificando, in relazione alla categoria di beneficiari ai quali vuole rivolgersi, se intende realizzare progetti rivolti a singoli e a nuclei famigliari, progetti di accoglienza per disagio mentale e sanità e progetti per l’accoglienza di minori stranieri non accompagnati. Nel caso in cui l’ente decida di presentare più domande, è necessario che ciascuno di questi si caratterizzi per un diverso gruppo di utenza. È previsto che ciascun ente locale può comunque presentare domanda per un massimo di tre progetti SIPROIMI.

Al momento della presentazione della domanda, l’ente titolare del progetto deve inoltre indicare il costo totale annuo del finanziamento e gli eventuali relativi cofinanziamenti previsti; è rilevante osservare come il costo giornaliero per ciascuna persona accolta nel circuito SIPROIMI non è predeterminato bensì dipende dal singolo progetto, che può calcolare tale somma dividendo il costo totale annuale del progetto per il numero di posti che intende offrire e per i 365 giorni che compongono l’anno.

I posti attivabili per ciascun progetto non possono esseri inferiori a dieci e il numero dei potenziali ospiti va sempre verificato in relazione alla quota di posti assegnata dal piano di ripartizione nazionale (quote comunicate alle Prefetture dal Ministero degli Interni) e al numero di eventuali persone già in accoglienza presenti sul territorio. Non è invece previsto un limito massimo generale per l’ospitalità ma il singolo alloggio non può mai ospitare più di sessanta persone. Secondo gli ultimi dati disponibili che fanno riferimento ai primi mesi dell’anno 2018, i posti disponibili all’interno della rete SPRAR erano 35.869, minori compresi. Tale accoglienza risultava suddivisa in 876 progetti presenti su tutto il territorio italiano; le prime cinque regioni con il maggior numero di progetti SPRAR attivi a giugno 2018 erano, in particolare, la Calabria (125 progetti), la Sicilia (114), la Puglia (112), la Campania (90) e la Lombardia. In termini di posti attivi, invece, la Sicilia rappresentava la regione con il numero più elevato (4839) seguita da Lazio (4467), Calabria (3.717), Puglia (3459) ed Emilia Romagna (3038).

Oltre ad esplicitare le modalità di gestione dei progetti, il Manuale operativo SPRAR realizzato dal Sistema Centrale esplicita anche gli obiettivi di un’accoglienza di questo tipo. Come si può leggere:

Lo SPRAR ha come obiettivo principale la (ri)conquista dell’autonomia individuale dei richiedenti/titolari di protezione internazionale e umanitaria accolti, intesa come una loro effettiva emancipazione dal bisogno di ricevere assistenza (in questi termini si parla di “accoglienza emancipante”).

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Diventa, pertanto, essenziale collocare al centro del Sistema di Protezione le persone accolte, le quali non devono essere meri beneficiari passivi di interventi predisposti in loro favore, ma protagonisti attivi del proprio percorso di accoglienza e di inclusione sociale. [...]

Quella proposta dallo SPRAR è un’accoglienza “integrata”. Questo comporta che gli interventi materiali di base, quale la predisposizione di vitto e alloggio, siano contestuali a servizi volti a favorire l’acquisizione di strumenti per l’autonomia.
Nel prevedere tutti questi servizi è necessario che il percorso di accoglienza e di inclusione sociale della singola persona possa tenere conto della sua complessità (in termini di diritti e di doveri, di aspettative, di caratteristiche personali, di storia, di contesto culturale e politico di provenienza, ecc.) e dei suoi bisogni. Ci si riferisce pertanto a un approccio olistico volto a favorire la presa in carico della singola persona nella sua interezza e nelle sue tante sfaccettature, a partire dall’identificazione e valorizzazione delle sue risorse individuali. (ivi, 6-7)

Affinché sia possibile realizzare quei percorsi di accoglienza integrata personalizzata, nella documentazione relativa allo SPRAR, si legge come i progetti debbano richiedere la presenza di un’équipe multidisciplinare e interdisciplinare, composta da figure professionali con conoscenze e competenze diverse e certificate. L’équipe, che può essere composta sia da personale dell’ente proponente sia degli enti locali, si deve dunque connotare di professionisti diversi tra loro, il cui numero può variare in relazione alle caratteristiche e dimensioni del singolo progetto, alla tipologia delle strutture di accoglienza e alla loro dislocazione. Il Manuale, in particolare, recita che, ad esclusione dei consulenti e del personale amministrativo e ausiliario, all’interno dell’équipe deve essere presente in media un operatore ogni quattro / cinque persone accolte, un rapporto che può aumentare con l’aumentare del numero di ospiti ma che non può mai essere inferiore ad un operatore ogni otto accolti. Compito dell’équipe è quello di rispondere sia alle esigenze dei singoli beneficiari e del gruppo accolto tenendo in considerazione i diversi aspetti dei progetti sia di “interagire con il contesto locale, inteso come rete dei servizi e come comunità cittadina”. Il radicamento e il dialogo con il territorio è, infatti, un altro elemento individuato come necessario, oltre alla presenza di un’équipe professionale, per poter realizzare gli obiettivi definiti.

Relativamente alle figure presenti, si prevede che il gruppo di lavoro di un singolo progetto si componga di:

- Un coordinatore dell’équipe (figura non necessariamente coincidente con il responsabile del progetto di accoglienza per l’ente locale);

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- operatori di riferimento per gli interventi riconducibili alla sfera dell’accoglienza materiale;

- operatori preposti a seguire i servizi di mediazione linguistica e interculturale (soprattutto se erogati da enti terzi o a chiamata) e le misure orientamento e accesso ai servizi del territorio;

- operatori dedicati agli interventi di orientamento e accompagnamento all’inserimento (sociale, abitativo, lavorativo, includendovi anche i servizi di formazione e riqualificazione professionale);

- operatori dedicati al servizio di orientamento e accompagnamento legale;

- operatori incaricati di seguire la presa in carico di carattere sanitario e pertanto i servizi di tutela psico-socio-sanitaria;

- operatori direttamente responsabili della gestione e dell’aggiornamento della Banca Dati dello SPRAR.

A questi ruoli, garanti della corretta erogazione dei differenti servizi dello SPRAR, possono esserne in aggiunta previsti altri, con compiti e mansioni complementari, da coinvolgere di volta in volta, secondo necessità:

- il responsabile amministrativo;

- personale ausiliario (portieri, custodi, addetti alla cucina e alle pulizie, ecc.)

All’interno di ogni équipe deve comunque essere garantita la presenza di un assistente sociale, di un educatore professionale, di uno psicologo e di personale con competenze in materia normativa e giuridica.

L’ultimo rapporto annuale dei progetti redatto dal Servizio Centrale, denominato Atlante SPRAR, pubblicato nel 2018 con riferimento alle esperienze dell’anno precedente, offre una fotografia del sistema. Innanzitutto, il rapporto mostrava come tra le figure maggiormente rappresentate all’interno dei progetti in essere ci fossero gli operatori dediti all’accoglienza (17,3%), gli addetti all’amministrazione (13%), i mediatori linguistico-culturali (11,4%), gli operatori dell’integrazione (6,7%), i coordinatori di équipe (6,3%), gli operatori legali (5,9%), gli assistenti sociali (5,4%) e gli educatori (5%). Complessivamente, sempre nel 2017, risultavano impiegate 11.734 figure professionali, di cui il 60,1% risultava lavorare part-time, il 12,2% risultava lavorare a tempo pieno, e il 25,1% come collaboratore esterno.

Dalla lettura di questi dati, emerge come il 58,8% delle figure professionali impiegate fosse costituito da operatrici di genere femminile e come alcuni ruoli fossero fortemente caratterizzati da una componente di genere: se la categoria dei mediatori culturali risultava sovra rappresentata tra gli operatori maschi (55,1% per tale specifico ruolo rispetto al 40% di operatori impiegati di sesso maschile in generale) e la maggior parte dei consulenti e degli

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