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Le principali teorie etiche nella valutazione di Dewey

La morale è un fatto culturale, sostanziandosi in un sistema di atteggiamenti che regola la vita di una comunità e viene interiorizzato dai suoi membri. Nella morale consuetudinaria, quindi, non si pone la questione di quali siano i fini dell’azione dell’individuo, dato che essi sono predeterminati dalle abitudini e dalle istituzioni preesistenti. L’individuo può anche agire diversamente, ma avrà la coscienza di agire male e sarà esposto al biasimo e alle punizioni degli altri o della divinità. Quando invece le risposte tradizionali si rivelano inefficaci, è necessario cercarne altre, e allora prendono maggiore spazio la riflessione e la ricerca di nuovi princìpi. Nuove teorie etiche, “nuove tavole dei valori”, per citare Nietzsche, sorgono nei momenti di trasformazione sociale.

Analizzando le diverse teorie, Dewey si muove lungo un filo conduttore unitario:

dimostrare che i dualismi e le contrapposizioni su cui spesso sono basate, risultano a uno sguardo più attento soltanto apparenti e possono essere superati se guardiamo la realtà da un punto di vista dialettico (il riferimento a Hegel risulta sempre presente).

Molti filosofi, in particolare, hanno contrapposto desideri e ragione; in realtà, nessuna idea e nessun oggetto possono produrre l’azione se non sono radicati in bisogni che danno loro una spinta emotiva. Altrimenti restano idee astratte. Il vero oggetto di un giudizio morale è l’unione tra il pensiero e un determinato desiderio, tra un impulso e la riflessione razionale. Questi due lati della questione sono stati sviluppati indipendentemente l’uno dall’altro da teorie etiche contrapposte, l’edonismo e l’utilitarismo da un lato, la morale del dovere dall’altro.

Dewey critica la teoria che identifica il bene con il piacere (edonismo), anche nella forma più articolata e sofisticata rappresentata dall’utilitarismo. Secondo Stuart Mill il desiderabile è ciò che viene effettivamente desiderato, così come è visibile ciò che viene visto da qualcuno. Dewey obietta che seguendo questo criterio quasi tutto è desiderabile perché quasi in ogni caso esiste qualcuno che desidera una cosa. “Desiderabile” è invece ciò che, in modo impersonale, viene ritenuto degno di essere desiderato.

Anche la teoria secondo cui la scelta è determinata da un calcolo del rapporto tra piacere e sofferenza si presta a critiche. Ad ognuno piace infatti fare ciò in cui riesce e che gli interessa: per un tennista sarà piacevole giocare a tennis e per uno scienziato fare ricerca. Ma allora passiamo dal valore intrinseco della singola azione al valore che deriva ad essa dal carattere e dalle disposizioni generali dell’individuo. «I piaceri e le pene cui ognuno mira – sottolinea Dewey – sono quelle in accordo con il suo carattere attuale». (LW 7: 194)

La conclusione di questa analisi è che il piacere accompagnato dalla riflessione è diverso da quello senza riflessione. Stuart Mill ha introdotto l’idea di una differenza nella qualità tra i piaceri e non solo nella quantità o intensità, come l’edonismo precedente. In particolare, la soddisfazione dell’intero sé (il fine della morale) è ben diversa dal soddisfacimento di un singolo appetito, e questa nuova prospettiva viene considerata con molto interesse da Dewey.

Andando ancora oltre, e richiamandosi ad Aristotele, Dewey propone di distinguere tra il piacere e la felicità, il “ben-essere” denominato dai Greci eudaimonia. Ma in questo senso, felicità è realizzazione della propria natura, di ciò che si è: uno stato di cose produce benessere o meno in relazione al modo di essere di una persona. Torniamo quindi all’etica come manifestazione del carattere, delle disposizioni, non solo dal punto di vista causale (come motore dell’azione), ma anche come finalità: agire bene significa in definitiva agire in modo da realizzare se stessi per quello che si è.

Potremmo aggiungere una considerazione che si preciserà in ambito antropologico: dato che in quello che si è c’è una componente culturale, quindi una base comune, “agire bene” è di solito in larga misura condiviso e l’etica va quindi oltre la dimensione individuale, situandosi in quella comunitaria e forse – ma ne parleremo più avanti – per certi aspetti universale.

Se questa analisi è fondata, allora fatti accidentali che provocano piacere o sofferenza non possono di per sé avere una valenza morale. La felicità è una disposizione stabile perché non dipende da eventi accidentali, ma dal modo di essere del sé. Di conseguenza, essa non è un fine nel senso di un obiettivo da raggiungere, ma è piuttosto un prodotto finale, il risultato di ciò che siamo diventati, che determina il nostro modo di interpretare la vita e di reagire ad essa.

Dopo aver considerato le “etiche del piacere”, Dewey passa in rassegna quelle basate sul dovere (etiche deontologiche), prendendo come punto di riferimento principale la morale kantiana.

Le teorie esposte nel capitolo precedente, pur nella loro diversità, riguardano il bene, inteso come soddisfacimento di un desiderio o di un bisogno, come fine dell’azione. Ci sono tuttavia altri fattori che possono essere considerati nella morale, in primo luogo il dovere e ciò che è giusto fare in quanto tale. Le teorie che sottolineano questa componente non considerano i beni come componenti della morale (anzi, se intesi come soddisfacimento dei desideri li considerano contrari alla morale) e riconoscono invece il bene come conformità della volontà con ciò che è giusto, con la ragione.

Alcuni sostengono che il contrasto non è tra il bene e il giusto, ma tra un bene e uno superiore, dato che la legge rappresenta un bene sociale che è superiore a quello privato.

In genere, il concetto di “giusto” è considerato indipendente da quello di soddisfazione e di bene.

Queste teorie considerano il Giusto come il Bene morale per eccellenza, completamente separato da ogni desiderio naturale. Anzi, spesso la morale si afferma proprio come risultato del Giusto contro il piacere o contro tutto ciò che è riferibile in generale alla

“sensibilità”.

La formulazione più coerente della teoria del dovere è dovuta a Kant e può essere riassunta dalla frase: “il concetto di bene e di male non deve essere determinato prima della legge morale, ma solo dopo essa e tramite essa”. In Kant il dovere si contrappone al desiderio, presentandosi come l’universale contrapposto all’individuale.

Riprendendo l’analisi svolta sopra sui motivi e sulle conseguenze, Dewey sottolinea come la morale kantiana sia legata ai motivi, alle intenzioni, e non alle conseguenze o all’utilità, individuale o sociale, dell’atto. Passa poi ad analizzare le diverse caratteristiche della morale kantiana: il formalismo, l’autonomia, l’indipendenza dalle circostanze empiriche, ecc.

A Kant, Dewey rimprovera di aver trascurato che il soggetto della morale è un sé storicamente determinato, anche se riconosce che la prospettiva kantiana è particolarmente interessante nelle circostanze attuali, caratterizzate da veloci

cambiamenti che suscitano l’esigenza di princìpi stabili. Ma la soluzione consiste nel rendere più stabile e orientata verso valori morali più saldi la dinamica sociale.

«Nella parte conclusiva della nostra discussione sul bene e sulla saggezza morale – scrive Dewey -, abbiamo sottolineato che i diversi ambienti sociali agiscono in modo veramente diverso nel costruire la facoltà di giudizio pratico.

La stessa cosa vale, forse in grado ancora maggiore, per la relazione tra le istituzioni sociali e lo sviluppo della lealtà, della fedeltà, del giusto. Ci sono istituzioni sociali che promuovono la ribellione o almeno l’indifferenza. Alcune tendono a produrre una lealtà falsa, convenzionale o ipocrita. Questo avviene quando il timore della sofferenza per chi non si adatta è la variabile principale.

Alcune condizioni sociali formano un’accettazione esteriore del dovere a scapito di una capacità individuale di giudicare sui fini e sui valori. Altre condizioni inducono la gente a riflettere su ciò che è veramente giusto, e a creare nuove forme di obbligazione. Oggi, senza dubbio, la scena sociale è così complessa e così soggetta a cambiamenti veloci, che il suo effetto è di confondere. È difficile trovare un qualche metro con cui misurare la condotta. Di conseguenza, la richiesta di una moralità genuinamente riflessiva, basata sul pensiero critico, non è mai stata così grande. Questa è quasi l’unica alternativa da un lato alla deriva morale, dall’altro all’accettazione acritica di codici di obbligazioni fondati uni-camente sul costume e sulla tradizione. [...] Dato che il cambiamento è dovuto all’alterazione delle condizioni, le nuove forme di illegalità e la perdita di valori non possono essere superate mediante un generico appello al senso del dovere o alla restaurazione di una legge interiore. Il problema è di sviluppare nuove stabili relazioni nella società dalle quali possano derivare in modo naturale doveri e impegni morali»123. (LW 7: 233-4)

123 «In the final part of our discussion of the Good and moral wisdom, we noted that different social environments operate very differently in building up the power of good practical judgment. The same thing is true, and perhaps in even a greater degree, of the relation of social institutions to fostering loyalty, faithfulness, to the Right. There are social institutions which promote rebellion or at least indifference.

Some tend to produce a specious, a conventional, or even hypocritical, loyalty. This happens when fear of suffering if one does not conform, is the leading consideration. Some social conditions foster external