• Non ci sono risultati.

L’epoca del Mandato britannico sulla Palestina »

Nel documento Il diritto ebraico nello Stato di Israele (pagine 57-67)

Il movimento migratorio ebraico verso la Palestina avvenne, come si è accennato, a più riprese e con diversa intensità. Il primo flusso si stabilì nella zona tra il 1880 e il 1903: i partecipanti all’alyah furono reclutati soprattutto tra i membri del movimento degli Amanti di Sion e inizialmente, pur avendo acquistato terre dai proprietari arabi, dovettero sopravvivere grazie all’aiuto di soggetti influenti della Diaspora. I partecipanti alla seconda alyah (1904-1914), più di 35.000 persone, erano prevalentemente originari della Russia e portarono con loro gli ideali del Sionismo socialista, gettarono le fondamenta del movimento operaio e crearono i primi kibbutzim176.

Fino alla fine della Prima Guerra Mondiale il territorio della Palestina era parte integrante dell’Impero ottomano. Per quanto concerne i rapporti tra Stato e religione, vigeva allora nella zona il cosiddetto sistema del millet, una peculiare forma di organizzazione politica che concedeva agli abitanti dell’Impero di religione non mussulmana il diritto di organizzarsi in comunità con spiccata autonomia politica sotto l’egida dei capi religiosi della comunità stessa. Tale status era però concesso soltanto a coloro che non fossero idolatri bensì Popoli del Libro, vale a dire cristiani e ebrei177.

I capi del millet, della singola comunità, erano direttamente responsabili nei confronti dello Stato per l’amministrazione dei soggetti a loro sottoposti: benché la comunità difettasse di una coesione territoriale, e ovviamente di potere militare, essa costituiva per molti aspetti un’entità autonoma all’interno dell’Impero. Non si poteva parlare per questi soggetti di una vera e propria “cittadinanza” poiché lo status

176 B.K

IMMERLING, The Invention and Decline of Jewishness, cit., pag. 195. I partecipanti alla prima ondata migratoria erano in generale persone devote: prima di costruire le loro case, erigevano una sinagoga e un mikvah. Gli immigrati dal 1904 in poi furono giovani, con una visione del mondo materialista ed alle volte rivoluzionaria.

177 W.J.C

AHMAN, Religion and Nationality, in The American Journal of Sociology, 49, 6, 1944, pag. 524. Il sistema del millet può essere considerato parte della religione islamica. In breve, il mondo dell’islam può essere suddiviso in due parti, Dar-ul-islam, il mondo della pace e della devozione, e Dar-ul-harb, il mondo della guerra. I fedeli dell’islam sono considerati come obbligati a ingaggiare una guerra santa finché il Dar-ul-harb non sia progressivamente diminuito e ricondotto alla sfera del Dar-ul-islam. Nel Dar-ul-islam tuttavia i non mussulmani possono continuare ad esistere, benché con sofferenza, se appunto non siano idolatri ma fedeli del Libro. Essi possono praticare la loro fede e organizzare la loro vita familiare secondo i propri costumi. Ma in teoria non possono essere proprietari delle terre su cui vivono e devono pagare un tributo per se stessi e per la terra che occupano allo Stato islamico che li ospita. Questo status è chiamato lo status dei Dhimmis. Si veda anche A.RUBINSTEIN, State and Religion in Israel, in Journal of Contemporary History, 2, 4, Church and Politics, 1967, pag. 111, che ricorda come il diritto ottomano fosse basato sul principio che tutto il diritto proveniva dalla rivelazione divina islamica. Questo diritto non poteva però essere applicato ai non credenti, da qui l’esigenza di apposite disposizioni per cristiani ed ebrei, incorporate in apposite Carte concesse dal Sultano. Per gli stranieri particolari privilegi erano concessi tramite le cosiddette Capitolazioni.

Capitolo secondo

58

personale era basato su un sistema di sanzioni religiose178. Il millet era dunque un sistema che coniugava religione e nazionalità e che nei secoli portò molti gruppi religiosi a vivere uno accanto all’altro e a mantenere una spiccata indipendenza179.

I primi immigrati ebrei in Palestina si inserirono in questo sistema di autonomie religiose, andando ad ingrossare le fila della comunità ebraica che da sempre era esistita nel territorio della Palestina, come in altre parti dell’Oriente e dell’Africa settentrionale. La sconfitta dell’Impero ottomano alla fine della Prima Guerra Mondiale e i conseguenti trattati di pace portarono nel Medio Oriente le concezioni europee di Stato, gli ideali di popolo e nazione, di cui anche il Sionismo era frutto, con tutte le conseguenza che ne derivavano per un’area in cui comunità diverse erano vissute fianco a fianco per centinaia di anni180.

Il 2 novembre 1917 il movimento sionista, rappresentato da Haim Weizmann, dopo trattative con il Governo inglese riuscì a strappare la cosiddetta Promessa di Balfour, relativa alla creazione di un focolare nazionale ebraico in Palestina. Il progetto fu poi ratificato dalla conferenza di pace di Versailles del 1919 e nel 1922 la Società delle Nazioni assegnò alla Gran Bretagna il Mandato sulla Palestina anche con lo scopo di attuare tale progetto in collaborazione con il movimento sionista (dal 1929 per mezzo del suo organo esecutivo, l’Agenzia Ebraica)181.

178 W.J.C

AHMAN, Religion and Nationality, cit., pag. 526. Il sistema “pubblicistico” del millet era basato su concezioni comuni anche ad altre confessioni orientali. La cristianità orientale e l’ebraismo tradizionale non erano estranei ad organizzazioni sociali che coniugassero religione, vita sociale, legami comunitari, status civico e diritto. L’Autore osserva come i termini ebraico ed arabo per “mondo” indichino infinito tempo, piuttosto che infinito spazio, e lo stesso sembra essere vero anche per altre lingue orientali. Ciò può suggerire come in Oriente la religione, intesa in termini di una sequenza di tempo piuttosto che come un’ascensione spaziale dalla vita terrena al cielo, sia l’elemento costitutivo del concetto di nazione.

179 P.W

ELLER, Human Rights, Religion and the Secular: Variant Configurations of Religion(s), State(s) and Society(ies), in Religion and Human Rights: an International Journal, 1, 1, 2006, pag. 17 e ss.. Il sistema del millet è sempre stato portato come esempio dai mussulmani a sostegno dell’immagine dell’islam come religione tollerante nei confronti degli altri credi (al contrario del mondo del cristianesimo dove vigeva il principio cuius regio eius et religio). Rimane comunque uno sfasamento tra ideale e realtà, visto che accadeva che cristiani ed ebrei fossero trattati alla stregua di sudditi inferiori dell’Impero. Nel XIX secolo le riforme dell’Impero ottomano garantirono formalmente a cristiani ed ebrei uguaglianza dal punto di vista politico, ma chiunque insistesse nel far valere un diritto d’emancipazione era fieramente avversato. Per un’ampia trattazione sulla storia dell’applicazione del diritto personale e le problematiche connesse si veda E.VITTA, The Conflict of Personal Laws, in Israel Law Review, 5, 1970, pag. 170 e ss..

180 W. J.C

AHMAN, Religion and Nationality, cit., pag. 528. Si può dire che l’approdo delle dottrine nazionalistiche in Medio Oriente abbia acceso una vera e propria polveriera. Basti osservare quel che successe in Turchia, dove dopo la creazione di una repubblica laica, fu sterminata la popolazione armena, espulsi i greci, impoverite le comunità ebraiche. L’Autore riporta le parole di Sir John Hope Simpson, autore di un rapporto sul problema dei rifugiati del 1939: ricorda che quando la minoranza degli Assiri chiese al Consiglio della Società delle Nazioni di essere autorizzata a vivere come millet, come comunità autonoma, come aveva fatto in passato, la Commissione Permanente rispose che l’adozione di tale soluzione avrebbe compromesso l’unità dello Stato iracheno.

181 J.J.M

CTAGUE,JR, Zionist-British Negotiations over the Draft Mandate for Palestine, 1920, in Jewish Social Studies, 42, 1980, pag. 281 e ss.; N. BENTWICH, The Mandate for Palestine, in The British Yearbook of International Law, 10, 1929, pag. 137 e ss.; B. AKZIN, The Palestine Mandate in Practice, in Iowa Law Review, 25, 1939-1940, pag. 32 e ss.; A.LIKHOVSKI, Law and Identity in Mandate Palestine, Chapel Hill, 2006, pag. 21. Più precisamente le truppe inglesi dislocate in Egitto occuparono nel 1917 la parte meridionale della Palestina e l’anno dopo anche quella settentrionale. La zona fu prima controllata da un Governo militare e dal 1920 dal potere civile. Diversamente dai territori coloniali del periodo

La nascita dello status quo

59 All’art. 2 del Mandato, Sua Maestà era resa responsabile di due obiettivi, porre il Paese in condizioni politiche, amministrative ed economiche tali da assicurare la creazione di un focolare nazionale ebraico e salvaguardare i diritti civili e religiosi di tutti gli abitanti della Palestina, senza distinzioni di razza e religione. Da una parte vi era la promessa di creare una nazione per tutti gli ebrei, dall’altra la promessa di instaurare un sistema democratico in senso lato che garantisse il rispetto di alcuni diritti fondamentali182.

Il proposito era abbastanza velleitario e la storia successiva è nota: le tensioni che sorsero tra nazionalismo arabo e ebraico portarono gli inglesi a limitare i flussi migratori di ebrei verso la Palestina e a vietare l’acquisto di terre da parte loro183.

Cominciarono anche le tensioni tra popolazione ebraica ed inglesi ma fino al 1942 la principale preoccupazione del movimento sionista fu quella di trovare un modus vivendi con gli inglesi e di sostenere lo sviluppo della comunità ebraica locale, oltre ad intraprendere azioni per aggirare i limiti all’immigrazione184. Solo dopo il 1942, ed in particolare dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, la creazione di uno Stato ebraico divenne oggetto di azione diplomatica. Nel 1947 le Nazioni Unite votarono la risoluzione di una spartizione della Palestina in due Stati, uno ebraico e uno arabo. Fallito il progetto, gli inglesi procedettero comunque con l’evacuazione delle loro truppe il 14 maggio 1948, giorno in cui fu proclamato lo Stato di Israele185.

Durante gli anni del Mandato britannico, dal punto di vista del rapporto Governo/confessioni religiose, la strategia inglese fu quella di mantenere in vigore il

precedente alla Prima Guerra Mondiale, la Società delle Nazioni preferì garantire alle potenze occidentali dei Mandati territoriali, solitamente per un periodo limitato di tempo, con lo scopo di eventualmente creare le condizioni per un autogoverno delle popolazioni locali. Tuttavia il Mandato sulla Palestina, formalmente assegnato alla Gran Bretagna dalla Società delle Nazioni nel 1922, non prevedeva soltanto il favorire l’indipendenza ma anche fornire l’assistenza per la creazione di un focolare nazionale ebraico. Per il testo integrale del documento si veda British Mandate for Palestine, in The American Journal of International Law, 17, 1923, pag. 164 e ss.

182 Y. S

HACHAR, The Dialectics of Zionism and Democracy in the Law of Mandatory Palestine, in R. HARRIS,A.KEDAR,P.LAHAV,A.LIKHOVSKI (cur.), The History and Law in a Multi-Cultural Society – Israel 1917-1967, Aldershot, 2002, pag. 95 e ss. L’art. 15 del Mandato insisteva sul fatto che nessuna discriminazione di nessun tipo dovesse essere praticata nei confronti degli abitanti della Palestina in base alla razza, alla lingua, alla religione. Si veda anche N.BENTWICH, Judicial Interpretation of the Mandate for Palestine, in Zeitschrift für ausländisches öffentliches Recht und Völkerrecht, 1929, pag. 212 e ss., www.zaoerv.de.

183

M.B.GELBER, The Palestine Mandate: Story of a Fumble, in International Journal, 1, 1946, pag. 302 e ss; A.ABU-GHAZELEH, Arab Cultural Nationalism in Palestine during the British Mandate, in Journal of Palestine Studies, 1, 1972, pag. 37 e ss.

184 A.L

IKHOVSKI, Law and Identity in Mandate Palestine, cit., pag. 22. Nei tre decenni di governo inglese sulla Palestina si verificò una crescita accelerata sia dal punto di vista demografico che economico, dovuto principalmente all’afflusso di capitali ed immigrati ebrei. Tra il 1922 e il 1944, la popolazione ebraica crebbe da circa 83.000 persone (il 10% della popolazione) a 530.000 persone (il 30% della popolazione totale). Tra la fine della Prima Guerra Mondiale e la fondazione dello Stato vi furono quattro ondate migratorie, la prima tra il 1919 e il 1923, principalmente dalla Russia, la seconda tra il 1924 e il 1932, soprattutto dalla Polonia a causa del crescente antisemitismo e delle ristrettezze economiche, la terza dal 1932 al 1939, in prevalenza dalla Germania per sfuggire alle persecuzioni naziste. Negli anni della guerra circa 100.000 rifugiati che scappavano dall’Olocausto arrivarono illegalmente nel Paese.

185

Per alcune riflessioni sugli ultimi mesi del Mandato da parte di uno dei protagonisti si veda A. CUNNINGHAM, Palestine – The Last Days of the Mandate, in International Affairs (Royal Institute of), 24, 1948, pag. 481 e ss. Si veda anche Termination of the British Mandate for Palestine (s.a.), in The International Law Quarterly, 2, 1948, pag. 57 e ss.

Capitolo secondo

60

sistema ottomano dell’autonomia di ciascuna comunità: vennero riconosciute come millet la comunità islamica, quella ebraica e nove denominazione cristiane186. L’autonomia si esplicava principalmente tramite la garanzia di una giurisdizione esclusiva affidata a corti religiose sulle questioni relative allo status personale187: le sentenze di tali organi erano poi eseguite dalle corti civili inglesi. Le corti rabbiniche avevano il compito di risolvere controversie in materia di status tra ebrei palestinesi, in via esclusiva per le questioni di matrimonio, divorzio, alimenti, volontà testamentarie e lasciti. Nel 1936, in Palestina vi erano tredici corti rabbiniche. Nel 1921 gli inglesi istituirono anche un Consiglio Rabbinico, composto da due Rabbini Capo, sei rabbini ed alcuni laici, che si riuniva in Gerusalemme e svolgeva le funzioni di corte d’appello rispetto alle decisioni delle corti rabbiniche188.

E’ interessante notare come non solo vi fosse stato un riconoscimento da parte degli inglesi del sistema precedente, ma anche un’attiva ricerca di supporto e legittimazione da parte dell’establishment rabbinico nei confronti del Governo dello Stato coloniale. Anche se le corti rabbiniche avevano operato fin dai tempi dell’Impero ottomano, all’indomani della prima Guerra Mondiale esse soffrivano per la carenza di prestigio e di una struttura ben organizzata. Per contrastare l’affermarsi di organismi giudiziari alternativi nella comunità, l’ortodossia fece pressione sul Governo per una riforma del sistema: l’esito fu una commissione d’inchiesta, presieduta da Norman Bentwich, che raccomandò appunto la creazione di un Rabbinato Centrale, un organismo sconosciuto al diritto ebraico tradizionale, da investire dei poteri necessari alla riorganizzazione del sistema delle corti religiose. Per gli inglesi, questa linea era coerente con la politica coloniale di creare forme centralizzate di gestione tenendosi allo stesso tempo fuori dagli affari religiosi delle singole comunità189, per l’ortodossia significava essere in una

186 B.K

IMMERLING, The Invention and Decline of Jewishness, cit., pag. 182; fu mantenuta un’autonomia anche in campo educativo, si veda A.L.TIBAWI, Religion and Educational Administration in Palestine of the British Mandate, in Die Welt des Islams, 3, 1953, pag. 1 e ss.

187 N.B

ENTWICH, The Legal System of Palestine under the Mandate, in Middle East Journal, 2, 1948, pag. 33 e ss.; A.LIKHOVSKI, Law and Identity in Mandate Palestine, cit., pag. 31. All’epoca dell’Impero ottomano, le corti religiose islamiche avevano ampia giurisdizione, su questioni di status, ma anche su questioni che esulavano dal diritto di famiglia e su questioni di status che coinvolgessero soggetti non mussulmani, come la custodia dei figli e le successioni, anche se i limiti di tale giurisdizione non erano ben definiti. Le altre corti religiose ebbero sempre una giurisdizione meno ampia, tuttavia gli inglesi abolirono la competenza delle corti islamiche a giudicare su controversie che coinvolgessero persone appartenenti ad altre comunità religiose.

188 D.S

INCLAIR, Jewish Law in the State of Israel, in N.S.HECHT,B.S.JACKSON,S.M.PASSAMANEK,D. PIATTELLI,A.M.RABELLO (cur.), An Introduction to the History and the Sources of Jewish Law, Oxford, 1996, pag. 399. La creazione di un Rabbinato Centrale offrì l’opportunità di centralizzare le corti rabbiniche, soprattutto tramite la creazione della corte d’appello rabbinica. L’idea di un regolare tribunale d’appello era una novità nel diritto ebraico tradizionale e la sua creazione fu attuata tramite una takkanah, un decreto rabbinico. L’utilizzo di tale strumento fu suggerito da Rav A. Kook, come mezzo per il Rabbinato Centrale di confrontarsi con i problemi scaturenti dalla tensione tra il diritto tradizionale e la rinascita nazionale in Palestina.

189 R.S

HAMIR, The Hebrew Law of Peace: the Demise of Law-as-Culture in Early Mandate Palestine, in R.HARRIS,A.KEDAR,P.LAHAV,A.LIKHOVSKI (cur.), The History and Law in a Multi-Cultural Society, cit., pag. 105 e ss.. Sembra che l’origine del Rabbinato Centrale si possa rinvenire nella tradizione giuridica inglese che riconosceva questo organismo come rappresentante degli ebrei in Inghilterra. Sul ruolo politico ed istituzionale del Rabbinato si veda S.ELIASH, The Political Role of the Chief Rabbinate of Palestine During the Mandate: Its Character and Nature, in Jewish Social Studies, 47, 1985, pag. 33 e ss.

La nascita dello status quo

61 posizione privilegiata per fissare ed imporre la propria versione della tradizione, in particolare in materia di diritto ebraico.

Per quanto riguarda gli organismi giudiziari alternativi che i rabbini temevano come possibili concorrenti, nella comunità ebraica sorsero addirittura due sistemi di corti, entrambe fondati sull’accettazione volontaria da parte dei litiganti dell’autorità della corte. Da una parte vi erano corti composte da laici ma che giudicavano sulla base del diritto ebraico, dall’altra un sistema di corti di ispirazione socialista. A queste si aggiungevano alcune corti religiose che operavano nell’ambito delle piccole comunità di ebrei ultra-ortodossi.

Per quanto riguarda la prima tipologia di corti, di cui troviamo esempi già negli ultimi anni dell’Impero ottomano, esse svolgevano funzione di collegio arbitrale ed infatti erano dette corti di conciliazione (mishpat ha-shalom ha’ivri). Per evitare conflitti con il Governo britannico o con le corti rabbiniche, tali corti evitavano di decidere in materia penale ed in materia di status personale. I giudici erano tenuti a decidere i casi sulla base del diritto ebraico, l’halachah, anche allo scopo di far risorgere le tradizioni, come si era fatto per la lingua ebraica, tuttavia, poiché i laici che componevano le corti non avevano una conoscenza molto approfondita dell’halachah, spesso le decisioni erano frutto di un’attività conciliativa o ispirate a criteri di equità190. Le corti civili avevano poi il potere di rendere esecutive tali decisioni che erano considerate alla stregua di lodi arbitrali191.

Le corti socialiste non avevano invece nessun legame con il diritto religioso o con la tradizione ebraica e decidevano controversie pecuniarie sulla base dei principi della giustizia socialista: per un certo periodo, tra gli anni ’20 e ’30 furono molto attive192.

L’esistenza di corti autonome nell’ambito delle comunità ultra-ortodosse è invece un fenomeno da leggersi nell’ottica dell’opposizione avanzata da tali comunità nei confronti del Sionismo, anche di quello di carattere religioso. La comunità degli ebrei ultra-ortodossi era in prevalenza composta dai membri del vecchio yishuv, ovvero l’antica comunità ebraica esistente in Palestina anche prima del 1880; vi era comunque una vera e propria affiliazione a movimenti internazionali anti-sionisti come l’Agudath Israel. Tensioni tra sionisti ed anti-sionisti vi furono fin dall’inizio del Mandato

190 R.S

HAMIR, The Hebrew Law of Peace, cit., in R.HARRIS,A.KEDAR,P.LAHAV,A.LIKHOVSKI (cur.), The History and Law in a Multi-Cultural Society, cit., pag. 105 e ss. In realtà queste corti esistevano in Palestina fin dal 1909. Gli avvocati che vi operavano si vedevano come eredi diretti della gloriosa tradizione ebraica di creatività giuridica. Il diritto ebraico come applicato dalle corti rabbiniche era visto come fossilizzato, lettera morta. Si invocava la vera tradizione ebraica di aspirazione alla giustizia, all’equità, alla compassione ed alla verità nelle relazioni umane, liberi dalle catene della religione. Inoltre si riteneva che il vero spirito del diritto non fosse incorporato in un testo o nelle sentenze rabbiniche ma piuttosto che si fosse sviluppato e delineato nella comunità nel suo insieme. L’idea di base era che il popolo fosse il creatore del proprio diritto.

191 A. L

IKHOVSKI, Law and Identity in Mandate Palestine, cit., pag. 36. Il Governo britannico non riconobbe mai ufficialmente queste corti ma non le lasciò sfornite di una qualche forma di sostegno. Il Governo era infatti ansioso di lasciare la risoluzione di controversie civili ad organismi non governativi per ridurre il carico delle corti civili. Verso la fine degli anni ’20 tuttavia l’attività di queste corti rallentò, parallelamente all’affermarsi di una crescente fiducia nei confronti delle corti civili ufficiali. Nel corso degli anni ’30 queste corti ebraiche cessarono definitivamente di funzionare.

192

Per un’ampia disamina sulle caratteristiche e il funzionamento di queste corti in materia di controversie di lavoro si veda D.DE VRIES, The National Construction of a Workers’ Moral Community:

Nel documento Il diritto ebraico nello Stato di Israele (pagine 57-67)