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Lipsky e il suo studio sugli street-level bureaucrats

2. Agency e lavoro sociale: una cornice teorica

2.2 Azione e discrezionalità nel lavoro sociale

2.2.1 Lipsky e il suo studio sugli street-level bureaucrats

Come già accennato, la teoria di Lipsky rappresenta uno dei contributi più importanti sullo studio dell’implementazione delle politiche pubbliche e sul ruolo giocato dai professionisti. Sicuramente, l’interesse per la burocrazia all’interno delle scienze sociali è iniziato molto prima di Lipsky: il primo ad occuparsi dell’implementazione delle politiche pubbliche fu, infatti, Max Weber, interessato soprattutto a comprendere le motivazioni dell'agire sociale e a capire il funzionamento degli individui nei diversi contesti storici.

Weber utilizzò il termine “burocrazia” per descrivere una particolare modalità di gestione delle pubbliche amministrazioni che individuava nella legge il criterio esclusivo di legittimazione delle decisioni organizzative:

Nel modello ideale di burocrazia, sia la struttura sia il funzionamento di un’organizzazione sono determinati da specifiche norme di legge, rispetto alle quali i comportamenti dell’organizzazione devono rigorosamente attenersi. In questo senso, la legge legittima e stabilizza l’azione organizzativa, in quanto ne anticipa e prefigura forme e contenuti, garantendole così uniformità e preservandola dall’influenza “distorsiva” di interessi personali e di altri fattori di disturbo. (Rossi, 2014, 52)

È a partire dalla fine degli anni ’70 del Novecento che gli studi sul ruolo della burocrazia e, in particolare, sul processo di attuazione della normativa e delle politiche conoscono un incremento.

Tra questi studi, una posizione centrale è quella occupata appunto dalla teorizzazione sulla “street-level bureaucracy” di Michael Lipsky (1980), studioso statunitense che fornì una lettura dell’implementazione delle politiche pubbliche dando attenzione alle realtà organizzative pubbliche e a chi all’interno vi lavorava.

Egli partì dal constatare che, sebbene i lavoratori dei servizi pubblici siano solitamente considerati impiegati di basso livello, è in realtà attraverso le loro azioni che di fatto vengono erogate le prestazioni dallo stato. Questi professionisti, interagendo con gli utenti dei servizi nel corso del loro lavoro, infatti, di fatto svolgono un ruolo centrale nel modellare e ridefinire le politiche e la struttura organizzativa a cui appartengono.

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Lipsky conia l’espressione di street-level bureaucrats, ovvero “burocrati di strada” per definire questi lavoratori: si tratta di figure professionali quali lavoratori sociali, poliziotti ed operatori impegnati in vari servizi pubblici, quali la scuola, la polizia, le corti di giustizia e gli ospedali, ovvero tutto quel personale che nel suo ruolo è chiamato non ad erogare un bene o servizio uniforme quanto piuttosto ad interagire con gli utenti dei servizi o ad instaurare una relazione con gli stessi.

L’espressione “burocrazia di strada” è per lui volontariamente paradossale: se il termine “burocrazia” sta ad indicare l’insieme di regole e di strutture istituzionali, il concetto di “street-level” viene utilizzato dall’autore per sottolineare la distanza tra i lavoratori ed il centro dove l’autorità presumibilmente risiede. Secondo Lipsky, infatti, una delle caratteristiche del lavoro degli street-level bureaucracy è la discrezionalità di cui gli stessi godono all’interno delle amministrazioni pubbliche e che è ineliminabile per varie ragioni. Innanzitutto, la discrezionalità è infatti lo strumento che consente agli operatori della pubblica amministrazione di affrontare la complessità delle situazioni con lui lavorano, difficoltà che derivano sia dalla presenza di norme legislative spesso troppo astratte e dal carattere poco operativo sia da contesti basati su una continua scarsità di risorse economiche. In secondo luogo, l’esercizio della discrezionalità è necessario a fronte dell’importante aspetto umano che caratterizza tali contesti di lavoro, una dimensione che si sviluppa proprio nella relazione tra operatore ed utente: a titolo esemplificativo, Lipsky osserva come, nell’ambito dell’educazione scolastica, tutti desiderano un insegnante che non si limiti solo a partecipare alle proprie lezioni ma che possa anche sviluppare relazioni con i singoli alunni, sviluppando quella sensibilità e flessibilità che permette di concentrarsi sul potenziale di ogni singolo studente.

Infine, l’autore riconosce come la discrezionalità costituisca per gli stessi operatori dei servizi uno strumento fondamentale per la propria considerazione di sé, in un contesto che si trova a dover bilanciare tra rigidi dettati normativi e le peculiarità dei singoli casi che richiedono, al contrario, una certa flessibilità.

È interessante osservare che Lipsky, sebbene sottolinei che gli operatori dei servizi sono persone che scelgono di dedicarsi a questo lavoro mosse dalla volontà di essere d’aiuto agli altri, osserva poi in realtà come gli operatori possono fare uso della propria discrezionalità nei modi più diversi, anche andando contro agli interessi degli stessi utenti:

Quando va bene, i burocrati di strada si inventano delle modalità procedurali benevole, che li mettono bene o male nelle condizioni di rapportarsi con il pubblico in modo equo, appropriato ed efficace. Quando va male, invece, cedono ai trattamenti di favore, si

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lasciano sviare dagli stereotipi, o si limitano ad assecondare la routine: tutti comportamenti funzionali a interessi privati o di singoli individui (Lipsky, 1980, XII)

È interessante comparare queste considerazioni di Lipsky con quanto osservato oggi proprio in merito al lavoro con l’utenza straniera:

Non sempre gli assistenti sociali usano il potere di cui dispongono per tutelare i diritti degli utenti. Diversi ragioni possono contribuire a questo risultato: pressioni politiche e pubbliche che considerano l’utenza immigrata come “meno meritevole”; una scarsa riflessività sulle conseguenze delle scelte operate; il ricorso a reti informali che non permettono per loro caratteristiche una garanzia di eguaglianza di trattamento (Barberis, 2010; Ferrari, 2010); scarsità di risorse, competenze, tempo a disposizione. (Barberis, Boccagni, 29)

Di fatto, dunque, esercitando la loro discrezionalità, molti operatori della pubblica amministrazione si trovano di fatto a svolgere un ruolo determinate per le politiche pubbliche, non solo perché è attraverso il loro atteggiamento e le loro azioni che viene veicolata agli utenti l’immagine della loro organizzazione o dello stato, ma anche perché di fatto l’esito delle politiche pubbliche si concretizza con il loro agire:

Le decisioni dei burocrati di strada, le routines che essi stabiliscono e gli strumenti che inventano per far fronte alle incertezze e alle pressioni del lavoro effettivamente diventano le politiche pubbliche che attuano. (Lipsky, 2010, XIII).

Lipsky sostiene, dunque, che nell’interazione con i propri utenti gli operatori svolgono di fatto un ruolo di policy maker: sebbene non abbiano preso parte al processo di definizione delle politiche pubbliche, le loro scelte relativamente all’allocazione delle risorse e dei servizi di fatto ne influenzano la realizzazione.

Possiamo affermare che il servizio sociale ha guardato con interesse, sebbene ad intermittenza, alla teoria di Lipsky. A questo proposito, più recentemente, alcuni autori hanno iniziato a ritenere che, nell’ambito dei servizi alle persone, si sia entrati in una nuova fase caratterizzata da una minore autonomia decisionale dei singoli operatori, cambiamento legato ai nuovi processi di managerialismo che i servizi stanno conoscendo. Secondo questi autori, cioè, la discrezionalità è oggi di fatto limitata a fronte di un maggior potere nelle mani di dirigenti e manager. Se non si può negare attualmente la presenza nei servizi di figure

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dirigenziali o con competenze manageriali, tuttavia non è possibile affermare che il controllo da essi esercitato sia così totale ma è possibile piuttosto affermare che “dai manager agli operatori professionali esiste un continuum di discrezionalità caratterizzato da un grado diverso di potere” (Evans e Harry, 2004). Gli stessi autori osservano, inoltre, come la presenza di una maggiore regolazione non implichi necessariamente un minore spazio di azione:

È dunque dalla facoltà di giudizio degli operatori che dipende, in buona misura, la traduzione delle politiche in provvedimenti operativi. […] Occorre riconoscere che la discrezionalità è presente, nel servizio sociale, anche negli ambiti di intervento oggetto di una regolazione rigorosa, in termini di politiche e di linee guida. Per certi aspetti, inoltre, lo stesso disegno delle politiche può sortire l’ironico risultato di creare ancora più discrezionalità, vista l’esistenza di una molteplicità di regole e procedure confuse e imprecise, se non contraddittorie. (Evans e Harry, 2004, 64 - 69).

Infine, è opportuno precisare che Lipsky nel suo lavoro non distingue tra figure professionali riconosciute e regolamentate dalla normativa ed operatori pubblici privi di status professionali, presupponendo invece la discrezionalità come un elemento chiave di entrambi, indipendente dalla presenza o meno di una consapevolezza professionale a tal proposito. Se la standardizzazione delle competenze e la creazione di ordini professionali sono stati alcuni strumenti con i quali si è cercato di garantire nel tempo una maggiore uniformità e coerenza agli interventi nel servizio sociale e in altri campi della pubblica amministrazione, è innegabile però oggi ammettere la presenza, all’interno del sistema di accoglienza istituzionalizzata, anche di personale privo di competenze professionali codificate, un elemento che non può essere trascurato ma che si aggiunge alla complessità del dibattito intrapreso.