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CAPITOLO 3. PICCOLE ANIME

3.1 La tipologia della fame

Si è scelto di analizzare come prima la categoria che è stata definita da Antonia Arslan come «tipologia della fame»132, che ha per protagoniste figure esili e scarnificate, l’esatto contrario della rotondità affascinante e salubre.

Nell’Ottocento, più la donna è magra più desta compassione, schifo, repulsione, perché appunto si avvicina alla tipologia dell’affamata, della sventurata, della “fuori casta” senza che nessuno si occupi di lei e del suo benessere133.

La donna eccessivamente magra è colei che non accetta il proprio femminile ed è per questo destinata a morire, all’esatto opposto si pone l’immagine della donna robusta e in carne. Essa evoca un’idea di fascino, di salute e di opulenza.

Il grasso è positivo, indizio di nutrimento costante; è un ventre pieno e caldo di cibo, è salute, sicurezza, bellezza. L’autrice condivide questa visione, e in tutte le sue opere la magrezza è ossessivamente connotata come simbolo e segnale di infelicità per le bambine inconsapevoli, e di passione, lussuria, peccato per la donna adulta134.

Si possono osservare questi elementi in tre novelle della raccolta, le quali hanno tutte per protagonista un personaggio femminile scarnificato, ridotto alla fame per una condizione di povertà e di emarginazione: Una fioraia, Canituccia e Alla scuola

La situazione di maggior emarginazione e miseria si trova in Una fioraia. Un dato significativo consiste innanzitutto nella scelta autoriale di non offrire immediatamente il ritratto della protagonista, ma la prima descrizione porta al lettore è l’incedere lento e titubante della bambina. Essa cammina, strofinandosi alle squallide pareti del quartiere che rappresenta per lei una casa. La denominazione topografica è molto precisa, Serao ritrae la zona popolare dell’Eccehomo, di cui dà anche una

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Antonia ARSLAN, Corpi di bambine, corpi di donne nell’Italia dopo l’Unità: Neera e Matilde Serao, cit., p. 38

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Ivi, p. 44

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descrizione nella quale si anticipa il clima di sofferenza e di tragedia che contraddistingue la novella.

La bimba camminava lentamente, rasentando il muro, per la via stretta e tortuosa dei Mercanti. Ella non guardava nelle botteghe, non alzava gli occhi a quella lunga striscia di cielo fra le alte case, non guardava neppure dinnanzi a sé. Guardava le pietre come se le contasse. (p. 15)

Già da questa breve e iniziale citazione si percepisce la non-azione della protagonista, essa infatti procede nello spazio, ma si tratta di un movimento inconsapevole. Solo nelle righe dell’incipit si accumulano tre negazioni dello stesso verbo: «non guardava», a cui segue una frase affermativa secondo la grammatica, ma che in realtà replica e amplifica il senso di timore del periodo precedente, perché la ragazzina mantiene lo sguardo fisso verso il basso. Dal suo ritratto si possono scorgere tutti i segnali di emarginazione e miseria che caratterizzano la bambina. Occorre riportare la sequenza per intero, per poter riflettere sull’immagine che Serao costruisce.

Era una mendica. Aveva fame, aveva freddo, aveva sete. Aveva le gambe nude, i piedini scalzi che si deformavano nella mota. In quel gelido giorno di febbraio, ella non portava che una camicia e un sottanino lacero e sfrangiato, mantenuto su, alla cinta, da uno spago. Aggrovigliato al collo, un brandello di ciarpa all’uncinetto. Niente altro. La bimba era molto magra, quasi stecchita: dagli strappi della camicia e del sottanino si vedeva una carnagione esangue, cinerea; sotto la ciarpa si vedevano le due ossa clavicolari sporgenti, come se volessero bucare la pelle; s’indovinava la meschinità malaticcia di quel busto legnoso di bambina. Le spalle erano aguzze, curve, come quelle di chi si raggranchia sempre per freddo o per chetare lo spasimo dello stomaco. Un volto serio e grave, con la medesima tinta plumbea del corpo; rugata la fronte breve; corrugate le sottili sopracciglia, troppo grandi gli occhi dalla palpebra bigia, sottolineati di bistro, incavernati, profondi; duro, rigido il profilo, già formato come quello di una donna; la bocca stretta, chiusa, le labbra pallide, senza fremiti, con due rughe agli angoli. Ella aveva sette anni. (pp. 15-16)

Da questa descrizione dal «ritmo ternario, oscillante, ipnotico»135 emergono molti spunti di riflessione interessanti sul profilo della bambina. Innanzitutto l’inizio della presentazione si delinea ancora all’insegna della privazione. Gli unici dati di cui la ragazzina è in possesso sono la fame, il freddo e la sete. In seguito, viene mostrato il povero e lacero abbigliamento della piccola, che si riduce in tutto ad una vecchia camicia, una gonnella, ad uno spago come cintura e neppure a una sciarpa intera, ma a un brandello di essa. Risulta evidente fin da subito l’anti-femminilità del profilo. Se anche le bambine dovevano sottostare alle regole di moda e di cura della persona delle dame adulte, la bimba è contrassegnata da una grande sporcizia e dalla trascuratezza, che le tolgono la grazia e il fascino, che pur dovrebbero essere attributi della fanciulla. Inoltre salta all’occhio dalla sua figura la magrezza eccessiva: le clavicole sporgenti sembrano bucarle la pelle e anche il portamento delle spalle è tutto ricurvo, per contenere gli spasimi di freddo e di fame. Altri tratti che delineano la bruttezza della ragazzina, e la rendono al contrario vicino a un’immagine funerea, sono i grandi occhi, incavati e dal contorno grigio e le labbra di un pallore cadaverico. L’abilità compositiva di Serao

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emerge con maggior chiarezza nell’inciso finale della descrizione: «la bambina aveva sette anni». Tutti i dati che sono stati presentati della figura rimandano infatti a un’età anagrafica molto più tarda, il contrasto con la vera fanciullezza della figura è molto netto. La narratrice riporta anche il rapporto della bambina con la sua famiglia. Il legame innanzitutto della bimba si restringe solo a quello della madre che, morta precocemente, la ha lasciata del tutto sola. Altamente significativa è la modalità con cui sono riportati questi elementi. Si narra la vicenda infatti dal punto di vista della bambina che scandisce il tempo in modo piuttosto elementare tra un “prima”, in cui tutte le fatiche venivano condivise con la mamma e un “dopo”, in cui il senso di solitudine e di emarginazione si acuiscono nella giovane.

Un giorno aveva avuto una madre scarna, mendica anche lei. Vagavano ambedue per le vie di Porto, cercando l’elemosina. Mangiavano spesso del pane e dormivano in un sottoscala, sulla paglia, la figlia col capo in grembo alla madre. Poi la madre era morta, di tifo: la bambina era rimasta sola, sul lastrico. (p. 16)

La figura della madre risulta essere l’esatta riproduzione della bambina, solo collocata già nell’età adulta. Dopo la scomparsa del genitore, le condizioni già povere della protagonista peggiorano nella miseria più nera. Ancora più agghiacciante è la descrizione della reazione della bambina alla morte di tifo della madre. Essa infatti non piange, non grida, semplicemente si limita a non mangiare e a dormire all’aria aperta. Queste notazioni riflettono un’esistenza ridotta alla soddisfazione dei puri istinti animali, in cui anche la dimensione affettiva del legame tra madre-figlia è assente, tanto più forte e allarmante il bisogno di nutrirsi e di riposarsi in un posto caldo.

La dimensione spaziale è cruciale per la figura della bimba, il luogo dei quartieri popolari descrive infatti la sua dimensione esistenziale, non solo perché traccia il tragitto che essa compie meccanicamente ogni giorno, ma proprio perché ne circoscrive i confini, entro i quali la bambina era in grado di muoversi. Attraverso le notazioni spaziali emergono anche tratti significativi della psicologia dell’infante: essa evita i luoghi caldi, dove si offrono deliziose leccornie, perché è perfettamente consapevole della sua inferiorità sociale e economica. Si percepisce la sua profonda umiliazione e indigenza, nel momento in cui passando di fronte a una taverna, non osa neppure alzare lo sguardo o quando, capitando di fronte al «famoso biscottaio», scappa per non odorare il profumo dei dolci appena sfornati (p. 17). I quartieri alti le danno un senso di timore e preferisce non oltrepassare il limite spaziale, entro il quale la sua misera condizione le impone di rimanere. L’area più ricca di Chiaia non è neppure definita con il suo nome, ma è genericamente indicata con un «lassù» corsivo, seguendo proprio la percezione spaziale della bambina.

Lassù, il pericolo era ignoto. Quando arrivava a quei limiti, dava uno sguardo

sospettoso in su, poi fuggiva, nascondendosi il capo ricciuto nel braccio, come se la perseguitassero. (p. 17)

Della bambina viene descritta l’intera giornata abituale, tutta impegnata nella ricerca di qualche soldo per comprasi qualcosa da mangiare. Nelle sue lunghe

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peregrinazioni ripetitive viene descritta anche l’umanità con cui essa entrava in contatto. Si tratta però per lo più di personaggi che raramente si dimostrano cordiali e pietosi con lei. Prevale anzi il disgusto e la diffidenza verso l’emarginata. Dalla dimensione giornaliera lo sguardo della voce narrante si volge a descrivere lo scorrere della settimana della bambina. Un giorno in particolare le piace, il sabato. Allora infatti una donna le fa una piccola offerta, con cui può soddisfare la fame. La figura anonima viene descritta con pochi tratti sufficienti a dare la connotazione del personaggio, si tratta quasi di un piccolo cammeo:

Al sabato una femmina giovane, col fazzoletto di seta rosso al collo, la gonna corta e legata allo stomaco, la pianella col tacco alto e il fiocco verde, la pettinessa d’argento nell’alto cocuzzolo dei capelli impomatati, le guance cariche di carminio, le dava un soldo. (pp. 18-19)

L’immagine offerta è quella di una giovane prostituta, lo si capisce da alcuni segni riconoscibili nell’abbigliamento: il foulard rosso al collo, il tacco alto e il trucco pesante. Anche in questo caso si dipinge un’umanità degradata e diventa evidente la violenza che la società compie, costringendo alcune donne di condizione sfortunata a prostituirsi, per poter sopravvivere. Serao concede però alla ragazza il diritto di parola, si tratta di una battuta soltanto, melanconica e tragica allo stesso tempo. La donna infatti canticchia dalla mattina alla sera sempre lo stesso ritornello:

Spina de pesce,

Sta vita desperata quanno fenesce? (p. 19)

Il triste destino della fanciulla è riportato dalla voce narrante con una certa esitazione, come se si trattasse di una notizia data dalla gente, per cui chiaramente non c’è differenza tra l’alternativa formulata nella frase: «l’avevano buttata o s’era buttata nel pozzo» (p. 19). Della donna viene però segnalata la generosità con cui condivide costantemente con la bambina quel poco che ha, a differenza di altri passanti ben vestiti, che le rifiutano invece l’elemosina. Emerge da questa figura il contrasto tra essere e apparire che contraddistingue molti altri personaggi della raccolta. Nonostante l’aspetto e il mestiere riprovevole, la donna è l’unica a dimostrare verso la bimba un atteggiamento di carità e di comprensione quasi materna. Quest’osservazione deve essere collegata alla funzione di denuncia sociale della novella, in cui Serao non solo descrive le condizioni della miseria più nera dell’orfana, ma segnala anche il falso perbenismo di alcuni personaggi borghesi.

La narrazione riprende poi in una domenica pomeriggio, in cui la protagonista è animata da una grande fame e da un profondo sentimento di solitudine. Lo spazio inizia a deformarsi e a sfuocarsi quasi dai suoi naturali contorni proprio a causa della debolezza del personaggio. La bimba entra allora in una chiesa, ma subito ne percepisce il gelo e l’oscurità. L’unica soluzione che vede possibile, per soddisfare il suo istinto, è quello di recarsi nei ricchi quartieri, che aveva sempre cercato di evitare. Il suo ingresso nell’ambiente luminoso e pulito di quella zona cittadina le procura un forte stupore:

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Fu stupefatta: vedeva quello che non aveva mai visto, la strada larga, i magazzini puliti, i palazzi bianchi, i giardini, il cielo. Dimenticava la sua fame davanti a così mirabile spettacolo: non vi pensò più dinnanzi a un negozio di giocattoli. Lassù tutto era bello: […] fermandosi ogni momento, eccitata, curiosa, scordandosi di chiedere l’elemosina. (p. 19)

Si descrive il percorso della bambina che da Piazza Municipio procede verso San Carlo, per finire a San Ferdinando. Nella sua peregrinazione la percezione dello spazio comincia a farsi ipnotica, come a causa del prolungato senso di fame e di stanchezza, rafforzato dall’inebriante profumo dei fiori che si diffonde per la piazza in cui la ragazzina si trova.

Non vedeva niente, annullata fra la gente; aveva caldo, stava bene. Ogni tanto vedeva passare nell’aria un mazzetto di fiori, poi un altro, poi una pioggia di fiori: ogni tanto la folla si gettava da parte, […] visioni rapide, fuggevoli, fulgide, che quasi sgomentavano la bambina.

Una signora venditrice di fiori, molto vicina al quadro della precedente prostituta, le regala un mazzetto di garofani con un atteggiamento di solidarietà e di benevolenza. La protagonista prova allora a vendere il bene appena ricevuto. La generosità è tuttavia contrastata dalla squallida superficialità di uno studente, che rispondendo alla bambina, allude al fatto che non abbia ancora l’età, per offrirsi agli uomini. Anche un uomo grasso e ben vestito prende a lamentarsi dell’accattonaggio e dell’inerzia del servizio di polizia. Parole tuttavia che la povera orfana non è neppure in grado di capire.

Neppure lassù erano buoni con lei. Ella era lacera, scalza, brutta: i suoi grandi occhi spalancati mettevano paura, la sua testolina arruffata e selvaggia faceva paura. (p. 20)

Di nuovo le torna il forte senso di fame, la bambina riesce a vendere un fiore e con un soldo decide di comprarsi un panino. La protagonista vorrebbe ritornare nei quartieri popolari, ma le numerose carrozze che attraversano la strada la spaventano. Ritorna la dimensione allucinata con cui la ragazzina percepisce lo spazio.

Voleva andar via. Ricominciava ad avere paura. Quelle carrozze la stordivano, lei che voleva passare dall’altra parte. Prese la rincorsa, abbassando il capo… Nella carrozza una signora gittò un grido e svenne. (p. 21)

La bimba, nel percorrere il pezzo di strada verso i quartieri popolari, viene travolta da una vettura che le ferisce la gamba. La protagonista va così incontro a una fine tragica. Dalla critica il finale della novella è stato giudicato negativamente. Si è messo in evidenza il contrasto tra l’alto risultato raggiunto dall’autrice attraverso la descrizione iniziale e realistica della bambina e la conclusione melodrammatica della sua morte. La scelta finale è stata sottovalutata da Marie Gracieuse Martin Gistucci, la quale riporta una sorta di fastidio tra l’autenticità del ritratto iniziale e la conclusione patetica136

. Per Tommaso Scappaticci «l’esuberanza affettiva a volte degenera in patetico intenerimento»137, anche Wanda De Nunzio Schilardi afferma: «Serao ha voluto caricare

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Marie Gracieuse MARTIN GISTUCCI, L'oeuvre romanesque de Matilde Serao, cit., p. 196

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il racconto di una nota di eccessivo patetismo»138. La conclusione così duramente criticata dovrebbe essere rivalutata, considerando infatti il piano altamente lirico che la Serao raggiunge in questo punto della narrazione. La fine della bambina ha infatti i connotati della morte innocente e proprio per questo è ancora più sublime:

Ma sulla via, presso il marciapiede, agonizzava una innocente creatura, con la gambina sfracellata. Agonizzava, giacente tra i garofani che le si erano sparsi d’attorno, stringendone uno sul petto, tenendo il panino sull’altra mano, con la faccia bianca e seria, la bocca socchiusa, coi grandi occhi meravigliati e dolorosi che guardavano il cielo. (p. 21)

È ripetuto due volte il verbo «agonizzava», come se si trattasse di una litania funebre. I fiori che le avevano regalato si spargono sul suo corpo esanime. La bimba per di più muore digiuna, tenendo in una mano il panino intatto.

Un altro rimando al piano lirico della tragedia è l’incipit della novella in cui si riporta la nota frase virgiliana, ripresa poi anche da Dante:

Date lilia

Il passo citato dell’Eneide si trovava nel libro VI, quando Anchise lo pronuncia per la morte del nobile nipote di Augusto, Marcello, morto prematuramente. L’espressione è rimpiegata da Dante nel XXX canto del Purgatorio al momento della scomparsa di Virgilio. La scelta autoriale di porre questo verso all’inizio della novella onora la memoria della bambina, portandola alla stessa dignità di un nipote dell’imperatore romano e del poeta latino. Inoltre la fanciulla che inizialmente era stata descritta con tratti di ripugnanza fisica, trova nella morte una sorta di bellezza ultima, come se l’innocenza della sua anima si riflettesse sul suo esile corpo, consumato dal gelo e dalla fame.

E se spesso poi, quando muoiono, queste sparute bambine diventano belle, sembra quasi un compianto funebre nella tradizione classica, sembra che la fine della loro disperata battaglia con la vita sia interpretata come un passaggio di anime innocenti (le “piccole anime“ del titolo) a quel sognato mondo superiore, caldo di benvenuto, dove lo spasimo della fame scompare e le accolgono paffuti bambini-angeli, che di mangiare proprio non hanno bisogno139.

L’operazione ricorda per certi versi quella compiuta da Tarchetti in Paolina

(Misteri del Coperto dei Figini), che nella dedicatoria porta queste parole:

Alla santa memoria/ di Celestina Dolci operaia/ prostituitasi per fame/ e morta/ in una soffitta di via di S. Cristina/ l’11 gennaio 1863140

In entrambi gli autori la letteratura è vissuta come un impegno di denuncia sociale, mostrando la miseria e la povertà che spesso affliggevano le bambine e le ragazze di bassa estrazione sociale. Occorre a questo proposito specificare che la protagonista della novella ha un forte valore simbolico, è emblema di una condizione sociale e

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Wanda DE NUNZIO SCHILARDI, Le «Piccole anime» della Serao, cit., p. 56

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Antonia ARSLAN, Corpi di bambine, corpi di donne nell’Italia dopo l’Unità: Neera e Matilde Serao, cit., pp. 47-48

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esistenziale più che individuale. È stato anche segnalato da Federica Millefiorini che in questo senso deve essere interpretata anche la scelta autoriale di lasciare nell’anonimato la bambina: nel titolo viene definita come una fioraia, ma tale non era il suo mestiere, in quanto era una mendica141. Anche l’uso dell’articolo indeterminato segnala non una figura ben delineata, ma una sagoma generica, che si fa portavoce della condizione di tutte le altre bambine che hanno sofferto come lei.

In Canituccia, la protagonista è la bambina che dà il titolo alla novella, che è stata definita come «una gemella di Una fioraia»142, poiché condividono l’età, il forte senso di fame, l’abbandono e il maltrattamento del contesto sociale in cui sono collocate. La stessa vicinanza tra le due figure è segnalata da Marie Gracieuse Martin Gistucci che parla di «symétries, d’échos et d’enchaînements» tra le due novelle143

. Rispetto al precedente racconto però si abbandona lo scenario cittadino, per descrivere l’ambiente contadino di Ventaroli, piccolo paese dove Serao aveva trascorso la sua infanzia. Inoltre nella narrazione Canituccia non è il solo personaggio femminile che è costruito con scavo psicologico, ma anche Pasqualina, la donna che decide di prendere in casa l’orfanella, mostra un profilo interessante di zitella, soprattutto nel rapporto con la bambina. La novella si apre non casualmente proprio con la descrizione della donna, in attesa nella cucina della casa, dove, davanti al focolare, attendeva la bambina. È significativa la scelta di questo spazio domestico che rappresenta il calore e l’accoglienza familiare che dovrebbe ispirare l’ambiente della casa. Tuttavia il ricevimento che avrebbe avuto la bambina sarebbe stato di natura molto diversa, dal momento che la donna non solo non bada alla stanchezza e alla fame della fanciulla, ma la picchia con violenza.

Nella penombra, seduta sulla panca di legno, sotto la cappa nera e ampia del focolare, Pasqualina, con le mani sotto il grembiule, recitava il rosario. Non si udiva che il

pissi pissi delle labbra sibilanti le preghiere. La cucina tutta affumicata, con la larga tavola di