5. Neuroscienze ed etica del diritto: dal libero arbitrio al significato della pena
5.2. Seconda parte. Aspetti critici e prospettive future
5.2.3. Il significato della pena alla luce dell’impostazione neuroscientifica
Una delle conseguenze logiche più significative, relativa all’impatto della visione neuroscientifica dell’uomo sull’ordinamento penale, riguarda la concezione della pena.
Secondo alcuni, addirittura, tutti i sistemi giuridici occidentali dovrebbero essere rivoluzionati, in quanto, attualmente, si basano su presupposti incompatibili con l’impostazione delle neuroscienze circa determinate categorie giuridiche. Ciò che viene messa in discussione, in particolare, è la concezione retributiva della pena, secondo cui il significato ed il fine della condanna consistono nell’infliggere all’autore di un crimine una punizione, come corrispettivo del male da lui commesso ai danni della società. In poche parole, il colpevole merita di essere punito e la severità della pena deve risultare proporzionata alla gravità del crimine281. A tal proposito, sorge spontaneo domandarsi come si possa conciliare questa visione della pena con le scoperte neuroscientifiche sulla responsabilità, dato che “nella misura in cui il determinismo neuroscientifico è corretto, la punizione non solo è priva di senso, ma è anche immorale”282. Il presupposto su cui si fonda la concezione retributiva della pena, infatti, è costituito dalla libertà umana: gli ordinamenti giuridici moderni si reggono sull’idea che la nostra mente sia capace di deliberazione volontaria e che, quindi, noi siamo in grado di causare un’azione in modo libero e consapevole; in questo contesto, la pena si configura come rimprovero verso un soggetto che, potendo scegliere come comportarsi, ha scelto di porre in essere una condotta contraria alla legge283. Stando, tuttavia, alle considerazioni neuroscientifiche in merito, sembra che, come visto in precedenza, le nostre azioni prendano avvio da meccanismi inconsci che precedono il pensiero cosciente (vedi cap. 4, prima parte, par. 2); le scienze cognitive, in generale, mettono
280 COLLICA M.T., La crisi del concetto di autore non imputabile “pericoloso”, cit., p. 7.
281 LAVAZZA A./SAMMICHELI L., Il delitto del cervello. La mente tra scienza e diritto, cit., p. 77 ss.; MARINUCCI G./DOLCINI E., Manuale di diritto penale, Parte generale, IV ed., Milano, 2012, p. 4; FIANDACA G./MUSCO E., Diritto penale. Parte generale, VII ed., Zanichelli, 2014.
282 GAZZANIGA M., The law and neuroscience, in Neuron, 2008, 60, pp. 412-415.
283 MARCHETTI P., Il cervello a giudizio. Le lontane origini di due recenti sentenze italiane, in Psicologia e giustizia, Anno 13, Numero 2, Giugno-Dicembre 2012, p. 7.
78 in discussione che l’uomo sia un essere libero, razionale, cosciente e che sia mosso da intenzioni consapevoli. E allora, alla luce di tale visione, è giusto essere puniti, se non siamo liberi? Non sarebbe forse immorale una punizione?284 Ma soprattutto, la questione diventa ancora più delicata quando ci si trova di fronte ad un soggetto che ha commesso un delitto e, attraverso tecniche di brain imaging, si scopre la presenza di un’anomalia cerebrale che, compromettendo la regione legata all’emotività e alla capacità di controllare i propri impulsi, ha scatenato reazioni violente ed aggressive. Un’altra importante funzione della pena all’interno del nostro sistema penale, infatti, è quella dell’emenda: il condannato deve essere rieducato, al fine di un futuro reinserimento nella comunità sociale. Che senso hanno, a questo punto, l’emenda e la retribuzione di un soggetto, la cui azione è stata mossa da una “frattura” cerebrale285? D’altronde, anche estremizzare il concetto, pensando il crimine come evento esclusivamente neurocorrelato, conduce ad un rischio: la nascita di un “modello di neuropersona impermeabile al merito e al biasimo”286. Neppure in questo caso, però, verrebbe meno la ragion d’essere della pena, anche se in un’ottica consequenzialista, secondo la quale quest’ultima è giustificata nel momento in cui serve a raggiungere futuri effetti benefici; in primo luogo, la prevenzione del crimine attraverso l’effetto deterrente della pena e, in secondo luogo, la sicurezza sociale tramite il contenimento dei soggetti pericolosi, oltre alla soddisfazione delle vittime e della società, che viene rassicurata dalla punizione inflitta ai criminali. I sostenitori della teoria consequenzialista della pena287 ritengono che questa trovi la sua giustificazione proprio nel raggiungimento di tali obiettivi, qualunque forma essa assuma e comunque sia irrogata; secondo tale impostazione, in definitiva, non si pone il problema circa l’effettiva colpevolezza dell’agente, in termini di esistenza, o meno, della libertà individuale dell’agire, rilevando qui solo l’efficacia della sanzione288.
In un’altra prospettiva si colloca chi289 reputa “l’attacco” delle neuroscienze alla teoria retributiva della pena fondato su presupposti errati: la presunta correlazione tra modello attuale di responsabilità penale, teoria retributiva e libero arbitrio non rispecchierebbe ormai più il dibattito penalistico contemporaneo; sembra, infatti, che la maggior parte della dottrina sia orientata verso l’abbandono del concetto di retribuzione quale principale funzione e
284 CARUANA F., Due problemi sull’utilizzo delle neuroscienze in giurisprudenza, in Sistemi intelligenti, 2/2010, agosto, p. 340.
285 SOZIO M., Funzione della pena e capacità empatica, Annali 2016, anno IV, p. 527.
286 SOZIO M., Funzione della pena e capacità empatica, cit., p. 527.
287 GREENE J.D./COHEN J., For the law, neuroscience changes nothing and everything, in ZEKI S./GOODENOUGH O.R. (a cura di), Law and the Brain, Oxford University Press, Oxford, 2004.
288 LAVAZZA A./SAMMICHELI L., Il delitto del cervello. La mente tra scienza e diritto, cit., pp. 101-105.
289 GRANDI C., Neuroscienze e responsabilità penale: Nuove soluzioni per problemi antichi?, cit.
79 giustificazione della pena e che l’idea retributiva venga in rilievo solamente come criterio strumentale al raggiungimento di altri scopi, quali, ad esempio, l’ancoraggio della pena ad istanze garantistiche e l’attuazione delle istanze preventive generali o speciali. Quanto alla questione del libero arbitrio, invece, si pensa che le scoperte neuroscientifiche sarebbero in grado di sconvolgere i criteri di giudizio della responsabilità penale, solo se questa si fondasse su una teoria “forte” del libero arbitrio; sembra, tuttavia, che questa visione sia ormai marginale all’interno del panorama dottrinale, tant’è che, addirittura, autorevole dottrina afferma che “una volontà libera, intesa come libertà assoluta di autodeterminazione al limite del puro arbitrio, non esiste”290. Viene meno così l’assoluta correlazione tra concezione retributiva della pena e libero arbitrio, criticata dalla concezione neuroscientifica291. Resta da chiarire, poi, il modo in cui il giudizio di colpevolezza si inserisce in un ambito nel quale il funzionamento del cervello viene descritto in modo meccanicistico. In realtà, il dibattito tra neuroscienziati e penalisti negli ultimi anni ha raggiunto alcuni punti di contatto: i primi sono giunti ad ammettere che i risultati delle indagini cerebrali possono suggerire, da un lato, l’assenza del libero arbitrio, ma dall’altro, non sono in grado, attualmente, di rivoluzionare le categorie giuridiche della responsabilità e della colpevolezza. Nonostante, quindi, possa mancare un’idea di libertà assoluta dell’uomo, l’istituto della pena, così come quelli della responsabilità e della colpevolezza, conserverebbe un ruolo importante nel mantenimento della struttura sociale292. I dati neuroscientifici, in grado di individuare eventuali anomalie cerebrali o genetiche, potrebbero incidere sul giudizio di colpevolezza, ma un simile collegamento tra quest’ultimo e la base empirica fornita dalle neuroscienze non comporterebbe il venir meno della dimensione normativa: una volta individuata un’anomalia cerebrale suscettibile di incidere sulla capacità di autodeterminazione di un soggetto, ciò non significa che la questione della responsabilità penale sia automaticamente risolta, dovendo essere questa analizzata anche da un punto di vista normativo, che permetta di “identificare il livello di perturbamento del procedimento motivazionale oltre il quale la diagnosi di imputabilità (e dunque di colpevolezza) avrà esito negativo”293. Questo tipo di approccio fondato su una visione empirico-normativa della colpevolezza presenta molteplici vantaggi: in primo luogo, evita che il diritto penale, nel timore che le neuroscienze possano sovvertire tutto il sistema giuridico penale, si ancori a posizioni strettamente normative, tanto da perdere il contatto con la complessità del comportamento
290 FIANDACA G./MUSCO E., Diritto penale. Parte generale, cit., p. 343.
291 GRANDI C., Neuroscienze e responsabilità penale: Nuove soluzioni per problemi antichi?, cit., pp. 106-109; vedi anche ROMANO M., Commentario sistematico del codice penale, Giuffrè, Milano, 2004, p. 327; TERRACINA D., Problematiche del diritto penale, Giappichelli, Torino, 2011, p. 204.
292 GRANDI C., Neuroscienze e responsabilità penale: Nuove soluzioni per problemi antichi?, cit., p. 116 ss.
293 GRANDI C., Neuroscienze e responsabilità penale: Nuove soluzioni per problemi antichi?, cit., p. 124.
80 umano; in secondo luogo, le tecniche di brain imaging possono aiutare il giudice nella valutazione dell’incidenza di patologie cerebrali sulla capacità di intendere e di volere, contribuendo, inoltre, ad una commisurazione della pena più scrupolosa ed accurata, oltre che alla scelta del percorso riabilitativo migliore per l’autore del reato. Tali contributi potrebbero risultare significativi in vista di una riforma dell’apparato sanzionatorio, fornendo una base empirica per la predisposizione di misure di carattere afflittivo-riabilitativo, oppure esclusivamente curativo, che possano risultare più utili per chi presenta deficit cerebrali ed ha commesso un fatto penalmente rilevante294.
294 GRANDI C., Neuroscienze e responsabilità penale: Nuove soluzioni per problemi antichi?, cit., p. 124-125; vedi anche GRANDI C., Sui rapporti tra neuroscienze e diritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen., fasc. 3, 2014, p. 1249 ss.
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Conclusioni
Il dibattito sollevato intorno alle moderne neuroscienze e al loro rapporto con il diritto penale risulta, ancora oggi, molto acceso e spazia da argomentazioni di carattere scientifico fino a questioni giuridiche e filosofiche, creando, all’interno di una rete multidisciplinare, una molteplicità di punti di vista che si intrecciano tra loro. È all’interno di un simile panorama che, come abbiamo visto, si fanno largo tipi di approcci al tema molto differenti gli uni dagli altri, in alcuni casi addirittura opposti. Alcuni studiosi295 si fanno sostenitori di un approccio di carattere rifondativo. Essi ritengono che, alla luce dell’impostazione neuroscientifica, negante, secondo la loro interpretazione, la volontà umana e, in generale, il libero arbitrio, sia necessario rifondare completamente il diritto penale, affinché possa conciliarsi con il nuovo paradigma scientifico. A loro avviso, dovrebbe, dunque, essere abbandonato il concetto tradizionale di responsabilità penale, poiché fondata sulla capacità di agire diversamente posta in capo all’autore al momento del fatto, che in realtà sarebbe inesistente. Ciò che viene propugnato non è un’abolizione del diritto penale, quanto piuttosto la sua rifondazione su basi alternative al principio di colpevolezza tradizionalmente inteso, in favore di un modello specialpreventivo intriso di progressiva umanizzazione del diritto penale. I risvolti positivi di tale approccio consisterebbero nella possibilità di diminuire gli errori giudiziari e di permettere maggiori garanzie all’imputato in una fase così delicata del processo, come l’accertamento dell’elemento soggettivo del reato. Altri autori296, fautori di un approccio di carattere conservativo, ritengono che il paradigma neuroscientifico non possa giustificare un sovvertimento degli istituti giuridici tradizionali. Si tratta di studiosi che hanno assunto un atteggiamento scettico nei confronti delle scoperte neuroscientifiche: si contesta la pretesa di analizzare e capire la mente, come se si trattasse di una macchina; la validità delle ricerche empiriche volte alla dimostrazione dell’assenza del libero arbitrio297; l’inesattezza di un accertamento cerebrale compiuto ex post, per mezzo delle tecniche di neuroimmagine, che non tiene conto dello stato del cervello nel momento esatto in cui è stata commessa l’azione criminale; la necessaria eterogeneità delle scienze giuridiche rispetto a quelle empiriche, la quale non permetterebbe che i risultati di
295 Cfr. ad esempio: GREENE J./COHEN J., For the law, neuroscience changes nothing and everything, cit.;
FORZA A., Le neuroscienze entrano nel processo penale, cit., p. 78; MERKEL G./ROTH G., Freiheitsgefühl, Schuld und Strafe, cit., p. 77 ss.
296 Cfr. ad esempio: MORSE S.J., New neuroscience, old problems: legal implications of brain science, cit., pp. 33-50; GAZZANIGA M.S., La mente etica, cit.
297 Ad esempio, sono stati criticati gli esperimenti di Libet, partendo dal presupposto che, basandosi questi ultimi sull’analisi di semplici movimenti, privi, in quanto tali, del corredo motivazionale ed emozionale di cui sono dotate normalmente le decisioni che prendiamo, non sarebbero in grado di dare una spiegazione univoca dei concetti di volontà e di coscienza umana. MELE A.R., Decisions, Intentions, Urges, and Free Will: Why Libet Has Not Shown What He Says He Has, cit., p. 241 ss.
82 queste ultime possano essere trasposti direttamente sul piano delle prime. Personalmente, ritengo che sia importante cercare di discostarsi da posizioni troppo estreme, in entrambi i sensi.
Sembra insensato, infatti, per un verso, allarmarsi e temere che le neuroscienze possano condurre ad una radicale rivoluzione dei principali istituti giuridici che sorreggono e governano la nostra società; per altro verso, altrettanto insensato pare negare l’incidenza sul diritto penale dei continui progressi in campo neuroscientifico. A mio parere, non risulta auspicabile, ad oggi, una radicale rifondazione del diritto penale su basi neuroscientifiche, le quali, come abbiamo visto, non godono ancora di un generale riconoscimento della comunità scientifica; è auspicabile, invece, una collaborazione tra sapere neuroscientifico, processo penale e diritto penale, in vista della formazione di una decisione del giudice più attenta e completa. Ritengo, tuttavia, che un certo impiego delle neuroscienze possa dimostrarsi pericoloso. Mi riferisco, in particolare, al giudizio prognostico di pericolosità sociale di un soggetto autore di reato:
provando ad immaginare un possibile scenario futuro, potrebbe accadere che un’eccessiva fiducia nell’esattezza del dato neuroscientifico convinca del fatto che le neuroscienze saranno in grado di prevedere, con assoluta certezza, se un soggetto autore di reato ne commetterà nuovamente un altro, dovendo essere sottoposto, in quel caso, ad una misura di sicurezza.
Addirittura, si potrebbe arrivare ad una simile previsione anche al di fuori di un giudizio. Si potrebbe correre il rischio che un futuro legislatore sia indotto a prevedere l’assegnazione di una misura di sicurezza, sulla base di una prognosi di pericolosità sociale fondata su determinate caratteristiche accertate tramite la strumentazione neuroscientifica, ad un individuo, ancora prima dell’effettiva commissione di un reato. L’esigenza di prevenire possibili azioni delittuose potrebbe condurre, così, ad un’interpretazione affrettata ed erronea dei risultati ottenuti tramite tecniche neuroscientifiche, a discapito delle garanzie individuali. Sotto un altro punto di vista, invece, queste nuove conoscenze potrebbero ricoprire un ruolo fondamentale nell’accertamento della verità durante un processo. Il processo penale è strutturato in modo tale da tendere al raggiungimento di una verità processuale; con verità processuale si intende una verità che si manifesta nel confronto tra le due versioni opposte che vengono presentate davanti al giudice.
È difficile che la verità processuale finisca per coincidere con quella storica, ossia quella corrispondente alla realtà dell’accaduto; la stessa Cassazione penale sostiene che ciò a cui può aspirare il processo penale è il raggiungimento di una verità processuale, “verità limitata, umanamente accertabile e umanamente accettabile del caso concreto”298. Ecco che, in un simile contesto, nel quale è prospettabile solamente una verità approssimativa, le neuroscienze, con le
298 Cass. pen., sez. V, 25.06.1996, Cuiuli.
83 loro indagini empiriche, potrebbero fornire elementi ulteriori al fine di avvicinarsi, se non alla verità storica, quantomeno ad una verità processuale il più oggettiva possibile.
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Abstract
Die vorliegende Diplomarbeit untersucht die Auswirkungen, die die Neurowissenschaften auf das Strafrecht und auf die Gesellschaft haben und in Zukunft haben könnten. Die Neurowissenschaften setzen sich mit dem Aufbau der Nervensysteme und der Genetik auseinander. Sie streben danach, den Zusammenhang zwischen neuronalen Strukturen und dem menschlichen Verhalten zu ergründen. Das Ziel besteht in der Erklärung jeglichen mentalen Phänomens bis hin zu den komplexesten menschlichen Handlungen durch die Analyse der verschiedenen Hirnzonen, die jeweils für verschiedene Aufgaben verantwortlich sind.
Nach einem Einblick in die verschiedenen neurowissenschaftlichen Techniken und der Entdeckungen in der Verhaltensgenetik wird in der Arbeit das komplexe Verhältnis zwischen den Neurowissenschaften und dem Recht beleuchtet. Das Hauptaugenmerk liegt dabei auf den Eingang der Neurowissenschaften als Beweismittel im Strafprozessrecht. Der Einfluss der Umwelt auf das menschliche Verhalten wurde dabei mit berücksichtigt.
Die Untersuchung der Relevanz der Neurowissenschaften im Strafrecht führt zur unvermeidlichen Frage, inwiefern und auf welche Weise diese im Rechtssystem Berücksichtigung finden können. Anhand des neuen neurowissenschaftlichen Paradigmas werden daher die Konzepte der Verantwortlichkeit, der Zurechnungsfähigkeit, der Schuldfähigkeit und der sozialen Gefährlichkeit näher beleuchtet.
In Folge einer komparatistischen Analyse des Einflusses der Neurowissenschaften auf das angloamerikanische Rechtssystem wird das ethisch-philosophische Terrain betreten. Daraus ergibt sich eine Reflexion über den freien Willen, der von einer deterministisch-reduktiv eingestellten Neurowissenschaft stark limitiert, wenn nicht gar ausgeschlossen, zu sein scheint.
Das Thema führt zu den extremsten Meinungen. Zum einen wird die Ansicht vertreten, dass die Neurowissenschaften, indem sie den freien Willen negieren, das Gefüge unseres Strafrechts zerrütten würden, da der freie Wille die Voraussetzung der strafrechtlichen Verantwortlichkeit und der daraus folgenden Strafbarkeit sei. Als Konsequenz sollte das Strafrecht völlig neu konzipiert werden. Zum andern werden hingegen der Fortschritt und die Gültigkeit der Neurowissenschaften schlichtweg verneint. Abgesehen von diesen Extrempositionen scheint es sinnvoll zu sein, eine Zusammenarbeit zwischen den Neurowissenschaften und dem Strafrecht zu befürworten, um im Ergebnis dem Richter weitere Instrumentarien für die Bewertung der Persönlichkeit des Einzelnen in die Hand geben zu können, mit Hilfe derer er in der Lage wäre, individuelle, substanzielle Gerechtigkeit in höherem Maße walten zu lassen..
Ein besonderes Augenmerk ist auf die Risiken zu legen, die die Neurowissenschaften in Zukunft mit sich bringen könnten. Ein Beispiel dafür ist die Prognose über die soziale
85 Gefährlichkeit eines Menschen. Was zu verhindern angebracht scheint, ist, dass das Bedürfnis, Straftaten zu verhindern, zu einer vorschnellen und fälschlichen Interpretation der durch neurowissenschaftliche Techniken erhaltenen Daten führen könnte, während die individuellen Garantien eines jeden menschlichen Wesens außer Acht gelassen werden. Was hingegen möglich scheint, ist das Anstreben einer Zusammenarbeit der Neurowissenschaften mit dem Recht, die es ermöglichen könnte, den Prozess so nah wie möglich an die tatsächliche Wahrheit zu bringen.
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