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I.5.1 Passaggi

Il Carrozzone mette in scena i Presagi del vampiro. Studi per ambiente a Firenze nel dicembre del 1976. Da quel momento bisogna attendere un anno prima che il gruppo realizzi una nuova produzione. Intanto, dal notiziario di informazioni teatrali dell’Istituto del Dramma Italiano, La scena IDI, sappiamo che la compagnia partecipò ad una rassegna itinerante dal titolo Teatro da voi 77 alla quale presero parte, quell’anno, trentuno gruppi di sperimentazione che portarono i loro spettacoli in tournée tra Lazio, Campania, Marche, Umbria ed Emilia grazie ad un finanziamento dell’ETI e ad un contributo aggiuntivo da parte del Ministero del Turismo e dello Spettacolo113.

In un articolo di Giuseppe Bartolucci, apparso nel 1974, dedicato ai primi spettacoli de Il Carrozzone dove il critico evidenziava alcuni particolari del loro stile (ad esempio definiva, non senza un pizzico di ironia, quella che all’inizio per molti era scarsa luminosità misticheggiante come un – magico ‒ «frugare illuminato»), a proposito degli attori si legge:

[…] gli attori sono non tanto oggetti-bambole varianti quanto manifestazioni concrete delle variazioni in corso; né esse hanno sensibilità in quanto coperte da maschera e ricche di abiti al punto da sembrare ed essere bambole umane, ed in oltre non hanno nemmeno parola se non quella implicitamente della luce che le fa nascere e morire, discutere e star zitte al tempo stesso, immaginariamente.

Lo spettatore sente la sincerità di questo scorrere della luce sui corpi-animi e sui membri- materiali, […]114

Può essere utile recuperare questa nota su una presenza ‘sincera’ dei corpi mascherati e travestiti per metterla in relazione con quello che rileva Franco Quadri, in un’altra accurata analisi dedicata questa volta a Ombra diurna. Possibilità di un’assenza.

113 Il 1977 è anche l’anno del primo Convegno Nazionale dei Teatri di Base che venne organizzato a Casciana Terme (PI) nel mese di marzo. Secondo Renzo Tian questi nuovi gruppi si differenziavano sia dalle compagnie tradizionali sia dai gruppi di sperimentazione essendo molto più legati alle realtà sociali del territorio che ai teatri istituzionali. Cfr. Notizie dall’Italia, in «La scena IDI», anno V, n.4, aprile 1977, pp. 1-4. Per il dibattito intorno ai Teatri di Base in Italia cfr. gli articoli e i resoconti apparsi sulla rivista «Scena» dal 1976 al 1978; Mirella Schino, Primi piani su gente accesa, in Il crocevia del Ponte d’era. Storie e voci da una generazione teatrale 1974-1995, Bulzoni, Roma 1996, pp. 65-90 e, per le considerazioni della critica intorno al mutamento dell’organismo teatrale sul finire degli anni Settanta: Spettacolo e informazione: lo spazio della critica. Convegno indetto dall’Associazione Nazionale dei critici di teatro, Milano 6-7 giugno 1980, La Casa Usher, Firenze 1983.

114 G. Bartolucci, La fiaba-immagine del “Carrozzone” di Firenze, in «Proposta», n. 12-13, marzo-giugno 1974, p. 27.

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Per questo intervento allestito in occasione dell’iniziativa Roma: città di teatro, svoltasi tra il 20 ed il 30 dicembre 1977, alla quale vennero invitati diversi pittori, performers e gruppi teatrali, Il Carrozzone scelse lo spazio «trovato e inventato» di un pastificio in disuso per allestire una performance molto prossima al linguaggio di liberazione dello spazio pittorico operato da artisti come Günter Brus o Herman Nitsch115. Possiamo affidarci ancora una volta alle parole di Garrone per avere un’idea delle linee di tensione messe in evidenza dalle azioni degli attori:

Prima si svolge una gara terribile di resistenza fisica contro un muro fino a farlo crollare; poi l’arrivo, l’irruzione violenta e inaspettata di un “carnefice” (Federico Tiezzi a torso nudo con il cranio completamente rasato) che compie sul corpo di Marion un vero e proprio “pestaggio”. Due blocchi di ghiaccio al centro della stanza il giorno successivo testimonieranno la volontà di un “raffreddamento”. Una frase banale in francese (“c’est une petite conversation”) viene ripetuta da un attore su una sedia di cuoio nero mentre un videotape inquadra un particolare della sua mano altrettanto insignificante.116

Tenendo in considerazione le parole di Federico Tiezzi117 citate da Quadri come esergo al suo contributo sullo stretto rapporto che legava, da un lato, i dati del reale e del naturale e, dall’altro, le nozioni di finzione e di rappresentazione nel teatro a lui contemporaneo, possiamo trovare nelle sue parole un tentativo di lettura non solo della performance in sé, ma anche dell’atteggiamento con cui Il Carrozzone affrontava ormai da anni la messa in scena, sradicando lo spazio teatrale attraverso l’occupazione privata di suolo pubblico e trasportando da un interno a un esterno e viceversa la propria cultura – individuale e di gruppo –, il proprio passato e, quindi, il presente condiviso da attori e spettatori. Scriveva infatti Franco Quadri:

Alga e Marion passano dallo scontro all’incanalamento parallelo delle loro energie, di corsa entrambe contro una vecchia parete in mattoni interna all’ambiente, la parete cade al primo colpo, addosso, calcinacci e sangue, Marion rimane a terra, la sua situazione di vittima richiama Federico – a torso nudo, capo completamente rapato, largo cerotto sulla fronte – Federico su Marion, urla, di nuovo sangue. Tra parentesi, nessuno è “in costume” (tranne Marion?), non comunque Federico, trasformato a quel modo “dalla vita”, così preparato da un’esperienza extrateatrale. Quanto agisce nell’assunzione istintiva di un ruolo quella maschera forzata e dolorosa? […] quanto pesa l’ambiente, quel doppio

115 Cfr. Luciano Inga-Pin, Il corpo viennese, in «Data», n.12, estate 1974, pp. 60-63. 116 Nico Garrone, Il romantico si tinge di nero, in «La Repubblica», 29 dicembre 1977.

117 «La body art aveva un fine dimostrativo in fondo, il corpo come quasi ultima spiaggia, ora invece il corpo in se stesso mi sembra che dovrebbe essere veramente la tua ultima spiaggia, non dimostrativamente, ma confondere totalmente il vissuto con quello che vivrai, l’arte con quello che non vivi, o con quello che vivi sino in fondo. Avrai delle lesioni tali per cui il tuo corpo, dopo quest’azione, sarà inservibile o almeno in altra maniera servibile rispetto a prima. Non è un corpo che si trasforma, un corpo che cambia, sarà un corpo in cui tu hai provocato una lesione permanente. Noi parliamo continuamente di malattia, ma una malattia in senso organico è una lesione in fondo funzionale. Deve essere permanente perché la voglio cannibalizzare sino in fondo, la voglio voracizzare sino in fondo, io sono ingordo di malattia, voglio arrivare al mio fondo, proprio non ne posso più di rimanere a metà.» (Federico Tiezzi, citato in F. Quadri, Naturale, nuovo naturale, iperrealista, reale…, «Il Patalogo», n.1, 1979, pp. 295-296).

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stanzone vuoto […]? Quanto la curiosità esigente degli spettatori? L’esplosione non vista e non simulata, ora li fa dibattere tra paura, angoscia dell’identità, desiderio d’intervenire, morbosità da voyeur. È questo atteggiamento alla fine a vincerla, a spingerli sadicamente a rimanere, anche quando le parole della ragazza-vittima […] li avranno consapevolizzati della loro posizione. Il timore di non avere più possibilità di difesa davanti all’azione gli fa riedificare la barriera tra gli attori-non attori e loro spettatori-spettatori. Gli impone di rivestire dei caratteri della rappresentazione il vissuto lì stesso davanti, che non cambia peraltro di natura. Ma Federico allora accetta l’instaurarsi di una simile relazione e la riafferma (e la nega), estromettendo gli uditori, mandandoli via di forza, escludendoli come a spettacolo finito.118

Tutto sembra parlare, anche qui, lo stesso linguaggio di quella estrema e patologica tendenza all’analisi messa in campo negli Studi. Anche qui regna la legge della contrapposizione di binomi opposti (verticale-orizzontale; equilibrio-disequilibrio…), eppure dalle parole dei testimoni sembra emergere un filo rosso che congiunge posti separati, o quanto meno li connette tramite una domanda che anche a noi, a distanza di tempo e di spazio, sembra essenziale: cosa è successo?

Bartolucci, nell’introdurre il suo articolo su tutti gli interventi artistici che si avvicendarono durante la rassegna, si riferisce ai singoli partecipanti scrivendo:

«Come si può oggi aggredire un città, Roma in particolare, così disgregata, così inafferrabile, se non contando su una disseminazione inavvertita, se non puntando su una deflagrazione senza senso? Di qui le “Iniziative di ii”, per la capitale, tra il venti ed il trenta di dicembre 1977, lungo un tracciato di ragnatele, di distrazioni, di ombre, aventi per anello di congiunzione, una serie di ii candidi e scatenati, caparbi e dolci»119.

Gli artisti e gli attori vengono quindi intesi come «ii» divisi ma uniti nel compito di fare da anello di congiunzione, sopra (o sotto) strutturale, per connettere i luoghi dove avrebbero avuto luogo le performance contenute da una ideale rete di connessioni, il cui compito sarebbe stato quello di escludere non tanto la città, quanto il sentimento del paesaggio cittadino, con il suo clima, i suoi colori e umori, le sue atmosfere, dall’immaginario operante e creativo degli artisti o degli attori. In realtà però, mano a mano che racconta le azioni/rappresentazioni alle quali ha assistito, Bartolucci prende atto che, più forte dell’esclusione e della separazione che dovrebbe meglio sottolineare l’esistenza di un tessuto connettivo altro, sotteso alla maglia urbana, è l’infiltrarsi – da lui descritto come crudele – del sogno o, più propriamente, dell’immaginario, creato tramite

118 Franco Quadri, Il gesto spontaneo come riappropriazione della rappresentazione, in Id., pp. 313-314. 119 Giuseppe Bartolucci, Roma: città di teatro, in «Data», n. 30, gennaio-febbraio 1978, p. 32. Cfr. Mimma Valentino, “La nascita del teatro” e le”Iniziative di ii”, in Il Nuovo Teatro in Italia 1976-1985, Titivillus, Corazzano 2015, pp. 44-54.

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la presenza degli artisti e la reazione a catena che coinvolge sia gli spettatori, sia i protagonisti nell’atto di occupare privatamente lo spazio pubblico120.

I.5.2 Paesaggi

Potremmo pensare che Rapporto Confidenziale, la storica performance che Il Carrozzone creò appositamente in occasione della II Settimana Internazionale della Performance di Bologna nel 1978, sia direttamente connessa, a livello concettuale, con Ombra diurna, sia perché in entrambe le occasioni era richiesto di elaborare delle azioni che promanassero dall’ambiente e dalla situazione, sia perché entrambe non costituivano del tutto fatti teatrali ma, forse solo per l’accostamento ravvicinato ad altre operazioni artistiche non di solo teatro, acquistavano di riflesso un’ambiguità di lettura e d’interpretazione.

Probabilmente questa idea non sarebbe in fin dei conti erronea, ma, a un’osservazione che sia un po’ più ravvicinata, si può notare come queste due creazioni, rispecchino facilmente l’una, lo sguardo verso la visione interiore, e poi teatrale, che nel caso del gruppo del Carrozzone emana dal regista e, l’altra, quella impressa nell’occhio di chi guarda stando nei panni dell’attore.

La figura liminale di Federico Tiezzi, che entra in scena anche violentemente ma è sempre presenza sfuggente e momento di contatto (perfino aggressivo a volte) tra scena e pubblico, richiama alla nostra memoria – pur con le doverose distinzioni – gli atteggiamenti scenici tipici del regista polacco Tadeusz Kantor, a loro volta echi di una personale interpretazione della sua idea di regista, ma anche, più in generale, dell’interpretazione data della posizione intellettuale e sociale dell’artista da parte dei pittori simbolisti polacchi che Kantor studiò tanto approfonditamente nel corso della sua vita121. Tiezzi ricopre sicuramente un ruolo fondamentale per l’economia degli equilibri

120 Cfr. Giuseppe Bartolucci, Roma: città di teatro, cit., pp. 32-34.

121 Intendiamo qui accostare la particolare presenza/assenza di Tiezzi nello spazio e tra gli attori in Ombra diurna alla simile qualità di presenza in scena di Kantor riferendoci all’individuazione, comune a entrambi, di un «fuoriscena del trovarobato», ossia di un fuoriscena che «è in ogni caso il luogo ideale di convergenza di attore e personaggio». (Ruggero Bianchi, L’essere in sé del passato: Kantor e l’avanguardia americana, in Lido Gedda (a cura di), Kantor, protagonismo registico e spazio memoriale, Titivillus, Corazzano 2007, p. 66). A proposito del rapporto di Kantor con la visualità sviluppata e proposta dagli artisti suoi connazionali e dalle influenze delle riflessioni pittoriche di questi sulle sue performance e sugli spettacoli

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interni alla performance e, insieme a Marion D’Amburgo orchestra dall’interno l’andamento delle operazioni, ma, per cogliere i punti di vista del regista-attore e dell’attore-attore che si oppongono e allo stesso tempo si compenetrano, possiamo rileggere Ombra diurna attraverso quello che, in questa sede e al solo scopo di approfondimento, potremmo definire un «autore privilegiato»122 (tra pari): l’attore Sandro Lombardi.

Sia dalle immagini che dalle informazioni ricavate dalle recensioni sulle azioni compiute da Lombardi in scena (spesso formalmente speculari a quelle di Luca Abramovich) deriva un’idea di elemento misuratore degli equilibri e delle emozioni messe in campo dagli altri attori. Ma della valenza attribuita da Lombardi alla performance creata a Roma, proprio in quella città e proprio in quel luogo preciso, possiamo cogliere a pieno gli aspetti solo in relazione a un sentimento del paesaggio che dà modo a Lombardi di riflettere fin da subito – e il video realizzato da Mario Carbone nel 1977 e intitolato proprio Ombra diurna, sembra conservarne traccia in certe scelte registiche e nell’insistenza sulle sequenze di passeggiata/perlustrazione dei luoghi – su quel sentimento del lavoro (teatrale) e che quindi potremmo anche definire propriamente sentimento del teatro, che più gli preme rintracciare123.

L’intero capitolo che nel suo libro Lombardi dedica a Roma e a quel periodo di fine anni Settanta in cui ha lavorato e collaborato sul posto con amici come Giorgio Barberio Corsetti e Simone Carella, è pervaso da un forte senso, o meglio da una forte coscienza dell’ambiente, soprattutto culturale, circostante; scrive infatti bellissime pagine sugli incontri che poté, o che avrebbe voluto, fare. In questo clima di scrittura, a un certo punto, descrive, sia per questioni cronologiche che tematiche, l’occasione in cui, al Pastificio Cerere di via dei Volsci, insieme alla compagnia, mise in scena Ombra diurna,

cfr. Daniel Gerould, Iconographic images in the theatre of Tadeusz Kantor, «Journal of Dramatic Theory and Criticism», 10 (1), 1995, pp. 175-188.

122 Accostiamo il termine a quello di “spettatore privilegiato” spesso usato in riferimento al periodo in cui Stanislavskij, malato, osservava lavorare i suoi allievi dello Studio, libero dai ritmi frenetici di una messa in scena imminente, e quindi più aperto a derive di carattere riflessivo o autoriflessivo a partire dalle tecniche di lavoro accumulate in una vita: cfr. Franco Ruffini, Stanislavskij. Dal lavoro dell’attore al lavoro su di sé, Laterza, Roma 2009.

123 Anche per Federico Tiezzi il discorso intorno al sentimento del teatro distingue tra un lavoro scenicamente valido e uno che, pur ben fatto, non lo è. Parlò ad esempio dello spettacolo Un uomo è un uomo andato in scena per la regia di Massimo Castri al Teatro Metastasio nel 1975, come di un lavoro in cui si sentiva forte l’assenza di quel particolare sentimento che avrebbe permesso alla messa in scena di guadagnarsi a pieno il titolo di opera. Cfr. Federico Tiezzi, in Oliviero Ponte di Pino, Gli analisti, cit., p. 60.

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e il frammento ci è utile per comprendere l’importanza di quest’occasione nel percorso artistico dell’attore:

Noi scegliemmo un pastificio abbandonato a San Lorenzo. Ho sempre provato fortissima la suggestione dei nomi: il locale si chiamava Cerere e per di più stava in un quartiere dove le strade sono intitolate agli antichi popoli del Lazio – Ausoni, Volsci, Rutuli. Si cercava di portare il teatro sulla lunghezza d’onda delle arti visive, di colmare il ritardo fisiologico di cui questo sempre soffre nei riguardi della pittura. Ma io non riuscivo a fare a meno di coniugare i postulati concettuali e certe impostazioni della body-art con suggestioni di carattere letterario. C’era là vicino un cinema in cui Sandro Penna aveva ambientato uno dei racconti di Un po’ di febbre. E c’era, fortissimo, il respiro della Roma pasoliniana. Sentivo contraddizione e insieme fecondità nell’accostare Joseph Beuys a Pasolini, Vito Acconci a Sandro Penna.

Il nostro intervento si chiamava Ombra diurna. Sono passati più di vent’anni e non ricordo bene come si svolgesse lo spettacolo ma ho presente con estrema chiarezza il sentimento del lavoro, il desiderio di raccontare una condizione psicologica attraverso un linguaggio cifrato e allusivo, lontano dalla rappresentazione ma legato a un clima interiore aderente a frammenti di realtà e verità. Forse è stato il momento in cui, con un certo paradosso, più presente e attivo era in noi il ricordo di Stanislavskij. Le azioni di quella performance non erano narrative né tanto meno naturalisticamente rappresentative; anzi, il tentativo era proprio quello di eliminare il racconto esteriore per lasciar affiorare una condizione interiore: bisognava lavorare sulle «circostanze date», sui «se» e sui «come» di stanislavskijana memoria.124

In modo simile anche il compito di Federico Tiezzi in Rapporto Confidenziale ha caratteristiche di moderatore – almeno inizialmente – ma, mentre per Lombardi a Roma, gli impulsi a costruire un preciso sentimento sembravano provenire dal contorno o, se vogliamo, dal paesaggio (mentale), per Tiezzi in questo caso la chiave di volta è tutta nell’azione scenica.

[…] Gli spettatori entrano all’interno della palazzina, in un piccolo locale completamente vuoto a eccezione del tubo al neon che si vede proseguire oltre il pavimento, nel seminterrato, e oltre il soffitto, al primo piano. La stanza ha altre due porte: lo spettatore è libero di scegliere il proprio percorso. Le azioni descritte qui di seguito si svolgono simultaneamente nei diversi ambienti.

Seminterrato. L’azione di Alga e Luca si compone di tre sezioni tendenti a investire ogni piano dello spazio.: pareti, soffitto, pavimento. Ogni sezione è ripetuta due volte in due situazioni luminose differenti: luce al neon che annulla le ombre, e luce al quarzo che le staglia.

Prima sezione: Luca è appeso al soffitto, esattamente sopra Alga che, sul pavimento sta inginocchiata in una posizione speculare a quella di Luca. Uno specchio permette ai due di controllarsi a vicenda.

I movimenti sono minimi, anche se percepibili nettamente.

Seconda sezione: Luca è seduto al centro della stanza, mentre Alga occupa una sedia fissata alla parete in modo da risultare la proiezione dell’ombra di Luca.

Terza sezione: Alga è al centro della stanza, in piedi, rivolta verso la vetrata. La sua ombra, che si proietta sul pavimento, viene riempita dal corpo di Luca.

Scala. Lo spazio usato è una pianta ovale determinata dal muro della scala. Sandro Sandro si muove lentamente lungo il limite dello spazio, mentre viene proiettata sulla parete a lui retrostante un’immagine della stessa scala vista dall’alto.

Tre stanze (Federico e il passato). Federico è seduto nella stanza centrale. Ha due microfoni e un proiettore di diapositive. I due microfonoi sono collegati a due diversi

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sistemi di amplificazione per cui quando Federico parla al primo di essi la sua voce è udibile solo in una delle due stanze adiacenti, mentre quando parla all’altro la sua voce è udibile nell’altra stanza. Queste due stanze sono vuote. Una quarta stanza ad essere adiacente è occupata da una copia di un’installazione di Vito Acconci (Memory box). Federico alterna continuamente l’uso dei due microfoni: uno è dedicato al privato, l’altro a una fredda spiegazione del lavoro. Quello che Federico dice a un microfono contraddice quanto dice all’altro. […]125.

Leggendo la sua descrizione della performance si ha la sensazione che il pubblico abbia libertà di movimento, possa scegliere i propri percorsi all’interno della palazzina in cui si svolge la rassegna ma, sia che possa osservare da un punto privilegiato, o che abbia solo una visione parziale degli avvenimenti dislocati nelle diverse stanze, la visione, almeno idealmente, è e rimane una, rettilinea e continua come il lungo tubo al neon che attraversa in tutta la sua altezza la palazzina. Il tentativo è quello forse di far dilagare una stessa immagine, non solo davanti agli occhi, ma nella percezione di tutti, per far sì che venga condivisa e, una volta approfonditamente indagata, possa essere sfondata, superata, come la parete che Tiezzi prende a picconate; come l’ombra di Alga che si supera diventando corpo e parte dell’ombra di Luca (e viceversa); come Marion e Pier Luigi che si completano, decidendo come portare a termine un movimento iniziato dall’altro, o