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CAPITOLO 2. LEGGENDE NAPOLETANE

2.2 L’amore durante la dominazione angioina e aragonese

Seguendo un ordine cronologico, dopo lo studio dei miti delle origini, in Leggende

napoletane Serao offre uno sguardo sulle vicende d’amore del periodo della dominazione

angioina e di quella aragonese su Napoli. In questa sezione si analizzeranno quattro testi:

Donna Albina, Donna Romita, Donna Regina e Lu munaciello (leggenda borghese) per

l’egemonia francese sulla città, Il palazzo Donn’Anna e Il diavolo di Mergellina per il periodo di controllo spagnolo sul regno napoletano. In questi racconti si può notare la scomparsa dell’elemento mitologico antico, ben presente invece nelle prime due leggende, e la presenza significativa della componente popolare e folkloristica. Donna

Albina, Donna Romita, Donna Regina inizia con un riferimento topografico specifico a

quella zona della città dove doveva sorgere il palazzo delle tre sorelle:

La leggenda di Donna Albina, Donna Romita, Donna Regina corre ancora per la lurida via di Mezzocannone, per le primitive rampe del Salvatore, per quella pacifica parte di Napoli vecchia che costeggia la Sapienza. Corre la leggenda per quelle vie, cade nel rigagnolo, si rialza, si eleva sino al cielo, discende, si attarda nelle umide ed oscure navate delle chiese, mormora nei tristi giardini dei conventi, si disperde, si ritrova, si rinnovella – ed è sempre giovane e sempre fresca. (p. 95)

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Lo squallore dell’ambiente ricorda proprio il bozzetto-prefazione che l’autrice aveva posto all’inizio del testo per la seconda edizione della raccolta. Nel medesimo luogo ricordava l’inizio della composizione, avendo scorto in quel luogo di sporcizia e di oscurità la leggiadra figura di Donna Albina. La presente narrazione fu la prima ad essere scritta dall’autrice diciassettenne, i dati sono ancora una volta forniti dal medesimo testo. La voce narrante esegue poi, come di consueto, un diretto appello al suo pubblico di lettori:

Se volete per un poco dimenticare le nostre folli passioni, i nostri odii taciturni, i nostri volti pallidi, le nostre anime sconvolte; io vi parlerò di altre passioni diversamente folli, di altri odii, di altri pallori, di altre anime. (p. 95)

Con queste parole, Serao introduce al lettore la leggenda delle tre aristocratiche sorelle che danno il titolo al racconto. Delle ragazze sono innanzitutto specificate le origini nobili: avevano infatti per padre «barone Toraldo, nobile del sedile di Nilo» e per madre «donna Gaetana Scauro, di nobilissimo parentado» (p. 95). La loro elevata appartenenza sociale è un elemento importante nella storia, ne determina lo sviluppo per quanto riguarda la vicenda matrimoniale. La madre delle giovani muore presto, lasciando così un grande dispiacere al padre, di non poter avere un erede maschio. Ottiene però dal re Roberto d’Angiò un particolare favore, con il quale la maggiore delle sue figlie avrebbe potuto trasmettere il nome della famiglia al momento delle nozze. Alla morte del padre, le tre sorelle restano sole: è soltanto in questo momento che la voce narrante ce ne offre una descrizione. I ritratti delle fanciulle sono ben distinti e caratterizzati da alcune peculiarità, evidenziate sin nel loro nome. Della maggiore viene fornita la presentazione più completa:

La maggiore, dal superbo nome, era anche una superba bellezza: bruni e lunghi i capelli nella reticella di fil d’argento, stretta e chiusa la fronte, gravemente pensosi i grandi occhi neri, severo il profilo, smorto il volto, roseo vivo il labbro, ma parco di sorrisi, parchissimo di detti; tutta la persona scultoria, altera, quasi rigida nell’incesso, composta nel riposo. (p. 96)

Donna Regina si contraddistingue per la grande bellezza fisica, ma allo stesso tempo per l’esagerata rigidità e severità che ispira il suo portamento. Alla nota sull’aspetto esteriore della donna si aggiunge un’informazione anche sulla sua interiorità:

Era in quell’anima un’austerità precoce, un sentimento assoluto del dovere, un’alta idea del suo compito, una venerazione cieca del nome, delle tradizioni, dei diritti, dei privilegi. (p. 96)

Donna Regina ripete il destino di Silvia di Dal vero nella sua totale rinuncia alla vitalità e alla freschezza della gioventù, per obbedire interamente alla morigeratezza del costume e soprattutto al peso del suo rango aristocratico. I suoi sogni e le sue aspirazioni giovanili vengono infatti duramente represse in lei dalla sua indole severa. Quando le giungono nel cuore «vaghi desideri d’amore», li respinge fieramente, rifugiandosi nella preghiera o nella lettura dell’antico libro di famiglia. Al contrario la sorella Donna Albina

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è poi caratterizzata dal candore e luminosità della sua persona, i tratti severi e rigidi di Donna Regina in lei si ammorbidiscono e diventano graziosi:

Donna Albina, la seconda sorella, veniva chiamata così dalla bianchezza eccezionale del volto. Era una fanciulla amabile, sorridente nel biondo-cinereo della chioma, nel fulgore dello sguardo intensamente azzurro, nei morbidi lineamenti, nella svelta e gentile persona. (p. 97)

La secondogenita ricopre poi la cura delle attività prettamente femminili. Sorveglia la tessitura degli arazzi e i ricami, al sabato dirige la distribuzione dell’elemosina ai poveri, badando che nessuno fosse trascurato o trattato con sufficienza. La natura vitale e operosa di Donna Albina però soffre nell’ambiente del freddo palazzo in cui vive, tra le gelide pareti di quelle stanze doveva contenere e soffocare lo slancio vitale che è proprio della sua giovinezza. Donna Regina aveva abdicato infatti a tutti i piaceri della verde età in funzione del severo ruolo di maggiore e di colei che avrebbe trasmesso il nome nobile della famiglia. Donna Albina invece non ha compiuto questa rinuncia e si trova a disagio con il freddo temperamento della sorella.

Nella sua affettuosa e gaia natura, si doleva del silenzio di quella casa, dell’austera gravità che vi regnava, dei corridoi gelati, delle sale marmoree che niun raggio di sole valeva a riscaldare; si doleva del freddo cuore di Regina che niun affetto faceva sussultare – e se ne doleva per Donna Romita. (p. 98)

È lo spazio così descritto a farsi portavoce della difficoltà per le due sorelle minori di convivere con una donna che aveva scelto di separarsi totalmente dalla dimensione dell’emozione e dell’affetto. Nei corridoi gelati, nelle sale di marmo in cui non penetra nessun calore umano e naturale si scorgono il distacco e l’impassibilità di Donna Regina. L’ultima delle sorelle è così descritta:

Donna Romita era una singolare giovinetta mezzo bambina. Così il suo aspetto: i capelli biondo cupo, corti ed arricciati, il viso bruno di quel bruno caldo e vivo che pare ancora il riflesso del sole, gli occhi di un bel verde smeraldo, glauco e cangiante come quello del mare, le labbra fine e rosse, la personcina esile e povera di forma, bruschi i moti, irrequieta sempre. (p. 98)

La sorella più giovane sembra unire in sé i tratti caratterizzanti delle maggiori: talvolta ha infatti un atteggiamento indifferente e superbo, in altri momenti è presa da slanci di affetto verso tutti. È presentata con un atteggiamento infantile: nei temporali invernali si rifugia su un seggiolone «come un uccello pauroso e ammalato», nelle calde ore estive vaga per i grandi viali, pensando alla madre (p. 99). La prematura scomparsa della mamma accomuna le sorelle ad altre giovani figure seraiane: Silvia e Gemma di Dal

vero, Bianca Maria Cavalcanti di Il paese di cuccagna sono solo alcuni esempi. In

particolare le tre sorelle sembrano reagire molto diversamente al vuoto che inevitabilmente aveva caratterizzato la loro giovinezza: Donna Regina pare essersi chiusa in un atteggiamento rigido e di indifferenza, nel quale nulla lascia trasparire di ciò che provava. Donna Albina, al contrario, sembra aver superato il lutto, elaborando uno stile di vita di grande dinamismo. Donna Romita, la più giovane è quella che pare subire le conseguenze più grandi della scomparsa materna. Nel suo carattere contradditorio si

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legge infatti uno stato d’animo non pacifico, a causa del quale cerca molto spesso la riflessione in solitudine.

Le tre sorelle conducono una vita perfettamente pianificata in ogni istante, tutte le occupazioni sono state ben organizzate. Il ritmo della loro esistenza si profila però monotono e ripetitivo, proprio come i gesti della provincia di Silvia in Dal vero.

Pure le tre sorelle menavano placida vita. Erano regolate le ore dell’abbigliamento, della preghiera, del lavoro, dell’asciolvere e della cella; erano stabilite equamente le occupazioni di ogni settimana, di ogni mese. (p. 99)

Soprattutto la voce narrante pone l’attenzione sul comportamento di Donna Regina; essa precede sempre le sorelle minori. Inoltre la sua figura si connota con gli oggetti che simboleggiano la sua totale devozione al culto del nome e del suo rango nobiliare: il seggiolone con la corona baronale, le chiavi dei forzieri dove erano rinchiuse le insegne del suo grado e i gioielli della famiglia. Persino a mensa non vi è parità tra le sorelle: le minori mangiavano su un sedile più umile. La vicenda delle tre donne pare simile in molti aspetti a quella di altre tre sorelle di un romanzo successivo: le tre dame Pintor di Canne al vento di Grazia Deledda, escludendo Lia, fuggita in giovane età dalla famiglia. Molti sono i punti in comune del loro vissuto e medesimo è l’intento che le due autrici raggiungono attraverso la messa in scena di queste figure letterarie. Il primo elemento che occorre porre all’attenzione è che entrambe le autrici danno voce a una femminilità repressa dalle dure leggi, imposte da un ambiente sociale patriarcale, in cui la donna deve sacrificare i suoi desideri e le sue aspettative in vista dell’importanza del rango e del prestigio aristocratici. La severità e l’alterigia di Donna Romita sono esattamente quelli della più giovane delle Pintor, Noemi. La venerazione delle antiche tradizioni familiari è presente in entrambe e per ambedue si realizza un’esistenza vuota, chiusa e tanto grigia quanto monotona e ripetitiva. Un altro elemento che ritorna in tutti e due i testi è la prematura scomparsa della madre, come se questo fosse un dato che dà una certa influenza e complicazione ai personaggi femminili. Del resto questa caratteristica è presente anche con altri esempi della produzione di Serao: fanciulle che vivono un rapporto problematico con la matrigna o che soffrono per la perdita della madre si trovano in Dal vero, in O Giovannino o la morte e in Il romanzo della fanciulla. La particolare sensibilità a questo tema deriva forse anche dal vissuto autobiografico dell’autrice: essa ebbe breve tempo per godere dell’affetto della madre, che sparì prematuramente, di cui però l’autrice serbava un vivido ricordo.

Molte certamente restano poi le differenze tra i testi delle due autrici, essendo quello deleddiano un vero e proprio romanzo e non un racconto breve come quello di Serao. Tuttavia si può scorgere la forte vicinanza tra le due opere nel clima privo di aperture e di oppressione in cui vivono le due triadi di sorelle seraiane e deleddiane.

L’esistenza di Donna Regina, Donna Albina e Donna Romita avrebbe potuto procedere così linearmente fino alla fine, se non fosse subentrato nel loro orizzonte un

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evento che crea dinamismo all’interno dell’intreccio. Roberto d’Angiò infatti scrive alla maggiore che ha trovato per lei un degno marito, don Filippo Capece, cavaliere della corte napoletana. Nella successiva sequenza narrativa, Donna Regina è ritratta mentre è intenta alla lettura e tuttavia appare molto distratta. Donna Albina chiede di poter parlare con lei, poiché è preoccupata della salute di Donna Romita. La maggiore subito capisce che si tratti di qualche malattia fisiologica, ma al contrario dalle parole della secondogenita emerge una situazione diversa:

Donna Romita soffre, sorella mia. Nella notte è angosciosa la veglia ed agitati i suoi sonni; nel giorno fugge la nostra compagnia, piange in qualche angolo oscuro, passa ore ed ore nell’oratorio inginocchiata, col capo sulle mani. Donna Romita si strugge segretamente. (p. 101)

La necessaria oppressione dei sentimenti vitali della giovinezza è manifestata dalla più giovane delle sorelle, costretta a nascondere la propria emozione, ricercando la solitudine e il silenzio. Anzi nell’atteggiamento di Donna Romita si scorge già avvertita l’esigenza di espiazione che si nota soprattutto nella parte finale della novella. Il dialogo tra le due sorelle maggiori procede e Donna Albina confessa di credere che Donna Romita fosse presa dal sentimento d’amore. È interessante la reazione di Donna Regina: innanzitutto paragona l’amore alla malattia, concetto che già si trovava in Fulvia in Dal

vero. Ma ancora più sorprendente è che la maggiore si atteggi verso le sorelle esattamente

come un padre; Donna Regina ha così intensamente interiorizzato “la legge del padre” da diventarne la copia esatta. Risponde a Donna Albina:

− D’amore diceste? – gridò Regina, balzando sul seggiolone. − D’amore.

− E che? Debbo io udire da voi queste parole? Chi vi parlò prima d’amore? Chi vi ha insegnato la triste scienza? Di chi io debbo più crucciarmi, di Donna Romita che me lo cela, o di voi, Donna Albina, che lo indovinate e me lo narrate? Come furon turbati il cuore dell’una, la mente dell’altra? Sono stata io così poco provvida, così incapace da lasciare indifesa la vostra giovinezza. (p. 102)

Donna Regina non solo ritiene che le due sorelle più giovani dovessero essere estranee alla dimensione dell’amore, ma formula quasi un rimprovero a sé stessa, per non aver saputo proteggerle da questa minaccia pericolosa. Tutto ciò che dice riproduce la preoccupazione e il compito paterno di conservare integra la virtù delle proprie figlie e di tenerle il più lontano possibile dalla dimensione dell’eros. Donna Regina chiede in seguito l’identità del cavaliere, che inizialmente Donna Albina cerca di celare. Ad una nuova richiesta insistente rivela che Donna Romita si era innamorata del fidanzato della maggiore, don Filippo Capece. Disse la secondogenita:

− Lo ama, lo ama sorella. Chi non l’amerebbe? Non è egli valoroso, galante con le dame, seducente nell’aspetto? Quando egli mormora una parola d’amore, il cuore della fanciulla deve struggersi in una dolcissima felicità; quando il suo labbro sfiora la fronte della fanciulla, può ella invidiare la gioia degli angeli? Esser sua! Sogno benedetto, aura invocata, luce abbagliante! Pietà per nostra sorella! Essa lo ama – e cadde ginocchioni, balbettando ancora vaghe parole di preghiera. (p. 103)

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Donna Albina prega Donna Regina di perdonare la sorella, ma offrendo le possibili ragioni dell’innamoramento della sorella, rivela anche la sua passione verso lo stesso uomo. Donna Regina se ne accorge da come la secondogenita descrive il cavaliere, il quale viene raffigurato solo in questo momento e non ha nessun ruolo attivo nella vicenda. Dopo la doppia confessione di Donna Albina, anche Donna Regina ammette di essere veramente innamorata dello stesso cavaliere. Ancora una volta è lo spazio a descrivere il clima di desolazione sceso sul palazzo:

Le ombre della notte involgevano la casa Toraldo: una notte senza speranza di alba. (p. 103)

La sequenza successiva del testo si apre con un’importante descrizione dell’ambiente in cui Donna Romita si è rifugiata per pregare in solitudine. Il luogo rispecchia in modo efficace la tristezza della fanciulla e il suo desiderio di espiazione e di riparo nella sala deserta:

Profondo è il silenzio nell’oratorio. La lampada di argento, sospesa davanti ad una Madonna bruna, brucia il suo olio profumato, diradando il buio con una luce piccola e incerta. Brilla una sola scintilla nella veste di argento della Vergine. Se si tende bene l’orecchio, si ode un respiro lieve, lieve. Non sul velluto rosso del cuscino, non sulla balaustra di legno lavorato dell’inginocchiatoio, ma sul marmo gelido del pavimento è mezzo distesa una forma umana; l’abito bianco e lungo in cui è avvolta, ha qualcosa di funebre. (p. 104)

Nella sala è descritto il ricco arredo e abbigliamento della ragazza: la lampada d’argento, l’olio profumato, la veste d’argento, il velluto rosso del cuscino, il marmo, la balaustra lignea decorata. Ogni dettaglio spaziale è però accompagnato dall’idea della morte: la luce è infatti fioca nel buio complessivo dell’ambiente, la donna stava non sul ricco velluto o sul prezioso inginocchiatoio, ma sul marmo gelido. Più precisamente la figura giace distesa a terra, come se già si trattasse di una salma da inumare. L’atto di prostrazione della fanciulla evidenzia il suo dolore, per essersi innamorata del fidanzato della sorella, ma anche la sua profonda rassegnazione e rinuncia alla vita. Nella scena sono ben equilibrati i dati sensoriali: nell’oratorio si vede poco, ma si scorge il prezioso mobilio. Si sente però anche il profumo di un olio profumato e si ode il respiro lento, piangente della ragazza. Donna Romita si affida alla Madonna, perché le sia tolto dal cuore la potente passione e successivamente giunge a chiederle anche la morte. La silenziosa preghiera della fanciulla ricorda molto il simile atteggiamento di Bianca Maria Cavalcanti nel suo primo ingresso in Il paese di Cuccagna. Il testo sembra presentarsi come un antecedente a quella descrizione, anche se è ben più articolato della novella:

Prostrata sul bruno e vecchio inginocchiatoio di legno scolpito, coi gomiti appoggiati sul cuscino di velluto, con la testa lievemente chinata e il volto nascosto tra le mani, donna Bianca Maria Cavalcanti parea meditasse, dopo aver pregato. […] Così stava da tempo, tanto immobile che quella figura vestita di bianco, nell’ombra della piccola cappella, sembrava una di quelle statue oranti […]. Ella parea non sentisse l’ora che passava sul suo capo; non parea sentisse il fine soffio di freddo e guardando far le dita la faccia dolorosa della Madonna, parea che continuasse a meditare. (pp. 94-95)

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Molti sono gli elementi in comune: la figura vestita di bianco, l’atteggiamento di profonda preghiera e di raccoglimento di sé, persino l’interno austero della cappella si presenta uguale nel romanzo. Dietro alla figura di Donna Romita si trovava anche Donna Albina che ripete e amplifica il dolore le preghiere della sorella.

Ad un tratto un singhiozzo interrompe il silenzio. Chi piange presso di lei? È forse l’eco del suo dolore? È forse la sua ombra, quest’altra fanciulla vestita di bianco che piange e prega in un angolo? Sì, è l’eco del suo dolore, e la sua ombra che si desola; è Albina. (p. 95)

È uguale la veste bianca di purezza che indossano le due sorelle che nella preghiera si rimettono alla Madonna, per espiare la colpa del loro peccato. È significativo che solo in questo punto testuale una delle tre sorelle perda l’appellativo nobiliare «Donna», di solito sempre posto prima al loro nome proprio. La narratrice decide in questo momento della narrazione di non specificare la condizione aristocratica di Albina nel momento del suo atto di estrema umiltà, proprio perché le ragioni del suo rango sociale contrastavano con il suo sentimento d’amore verso don Filippo Capece. L’abbandono delle due sorelle nell’oratorio ricorda un’altra immagine molto simile e successiva in Per monaca in Il romanzo della fanciulla. Nella novella è indagata la delusione della giovane Eva, che dopo aver scoperto il tradimento del proprio fidanzato con la propria matrigna, decide di consacrarsi, facendosi monaca. Una prima somiglianza sta nel vestito bianco di candore con cui la donna è vestita durante la prima parte del rito:

Alle undici in punto la novizia entrò in chiesa, l’attraversò in tutta la sua lunghezza per recarsi sull’altar maggiore. Ella era vestita di un bellissimo abito di broccato bianco; sui riccioli castani un velo bianco amplissimo, che l’avvolgeva tutta; grossi orecchini di brillanti scintillavano alle orecchie delicate, un ricco fermaglio al collo, una fibbia alla cintura; le mani guantate di bianco […]. Ella era tutta candida, da capo a piedi, candido il bel volto giovanile. (p. 85)

Nella citazione è sottolineato il colore bianco e luminoso della ragazza, che ne