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L’integrità territoriale ed il principio di non intervento

3 La Cina come mebro permanente del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite

3.4 I principi fondamentali che guidano la politica della Cina nel Consiglio di Sicurezza

3.4.2 L’integrità territoriale ed il principio di non intervento

Appare quanto mai scontato come, a causa di una visione della sovranità così ortodossa, la Cina sia sempre stata, in linea di massima, fortemente contraria ad ogni intervento delle Nazioni Unite su territori amministrati da stati sovrani che non ne danno esplicito consenso. A seguito della fine della Guerra Fredda si è però consolidata all’interno del Consiglio una prassi che tende ad interpretare in senso espansivo il Capitolo 7 dello Statuto che prevede un’ azione delle Nazioni Unite in caso di “minacce alla pace, alle violazioni della pace ed agli atti di aggressione”134, soprattutto in seguito allo sviluppo della dottrina della Responsability To Protect (R2P), della

134 Dottrina sviluppatasi negli ultimi anni nelle Nazioni Unite, si basa fondamentalmente

sull’idea che la Sovranità sia una responsabilità e non una prerogativa degli stati; questa responsabilità reca con se degli obblighi, che sono quelli di proteggere i civili dai crimini contro l’umanità e comporta per gli Stati Membri la responsabilità di agire, a costo di usare ogni mezzo possibile, per la tutela delle popolazioni coinvolte in questi crimini

Carla Contini. La vocazione internazionale della Cina.

Tesi di Dottorato in Scienze Politiche e Sociali. Università degli Studi di Sassari

quale si parlerà più avanti. Negli ultimi anni la Cina ha cercato di adattarsi a questa nuova realtà muovendo, non senza fatica, dalla rigidissima posizione di rifiuto di qualunque intervento ad un ammorbidimento delle sue posizioni, solo in determinati casi e solo qualora determinati requisiti in merito all’azione di intervento siano soddisfatti.

Tra i parametri fondamentali adottati dalla Cina al fine della valutazione degli interventi caso per caso troviamo sicuramente la protezione dei civili nei conflitti armati, la serietà della crisi umanitaria, il rischio di ripercussione e diffusione dei conflitti civili, eventuali minacce ad altri paesi coinvolti e relativi obblighi internazionali e soprattutto il consenso o meno dello stato all’interno del quale si dovrebbe intervenire.

Nelle sue dichiarazioni agli open debate del Consiglio sul tema “Protezione dei Civili nei Conflitti Armati” la Cina enfatizza il fatto che ogni eventuale azione intrapresa debba obbligatoriamente essere conforme con i principi e gli obiettivi dello Statuto135; i principi cui la Cina fa riferimento sono: la sovrana eguaglianza di tutti i membri136, l’astensione da parte degli Stati Membri dalla minaccia o dall’uso della forza, sia contro l’integrità territoriale che contro l’indipendenza politica di qualunque stato137, il fatto che nessuna disposizione autorizza le Nazioni Unite ad intervenire in questioni che appartengono essenzialmente alla competenza interna di uno Stato138. La posizione promossa dalla Cina è quella di stretta attinenza a questi dettami, possibilmente senza nessuna evoluzione dottrinale; quando nel 2001 la

135 Discorso dell’Ambasciatore Cinese presso le Nazioni Unite Li Baodong al “Security Council

Open Debate on Protectionof Civilians in Armed Conflict” del 9 Novembre 2011

136 Carta delle Nazioni Unite. Articolo 2 co.1 137 Carta delle Nazioni Unite. Articolo 2 co.4 138 Carta delle Nazioni Unite. Articolo 2 co.7

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Commissione Internazionale Sull’Intervento e la Sovranità Statale promossa dal governo canadese e dalle Nazioni Unite ha proposto di reinterpretare il concetto tradizionale di sovranità in favore di uno basato sulla “sovranità come controllo della sovranità come responsabilità” per aprire la strada alla dottrina della R2P, la Cina si è strenuamente opposta, dichiarando di voler continuare a basarsi sul concetto tradizionale di sovranità.

E’ quanto mai opportuno ricordare l’importanza che la questione di Taiwan ricopre per la Cina: la sua principale preoccupazione rimane infatti quella di tutelare la propria integrità territoriale assicurandosi che Taiwan non venga mai ed in nessun caso riconosciuto dalla comunità internazionale come uno stato indipendente; questa posizione appare evidente nella gestione dei primi voti, e veti nel Consiglio: difatti i primi tre veti posti dalla Cina erano relativi a Risoluzioni legate a stati (Bangladesh, Macedonia e Guatemala) che riconoscevano Taipei e non Pechino; il fatto che Taiwan fosse l’unico criterio di voto (o veto) appare evidente quando, dopo diverso negoziati col Gautemala, questo promette che non sosterrò più l’ammissione di Taiwan in assemblea Generale e la Cina permette l’approvazione anonima della Risoluzione in poco meno di 10 giorni.

Altro argomento sul Quale la Cina fa spesso uso di retorica all’interno del Consiglio è l’importanza del consenso dello stato ospitante prima dell’autorizzazione a qualunque intervento. La subordinazione al consenso è stata infatti la causa dell’astensione cinese quando nel Consiglio si è votata la Risoluzione 929 sulla missione umanitaria in Rwanda; anche la sua posizione sul Sudan denotava un chiaro rimando alla necessità di tutelare il principio della sovranità, a qualunque costo; infatti, nonostante avesse votato a favore della Risoluzione 1679, a seguito di quest’ultima aveva dichiarato, appellandosi al

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Capitolo 7 dello Statuto, che non avrebbe più supportato alcuna Risoluzione contro il Sudan a meno dell’ottenimento del consenso del governo sudanese a qualsiasi intervento nel proprio territorio; infatti nella Risoluzione 1706 sull’espansione della missione in Sudan si astenne poiché non si era riusciti ad ottenere il consenso dello stato ospitante.

Tuttavia, ci sono state delle situazioni che hanno visto la Cina vacillare in merito a questo requisito. La Risoluzione 1973 sulla Libia, nota per avere rappresentato la prima che prevedeva l’uso della forza senza il consenso dello stato ospitante, adottata in base alla nuova dottrina della R2P, aveva visto la Cina astenersi e non porre il veto. Presumibilmente si può pensare che il concetto di sovranità sostenuto dalla Cina fosse stato eroso dall’affermarsi della R2P, e che dunque questa avesse deciso di soprassedere al suo prerequisito del consenso; nel caso della Risoluzione 1703 la Cina aveva addirittura votato a favore dell’espansione del Mandato UNMIBH in Bosnia, nonostante il consenso delle parti coinvolte fosse inesistente; ancora nel 1992 la Cina giustifica il suo voto a favore dell’intervento in Somalia appellandosi alla non presenza formale di un governo somalo in quel momento139. Si potrebbe dunque pensare che giunta a quel punto del suo percorso nelle Nazioni Unite la Cina non considerasse più quello del consenso un requisito fondamentale.

Se si dovesse dunque cercare un pattern nelle scelte della Cina circa l’intervento si potrebbe assumere che , nei casi in cui ha supportato gli interventi delle Nazioni Unite, la Cina abbia sempre fatto in modo di mettere in evidenza la straordinarietà delle circostanze, così da evitare che qualunque voto favorevole andasse poi a creare un precedente; questo è piuttosto evidente nella

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dichiarazione cinese sull’intervento in Somalia del 1992 in cui si fa chiaro riferimento all’eccezionalità dell’azione data la situazione unica nel suo genere all’interno dello stato in questione140; ancora, nel 2006 si è astenuta in occasione della Risoluzione 1976 sul Sudan, ed ha commentato che, nonostante non avesse rimarcato le sue obiezioni con un veto, la sua astensione, ed il conseguente passaggio della Risoluzione, non avrebbero potuto costituire in nessun modo un precedente per eventuali prossime Risoluzioni del Consiglio sull’uso della forza in Sudan; nel 2011 inoltre, l’Ambasciatore Li Baodong ha espressamente sottolineato quali fossero le “speciali circostanze” che avessero portato all’astensione che aveva fatto passare la Risoluzione 1973 sulla Libia141. Appare quindi evidente come, questo puntuale richiamo all’eccezionalità delle situazioni che conducono agli interventi, sia volto a non lasciare nessuno spiraglio alla possibilità della creazione di un precedente.

Oltre che dal timore di stabilire precedenti le decisioni della Cina sull’uso del potere di veto sulle decisioni di intervento parrebbe mosso anche dalla paura dell’isolamento derivante dall’essere l’unico paese a porre il veto; questa affermazione appare più credibile quando la si confronta col fatto che la Cina non ha più lanciato un solo veto da sola fin dal 1999.

Considerato il suo potere di veto, si può asserire che, più che assicurarsi che l’uso della forza sia utilizzato solo se e quando autorizzato dal Consiglio, la Cina si assicuri più che altro che questo venga esercitato nei tempi e modi che lei stessa ritiene più opportuni.

140 id

141 Spiegazione del voto dell’Ambasciatore Li Baodong dopo l’adozione della Risoluzione

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3.5 Gli interessi strategici della Cina nelle Nazioni