• Non ci sono risultati.

L’origine dell’istanza antropologica

3. Dewey e l’antropologia culturale

3.1. L’origine dell’istanza antropologica

La formazione di Dewey e l’impronta neohegeliana

Il rapporto di Dewey con l’antropologia culturale è, come vedremo, molto stretto e insieme molto articolato: egli conosce e frequenta i maggiori antropologi statunitensi e molte delle sue opere hanno un contenuto antropologico, diretto o indiretto, molto evidente, come cercheremo di dimostrare. Ma la radice di una prospettiva convergente con quella antropologico-culturale risale probabilmente al suo hegelismo giovanile e ad alcune componenti hegeliane che sono rimaste sempre nel suo pensiero, anche dopo l’allontanamento dall’idealismo. Abbiamo visto d’altra parte nel par. 2.1 gli aspetti relativamente ai quali la filosofia hegeliana precorre alcuni importanti concetti dell’antropologia culturale.

Dewey si è formato filosoficamente alla scuola del neohegeliano George Sylvester Morris e rimane fedele all’idealismo fino all’inizio degli anni Novanta. Secondo la maggior parte dei critici, se ne allontana a partire dal 1891, ma il distacco vero e proprio inizia dal 1894, con il passaggio dall’idealismo assoluto a quello che lo stesso Dewey

definisce “idealismo sperimentale”8.

La peculiarità di questa espressione lascia però intendere una continuità, almeno relativamente ad alcuni motivi, con la formazione idealistica.

James Allan Good (2006) analizza il rapporto di Dewey con la filosofia hegeliana.

Nonostante l’approdo a un “empirismo naturalistico” (che è la negazione, sul piano metafisico, di qualsiasi forma di idealismo), due importanti motivi hegeliani, secondo Good, continueranno a percorrere l’intera opera di Dewey: il metodo dialettico e più in generale la concezione dialettica della realtà e del rapporto soggetto-oggetto; la nozione di “spirito oggettivo”, intesa come dimensione collettiva della coscienza individuale e come oggettivazione, nelle istituzioni, del sapere e dei valori umani.

Ricostruiamo i passaggi più significativi di questa analisi, sviluppata nel recente saggio A Search for Unity in Diversity. The “Permanent Hegelian Deposit” in the Philosophy of John Dewey, pubblicato nel 2006. L’espressione tra virgolette è usata dallo stesso Dewey nel saggio del 1930 From Absolutism to Sperimentalism, in cui sottolinea il proprio debito verso Hegel9. Dunque ancora nella tarda maturità Dewey è il primo a riconoscere un filo rosso hegeliano che attraversa tutta la sua produzione, nonostante il superamento senza ambiguità di ogni forma di idealismo10.

Il problema dell’influenza hegeliana su Dewey è ancora aperto. Si tende unanimemente

8 Con questa espressione Dewey sottolinea che noi arriviamo a conoscere costruendo attivamente l’oggetto della conoscenza, e che questa costruzione non avviene in una sfera mentale privata; essa riguarda un’azione manifesta, una sperimentazione». (v. The Study of Ethics: A Syllabus (1894), EW 4:

264. V. anche La ricerca della certezza, 1929).

9 «Nei quindici anni seguenti [dopo il 1891] m’allontanai da Hegel: “allontanai” esprime il lento e sulle prime impercettibile carattere del movimento che eseguii, ma non conferisce l’impressione che vi fosse una specifica ragione per spiegare il mutamento the s’operava in me. Nondimeno mi guarderei bene dall’ignorare, e tanto meno smentire, quello the uno fra i più fini dei miei critici ha avuto l’occasione di considerare come una scoperta, e cioè che la mia conoscenza di Hegel abbia lasciato un deposito permanente nel mio spirito. La forma, la schematicità, del suo sistema adesso mi sembra artificiale all’ultimo grado. Ma nel contenuto delle sue idee è spesso una profondità straordinaria, e in molte delle sue analisi, se tolte dalla loro custodia dialettica meccanica, un’acutezza altrettanto straordinaria. Se io potessi essere un devoto seguace di un sistema qualunque, crederei ancora che v’è maggior ricchezza e maggior varietà di discernimento in Hegel che in qualsivoglia altro filosofo sistematico». [Dewey 1930a, it.: 126-7]

10 Antonio Banfi avvicina il rapporto con Hegel di Dewey a quello della cosiddetta “sinistra hegeliana”, che ne conservò molti tratti superando però l’idealismo. Anche Dewey arriverà a «un rovesciamento di posizioni analogo a quello operato dalla sinistra hegeliana. Il sistema cessa cioè di far centro

ad ammetterla fino alla fine degli anni Ottanta, ma per il periodo successivo i suoi allievi diretti tendono a negarla, probabilmente poiché sono in genere di scuola analitica e considerano quindi l’idealismo come una filosofia mal costruita. Il saggio di Good (sviluppando alcune indicazioni già presenti in White, 1943) mette però in discussione questa lettura.

Dewey continua a scrivere su Hegel ben oltre gli anni Ottanta, mostrando in particolare molta attenzione verso la Fenomenologia dello spirito. Nel 1897 scrive un’analisi, non pubblicata, di quest’opera, in cui sottolinea l’attualità di Hegel piuttosto che la dimensione metafisica.

Secondo Good, Dewey ha modellato la sua teoria dell’indagine sulla dialettica hegeliana, in accordo con la quale le idee hanno significato sempre nell’azione e sono continuamente soggette a revisioni e sviluppi. Sia Hegel che Dewey hanno condannato la teoria psicologica delle facoltà e hanno considerato la mente come qualcosa che emerge attraverso l’interazione con un qualche ambiente.

Anche il naturalismo di Dewey conserva forti tratti hegeliani, che gli conferiscono anzi la propria specifica connotazione. Sottolinea Good:

«Un po’ più avanti in questo capitolo dimostro che la teoria hegeliana della causalità, sostanzialmente ancorata al suo olismo organicistico e alla sua visione dinamica della realtà, dava una curvatura particolare al naturalismo di Dewey. In primo luogo, l’aspetto olistico della visione hegeliana della causalità convinse Dewey che il metodo scientifico non deve essere riduzionistico; esso deve orientarsi a considerare l’esperienza nella sua totalità, inclusi gli elementi che erano spesso svalutati dai filosofi empiristi come meramente soggettivi. In secondo luogo, la teoria dialettica hegeliana della causalità spinge Dewey a considerare la spiegazione meccanicistica, basata sul nesso stimolo-risposta, del comportamento umano come una spiegazione semplicistica o comunque parziale di un processo più complesso. Infine, la teoria hegeliana della causalità previene Dewey dal cedere al determinismo scientifico che colpiva gli intellettuali del

nell’Assoluto, nell’Idea, per accentrarsi invece nell’uomo, considerato secondo la sua empiricità naturale,

tardo Ottocento, intellettuali come William James e John Stuart Mill, secondo i quali le cause ambientali sembravano determinare il comportamento, negando la libera volontà. Hegel aveva mostrato a Dewey che causa ed effetto sono strumenti che usiamo per razionalizzare l’esperienza, per conferire ad essa senso, e che è un errore pensare che queste categorie esistano prima dell’esperienza. Un altro modo di dire ciò è che la teoria dialettica della causalità sgombra il campo dalla concezione metafisica e lineare della causalità, conducendo Dewey a vedere la causa e l’effetto come categorie strumentali, che vengono meglio comprese come circolari quando raggiungiamo il livello della

«ragione», scorgendo il più ampio organico tutto di cui queste relazioni sono parte. Ciò consente a Dewey di evitare una concezione limitata dello strumentalismo come una modalità di analisi che tende efficientemente ai fini, ma senza riguardo per la moralità dei mezzi impiegati o una valutazione dei fini che dovrebbero essere ricercati.

La teoria hegeliana della causalità pone i fini e i mezzi in rapporto dialettico, in cui si influenzano reciprocamente e quindi devono essere entrambi valutati e riconsiderati. Potremmo dire che questa teoria della causalità sottolinea la psicologia e la filosofia dell’educazione di Dewey e né l’una né l’altra potrebbero essere comprese senza riconoscere ciò […].

In conclusione, Hegel non solo ha dato a Dewey un riferimento filosofico, ma la dialettica, che è evidente nella teoria hegeliana della causalità, gli ha offerto un importante metodo»11. (Good 2006: 182-3)

psicologica, sociale». (A. Banfi, in Dal Pra 1952: 18-9)

11 «A bit later in this chapter I argue that Hegel’s theory of causation, which was essentially rooted in his organic holism and dynamic view of reality, gave a peculiar rivist to Dewey’s naturalism. First, the holistic aspect of Hegel’s view of causation convinced Dewey that scientific method must not be reductive; it must address and seek to account for the whole of experience, including elements that were often devalued by empiricist philosophers as merely subjective. Second, Hegel’s dialectical account of causation inclined Dewey to view mechanistic, stimulus/response accounts of human behavior as simplistic or only partial explanations of a more complex process. Finally, Hegel’s theory of causation prevented Dewey from succumbing to the scientific determinism that plagued late nineteenth-century intellectuals such as William James and John Stuart Mill, according to which environmental causes seemed determinative of human behavior and denied free will. Hegel showed Dewey that cause and effect are instruments we use to rationalize, make sense of, experience, and that it is a mistake to assume that those categories exist prior to experience. Another way to state this is that Hegel’s dialectical theory of

La concezione hegeliana della causalità o, in termini più semplici, la dialettica hegeliana, sembra influenzare veramente, come sottolinea Good, l’intera opera di Dewey: su questa base egli supera, come vedremo, un’ottica di interazione tra soggetto e oggetto per definire il concetto di transazione, che indica un rapporto all’interno del quale sia il soggetto che l’oggetto si formano e vengono ad essere; gli stessi presupposti, applicati al rapporto tra gli individui, portano Dewey a considerare la comunità come parte della stessa coscienza individuale, riprendendo sostanzialmente la concezione hegeliana secondo cui l’individuo è un momento della totalità, cioè della struttura sociale di cui è parte; infine, sottolinea Good, questa prospettiva porta a definire uno stretto rapporto tra psicologia e pedagogia, perché la personalità si forma nel tessuto di interazioni con l’ambiente e con gli altri.

A questo punto diviene comprensibile l’importanza che assume in Dewey la nozione hegeliana di “spirito”, spogliata ovviamente di ogni dimensione metafisica.

Scrive a questo proposito Good:

«Il fine della filosofia dello spirito di Hegel, spiega Dewey, era l’auto-conoscenza, che dovrebbe sempre essere intesa come relativa alla comprensione di una cultura, poiché Hegel vedeva la realtà come un organismo che unificava in una totalità ragione e sentimento, uomo e natura e uomo e società. Questo organismo era Geist o spirito e Dewey accettò la nozione che il concetto hegeliano di spirito fosse un processo dinamico piuttosto che una sostanza immutabile: “spirito è solo ciò che fa”. Questa è un’altra forte indicazione che Dewey aveva abbracciato la lettura umanistico-storicistica di Hegel, seguendo la

causation undercut the metaphysical and linear conception of causation, leading Dewey to view cause and effect as instrumental categories best understood as circular when we rise to the level of Vernunft, seeing the larger organic whole of which these relationships are a part. This allowed Dewey to avoid a narrow conception of instrumentalism as a mode of analysis that pursues ends efficiently, but without regard for the morality of the means employed or evaluation of the ends that should be sought. Hegel’s theory of causation places means and ends in a dialectical relationship, in which both constantly affect one another and thus must both be continuously evaluated and reevaluated. As we shall see, this theory of causation underlies Dewey’s psychology and philosophy of education, and neither can be understood without recognizing this […].In sum, Hegel not only gave Dewey a process philosophy, but the dialectic, which is evident in Hegel’s theory of causation, gave him a very rich model of process».

quale lo spirito è l’umanità nel suo sviluppo piuttosto che un Dio trascendente.

In un punto della sua lettura, Dewey introduce un’interpretazione darwiniana del Geist, descrivendolo come “il processo stesso dell’evoluzione, al di fuori da ciò che ogni specie o individuo divengono, e dietro a ciò che divengono.” Egli arriva a scrivere che “i diversi esseri umani possono essere visti semplicemente come molteplici accidenti o qualità nei quali il processo unitario della vita si è differenziato durante l’evoluzione”»12. (Good 2006: 194)

Lo spirito diviene in Dewey una dimensione immanente all’umanità e da intendere in senso naturalistico, ma definisce, come in Hegel, la dimensione collettiva e oggettiva delle dinamiche individuali. In questa prospettiva, Dewey affronta la questione dell’etica e dei valori, negandone l’identificazione con la coscienza del singolo.

Valenze hegeliane in campo etico

Riprendendo una critica analoga mossa da Hegel a Kant, Dewey critica il concetto di

«perfezione etica» affermato in quegli anni dal filosofo britannico Thomas Hill Green (del cui pensiero condivideva d’altro canto molti aspetti), sostenendo che in questo modo si pone la realizzazione etica in un mondo separato da quello reale.

«Dewey identifica ancora l’ideale morale con un “sé unificato”, ma a partire dai primi anni Novanta questo sé non è più distinto metafisicamente dagli individui particolari.

Nell’articolo “Self-Realization as the Moral Ideal”, egli affermò che Green aveva ipostatizzati l’io concreto, individuale, e quello ideale, unico, come due entità separate,

12 «The goal of Hegel’s philosophy of spirit, Dewey explained, was self-knowledge, which should always be understood as including under standing of one’s culture, because Hegel viewed reality as an organism that united in a totality reason and feeling, man and nature, and man and society. This organism was Geist or spirit and Dewey accepted the notion that Hegel’s concept of spirit was a dynamic process rather than an unchanging substance: “spirit is only what it does.” This is another strong indication that Dewey had embraced the humanistic/historicist reading of Hegel, according to which spirit is humanity in its development rather than a transcendent God. At one point in the lecture, Dewey put a Darwinian spin on Geist, describing it as “the process of evolution itself out of which every species of individual comes, and back into which it goes.” He went on to write that “different human beings” can be seen “simply as so many accidents or qualities into which the one substantial process of life has differentiated itself during its evolution».

mentre in realtà erano semplicemente due tappe funzionali dell’intuizione morale»13. (Good 2006: 159)

Dewey propone di considerare il sé come una realtà pratica e attiva, comprendente sia il sé realizzato che quello ideale. Dewey critica anche il neoidealismo di Bradley. «La teoria morale – afferma Dewey – è la “costruzione dell’atto nel pensiero” e “la condotta è l’intuito messo in pratica»14. (Good 2006: 160)

Ogni condotta è inizialmente una teoria che poi viene interiorizzata e diviene atteggiamento inconscio. Si pensi a quanto avviene quando il bambino impara a camminare: inizialmente compie atti intenzionali guidati da una teoria (in modo intenzionale: pensa a come muovere i piedi e a come mantenere l’equilibrio), alla fine lo fa in modo automatico. Lo stesso avviene per il comportamento morale, che viene interiorizzato e diviene parte del nostro modo di essere.

Le regole morali, sottolinea Good, a differenza delle abitudini motorie, non sono però rigide. Una regola morale tipo: “Non devo mentire” non indica un comportamento specifico, ma mi serve per risolvere conflitti comportamentali nel momento in cui sorgono. Ma l’individuo è in grado di tradurre in pratica le norme astratte solo all’interno di un contesto di vita. «In altre parole, l’individuo veramente morale è in grado di dare un contenuto alle regole morali astratte se […] è stato formato in una pratica, in un modo di vita. Per dirla in termini hegeliani, per Dewey, gli individui possono applicare le regole morali a situazioni concrete solo se sono stati acculturati in una Sittlichkeit [Eticità, ambiente etico]»15. (Good, 2006: 161)

La “lettura” del 1897

Nelle sue opere pubblicate, Dewey parla poco di Hegel. Ha lasciato, però, un

13 «Dewey still identified the moral ideal as a “unified self,” but by the early 1890s that self was no longer metaphysically distinct from particular individuals. In “Self-Realization as the Moral Ideal,” he claimed that Green had hypostasized the realized, partial self and the ideal, unified self into separate entities, when in fact these were simply two functional stages of moral insight».

14 «Moral theory, claimed Dewey, is the “construction of the act in thought” and “conduct is the executed insight».

15 «In other words, the truly moral individual is able to give content to abstract moral rules if […] he has been trained in a practice, a way of life. To restate this in Hegelian language, for Dewey, individuals can apply moral rules to concrete situations only if they have been acculturated in a Sittlichkeit».

dattiloscritto di 103 pagine, preparato per un corso (una “lettura”) che tenne nel 1897. Il dattiloscritto dimostra che Dewey conosceva a fondo l’opera di Hegel e che si occupava ancora della sua filosofia nel 1897, cioè quando aveva 38 anni.

In queste pagine, Dewey definisce Hegel “un grande attualista” (a great actualist), nel senso che non nega la realtà empirica per affermarne una ideale, ma la valorizza individuando l’aspetto ideale nella razionalità stessa del reale. Con queste premesse, presta sempre grande attenzione alla realtà storica.

Dewey sottolinea che l’identità di reale e razionale equivale a un invito all’azione, alla comprensione del razionale nel reale per agire in esso. Egli ricostruisce in questa chiave la filosofia della storia di Hegel, sottolineando come ruoti intorno al concetto di Eticità (Sittlichkeit), che promuove l’unificazione dell’individuo con la società.

«Tutti i lavori teorici di Hegel ruotano intorno a questo problema pratico, il problema di come sia possibile una vita naturale libera; come un uomo può vivere come un tutto, senza subordinarsi a un’autorità esterna né sfuggire a una dimensione esteriore, ritirandosi nel suo sentimento privato o nella regione delle astrazioni intellettuali»16. (Good, 2006: 193) Hegel esalta l’eticità della polis greca perché in essa la dimensione interiore e quella pubblica coincidevano; il protestantesimo luterano ha separato queste due sfere ed è posto da Hegel all’origine della scissione che caratterizza l’età moderna.

Dewey sottolinea l’importanza dell’eticità come stadio superiore della moralità, come moralità concretizzata. In essa si unificano individualità e universalità. «L’individuo – scrive Good commentando Dewey – non è pienamente realizzato quando si conforma alla legge universale – come avviene per l’imperativo categorico di Kant – ma soltanto quando egli è uno con la legge universale»17. (Good 2006: 204) Potremmo tradurre dicendo che l’individuo si realizza moralmente interiorizzando la legge universale, cioè le norme del proprio tempo e del proprio popolo. Vedremo più avanti in chiave antropologica questo elemento, che non è relativismo ma storicismo, caratteristico della

16 «All of Hegel’s speculative work grew out of this practical problem, the problem of how a free natural life is possible; how a man can live as a whole, neither surrendering himself to a fixed external authority, nor in his desire to escape this external something, retiring into his own private feelings or into a region of intellectual abstractions».

17 «The individual Will is not fully realized when it conforms to universal law -such as Kant’s categorical imperative – but only when it is one with universal law».

filosofia hegeliana. Che l’universalità di cui parla Hegel sia storica e non assoluta, è chiarito dallo stesso Dewey: «La volontà si esprime compiutamente soltanto quando si realizza nelle istituzioni concretamente esistenti e quando queste istituzioni sono così strettamente legate con le finalità dell’individuo che gli forniscono moventi concreti».

«Queste istituzioni – commenta Good – hanno un’influenza formativa sugli individui, insegnano loro che “il loro vero interesse è pubblico piuttosto che privato”, che il loro interesse, “non è contrapposto, ma unito a quello degli altri”. Dewey sostiene che Hegel considera ciò particolarmente vero nella moderna società civile, in cui il lavoro è specializzato per conseguire una maggiore efficienza, in modo che “l’appagamento di ognuno viene a dipendere dal lavoro degli altri”. In società simili, “gli individui sono uniti insieme mediante dipendenze reciproche.” Per questa ragione, gli individui non dovrebbero cercare di soddisfare soltanto se stessi, ma dovrebbero lavorare “per la soddisfazione della società come un tutto.” Nei termini di Dewey, “l’essenza della società civile è che l’individuo potrà soddisfare il proprio interesse privato contribuendo al soddisfacimento di altri producendo ricchezza,” che Hegel considerava come sociale,

“come distinta dalla mera proprietà,” che Hegel considerava come individuale»18. (Good 2006: 204. Le citazioni sono relative a Dewey, Hegel’s Philosophy of Spirit) Concludendo, Good cita un passaggio del 1939, in cui Dewey sostiene di essere stato influenzato “dall’idea hegeliana delle istituzioni come una mente oggettiva da cui dipendevano gli individui”, ma di aver rifiutato la nozione di “mente assoluta”. Molti critici citano questa frase per sottolineare come Dewey abbia completamente abbandonato l’idealismo hegeliano, ma secondo Good – e non possiamo non concordare con lui – essa indica semplicemente “il rifiuto di una lettura metafisica di Hegel, in favore di una lettura storicistica in cui l’assoluto non è trascendente rispetto alla realtà”.

18 «These institutions have an educative influence on individuals, teaching them that their “true interest is public rather than private” that their interests are “not hostile to, but one, with that of others”. Dewey argued that Hegel understood this to be especially true in modern, civil society in which labor is specialized for the sake of efficiency, so that “the satisfaction of each is made dependent upon the labor of others.” In such a society, “individuals are knit together through their mutual dependencies,” For this reason, individuals should not seek to satisfy only themselves, but should labor “for the satisfaction of society as a whole.” In Dewey’s words, “It is the essence of civil society that the individual will ... can [only] satisfy [its] private interests by contributing to the satisfaction of others by producing wealth,”

which Hegel viewed as social, “as distinct from mere property,” which Hegel viewed as individual».

(Good, 2006: 207).

I rapporti di Dewey con l’idealismo hegeliano sono ricostruiti anche da Morton G.

White nel saggio The Origin of Dewey’s Instrumentalism (1943). Egli sottolinea in particolare, tra i principali motivi di continuità, «l’attivismo, l’organicismo, e l’opposizione al formalismo e al dualismo» (White, 1943: 111).

Secondo White, il superamento dell’idealismo è mediato dalla formula deweyana dell’idealismo sperimentale, espresso a partire dal saggio The Study of Ethics. A Syllabus, pubblicato nel 1894. D’altra parte, nei decenni a cavallo del secolo si diffonde negli USA la tendenza ad elaborare una nuova filosofia fondendo alcuni elementi dell’idealismo con tratti più empirici e riconducibili alle scienze sperimentali. È una strada che Dewey percorre, inizialmente, insieme a George Mead19 e riferendosi all’idealismo dinamico di Alfred Lloyd. L’idea centrale di questa teoria è l’apertura del soggetto al mondo. Il sé non si definisce isolatamente, ma attraverso il suo rapporto con il mondo, mediante un processo di adattamento al mondo. Si tratta, però, di un adattamento reciproco, perché il soggetto, adattandosi al mondo, adatta anche il mondo a sé: questo rapporto dialettico è appunto il fondamento dell’idealismo dinamico di Lloyd (cfr. White, 1943: 114).

White ricostruisce il nucleo dell’argomentazione di Lloyd, che afferma l’unicità di ogni oggetto nelle sue relazioni con l’ambiente in cui è situato, negando la possibilità di classificare gli oggetti in classi sulla base delle loro qualità. Il rosso di questa rosa, afferma Lloyd, è unico ed è diverso dal rosso di ogni altra rosa, o di un tavolo, o di ogni altra cosa rossa. Questa qualità fa parte del suo modo di essere che è unico (è interessante la consonanza tra questa posizione e le critiche di Boas al metodo comparativo, con la rivendicazione dell’unicità di ogni cultura e dei tratti che la caratterizzano, che non possono essere astratti dalla storia e dalla situazione concreta e generalizzati a scopo classificatorio).

19 George Herbert Mead (1863-1931) insegnò filosofia all’università di Chicago, occupandosi soprattutto di studi psicologico-sociali. Collega di Dewey, ebbe con lui rapporti di collaborazione. Le sue opere più importanti (tra le quali Mente, Sé e società, 1934 e La psicologia sociale, 1956), sono state tutte ricavate da appunti inediti.