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6. La concezione dell’uomo e il rapporto

oggetto già dato oppure la produzione dell’oggetto del sapere da parte del soggetto (idealismo). La tesi di Dewey è che il sapere è costruzione a partire da materiali esistenti, come fa il carpentiere quando costruisce una casa utilizzando i materiali esistenti in natura, ma trasformandoli. Trasformando le cose, l’uomo le conosce e al tempo stesso la sua mente deve adattarsi alle caratteristiche delle cose per poter interagire con esse.

Non ripercorreremo ovviamente tutta la complessa articolazione dell’opera, soffermandoci invece sugli aspetti che interessano più direttamente i rapporti con l’antropologia. A questo proposito, prima di affrontare la questione della «ricostruzione delle concezioni morali» che costituisce il cuore di tale rapporto, è opportuno soffermarci sul ruolo che Dewey assegna in generale alla filosofia. Guardando alla storia del pensiero filosofico, bisogna a suo parere superare la concezione secondo cui si tratta di un sapere scientifico immaturo. Dietro le grandi domande sulla realtà, dietro le cosmologie e alle teorie metafisiche, ci sono «scopi sociali e aspirazioni» (Dewey 1920, it.: 47), dietro le teorie generali «vediamo degli uomini riflettere su e decidere come vorrebbero che fosse la vita, e i fini ai quali vorrebbero che gli uomini umani indirizzassero le proprie attività intellettive». (Ibidem)

Così considerata, la storia della filosofia cambia significato, ma la filosofia assume una funzione nuova, di critica e di razionalizzazione del cambiamento, per il futuro.

«Chiunque arrivi a questa visione della filosofia passata arriverà per forza a una chiara concezione dell’ambito e dello scopo del filosofare futuro. Sarà inevitabilmente del parere che da questo momento la filosofia deve essere apertamente e deliberatamente ciò che è stata senza volerlo né intenderlo, per così dire clandestinamente. Quando avrà riconosciuto che con il pretesto di occuparsi della. realtà suprema, la filosofia trattava dei valori preziosi incastonati nelle tradizioni sociali, che è nata da uno scontro tra diversi scopi sociali, e tra le istituzioni tramandate e le tendenze incompatibili della sua epoca, saprà che il compito della filosofia futura è di chiarire le idee degli uomini sui conflitti sociali e morali del loro tempo, di diventare per quanto umanamente possibile un organo per affrontarli. Ciò che appare pretesa irrealistica quando è formulato

attraverso cavilli metafisici diventa di immensa portata quando si collega alla lotta drammatica tra credenze e ideali sociali. La filosofia che abdicherà al proprio sterile monopolio sulla realtà suprema e assoluta illuminerà in compenso le forze morali che muovono l’umanità e contribuirà alle nostre aspirazioni a una felicità più ordinata e intelligente». (Dewey 1920, it.: 48)

La filosofia è stata in passato espressione implicita della visione del mondo di una società o di una classe sociale; può diventare l’espressione cosciente dei valori e delle aspirazioni per migliorare la realtà.

Questo “migliorismo” riguarda anche l’ambito morale. Così come in filosofia dobbiamo rinunciare alla metafisica145, in ambito morale occorre eliminare la questione del «bene supremo» e di ogni fondazione assoluta. Ci sono comunque beni relativi tra cui scegliere. Su quale base possiamo scegliere? Partendo, come per tutti gli altri ambiti della filosofia, dall’indagine, dalla ricerca.

«La morale non è un catalogo di atti né un complesso di regole da applicare come le prescrizioni del droghiere o le ricette del libro di cucina. Ciò che si richiede in morale son metodi specifici di ricerca e d’invenzione: di ricerca, per localizzare difficoltà e mali, d’invenzione, per formar piani da usare come ipotesi di lavoro nel trattar con essi. E il significato pragmatico della logica delle situazioni individualizzate, avente ognuna il suo bene e il suo principio insostituibili, è di spostare il centro della teoria dalla preoccupazione dei concetti generali al problema di sviluppare efficaci metodi di ricerca». (Dewey 1920, it.:

147)

145 È questione ancora dibattuta se sia corretto o meno parlare di rifiuto della metafisica da parte di Dewey. Dal Pra sottolinea come il rifiuto della metafisica sia parte organica dell’impostazione filosofica di Dewey. La metafisica deriva infatti, secondo Dewey, da una concezione della conoscenza secondo la quale essa è «teoretica e intrinsecamente autosufficiente» (Dal Pra 1952: 27), mentre per lui la teoria è strettamente legata alla prassi e la conoscenza rimanda costantemente al piano empirico e alla ricerca. «È il principio – nota Dal Pra – che Dewey indica come “continuità dell’indagine”; ovviamente i dati esistenziali dell’indagine mutano, ad ogni passo la scena del mondo è diversa; eppure l’indagine continua, nel senso che non si vede la possibilità di un venir meno logico di essa» (Dal Pra 1952: 31) Proprio la concezione della filosofia come indagine esclude in modo programmatico, conclude Dal Pra, la metafisica, anche se occorre notare che questa stessa posizione non sfugge a un certo dogmatismo, che però soltanto artificiosamente potrebbe essere a sua volta considerato “metafisico”.

Una morale basata sulla ricerca presuppone che si possa riconoscere e stabilire ciò che è peggio e ciò che è meglio. Anche se non esistono norme universali e ogni decisione etica è la risposta a un problema, l’umanità avanza complessivamente verso norme sempre più affidabili e valide. La morale quindi non è assoluta ma neppure relativa.

Cioè, le scelte sono sempre relative a situazioni, ma i criteri che ci guidano sono sempre più avanzati e adeguati. Il migliorismo è valido sia per l’umanità nel suo insieme, sia per ogni singola comunità. Scrive Dewey: «Nessun gruppo o individuo sarà giudicato dal fatto che abbia ottenuto o meno un risultato stabilito ma dalla direzione che ha preso. Il cattivo è l’uomo che, non importa quanto sia stato buono, è peggiorato, è diventato meno buono. Il buono è l’uomo che, non importa quanto sia stato immeritevole, sta muovendosi per diventare migliore». (Dewey 1920, it.: 151) Il

“bene”, in definitiva, non consiste né nel piacere né nell’utilità, ma nella crescita continua, nel miglioramento, e la filosofia può contribuire a questo processo.

Il miglioramento, però, avviene sempre in una situazione data e ad opera di individui che sono anch’essi dati, formati da idee e da valori in gran parte collettivi. Accanto a una dimensione creativa dell’etica, accanto al contributo attivo che ognuno può dare per modificare l’esistente, Dewey sottolinea la continuità data dal fatto che ogni soggetto si forma con gli altri in un contesto socialmente e storicamente determinato e determinante.

«La vera difficoltà – conclude Dewey – è che l’individuo viene considerato come dato, come già qui.» (Dewey 1920, it.: 163) Di conseguenza ci si chiede come si può accrescerne il piacere e il benessere, come la società può aumentare (è la posizione dell’utilitarismo) la felicità collettiva e individuale. In realtà, le leggi e le istituzioni

«non servono a procurare alcunché agli individui, nemmeno la felicità, bensì a creare degli individui. Soltanto nel senso fisico dei corpi che i sensi percepiscono come separati, l’individualità è un dato originario; in senso sociale e morale è qualcosa da forgiare. Significa iniziativa, inventiva, ingegnosità, assunzione di responsabilità nella scelta delle credenze e della condotta. Questi non sono talenti ricevuti, ma conseguimenti. Come tali, non sono assoluti, ma relativi all’uso che se ne fa, un uso che varia con l’ambiente.» (Dewey 1920, it.: 164)

La psicologia e la pedagogia, che Dewey conosce bene, hanno messo in chiaro come si

forma l’identità personale, che non è una condizione data alla nascita, ma il risultato di un processo articolato. Tale processo è di natura essenzialmente sociale e culturale. I valori morali preesistono all’individuo, che li interiorizza e può poi, nella migliore delle ipotesi, confrontarsi con essi e interrogarsi sulla loro validità, ma a partire da essi, che ne costituiscono ciò che chiamiamo “coscienza”.

È possibile una sintesi tra il migliorismo, che presuppone un ruolo attivo degli individui per cambiare se stessi e la società, e la dimensione culturale della personalità, per cui ogni individuo è formato dai valori e dalle norme della comunità di cui è membro?

Dewey la indica nelle pagine conclusive: cambiare la società per cambiare gli individui e viceversa, in un processo che vede l’ambiente sociale e i singoli individui come momenti di un unico processo.

«Ma quando il sé è percepito come un processo attivo, anche i cambiamenti sociali sono visti come gli unici mezzi per modificare la personalità. Le istituzioni sono considerate per i loro effetti educativi, per i tipi di individui che allevano. L’interesse per il miglioramento sociale del singolo e l’interesse sociale per una riforma obiettiva delle condizioni economiche e politiche coincidono, l’indagine sul significato degli ordinamenti sociali prende senso.

Siamo condotti a chiederci quale sia il particolare potere di stimolare, crescere e accudire di ciascun ordinamento. La vecchia separazione tra politica e morale viene abolita alla radice.» (1920, it.: 164)

Si tratta di un passo molto importante. È alla base sia della prospettiva antropologica di Dewey, sia della sua concezione pedagogica e sociale. E, come conseguenza, spiega anche perché l’impegno sociale debba essere considerato una questione prioritaria dall’individuo.