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Abbiamo conservato come titolo di questo paragrafo quello dell’ultimo capitolo della seconda parte dell’opera (che riprende e approfondisce un analogo capitolo dell’Ethics del 1908), perché è particolarmente significativo e rappresenta un primo punto di arrivo dell’analisi di Dewey. Il soggetto della morale è il soggetto autocosciente, il sé, cui si è accennato nei parr. 4.5.2 (L’Ethics del 1908) e 4.5.5 (L’Ethics del 1932) e che Dewey mutua dalla teoria psicologico-sociale dell’amico George Mead. Esso è stato variamente inteso: Kant ne fa il fondamento della morale, mentre l’utilitarismo lo pone in secondo piano occupandosi delle conseguenze dell’azione piuttosto che di chi la compie. Dewey intende superare questo dualismo, considerando ugualmente importante il sé e le conse-guenze. La sua tesi di fondo, già implicita nelle analisi precedenti, è che le conseguenze rivelano il sé e il sé produce certe conseguenze perché è in un certo modo, a parte situazioni accidentali che non sono comunque significative. Ogni scelta rivela il sé esistente e forma il sé futuro. È una tesi importante da più punti di vista: la morale,

133 Hickman e Alexander riassumono bene questa posizione: «Dewey rifiuta sia il relativismo estremo (il punto di vista secondo cui le valutazioni morali sono strettamente convenzionali o arbitrarie) sia l’assolutismo morale (la convinzione che un codice morale uniforme possa valere per ogni tempo e spazio). È compito di ogni generazione, argomenta, quali princìpi sono rilevanti in quella particolare situazione». «Dewey rejects both extreme moral relativism (the view that moral valuations are strictly conventional or arbitrary) and moral absolutism (the view that a uniform code of morals can be established for all times and places). It is the duty of each generation, he argues, to determine what principles are relevant to its particular situation». (Hickman e Alexander 2002: XII). In altri termini, secondo Dewey, ci sono valori validi in tempi e luoghi determinati e per chi li vive non sono affatto relativi, anche se da un punto di vista più generale (studiandoli dall’esterno, potremmo dire) non possiamo considerarli assoluti.

come abbiamo già visto, dipende da come si è e il comportamento non è che una naturale conseguenza della personalità; la stessa personalità, però, in un modo quasi bergsoniano, si forma mediante la sua azione. Agendo scegliamo noi stessi, scegliamo che cosa essere. Dewey sembra quasi anticipare la famosa tesi di Sartre secondo cui nell’uomo l’esistenza precede l’essenza, e d’altra parte una prospettiva simile era stata già stata indicata da George Mead, con cui Dewey aveva avuto modo di collaborare per un lungo periodo.

Mead sostiene che la mente e l’io non sono realtà precostituite ma emergono dalla comunicazione e dai rapporti interpersonali. Nella dinamica sociale dalla quale ha origine la mente, Mead individua tre polarità: il Me, l’Io e il Sé. Il Me è l’individuo così come è regolato dalle norme sociali, l’insieme degli aspetti convenzionali che lo costituiscono, la dimensione sociale che rende possibile l’intesa con gli altri. L’Io corrisponde allo spazio personale che ognuno si ritaglia nel contesto delle norme sociali, all’interpretazione che ne dà, al modo particolare di viverle, ed è legato all’agire immediato, al presente, alle reazioni puntuali e immediate.

Il Sé è definito, secondo l’analisi di Mead, dalla forma riflessiva del pronome (Self), nel senso che è l’individuo che guarda se stesso, che è consapevole del proprio Me e del proprio Io. Ma è un vedersi come totalità, nell’insieme della propria storia e del proprio essere. Quando però un individuo fa ciò, non si coglie dall’interno, non si vede da sé, così come non può vedersi totalmente dal punto di vista fisico. Si vede attraverso gli altri, quindi costruisce la propria immagine attraverso la mediazione della comunicazione, sia gestuale che linguistica. Il Sé è l’insieme organizzato dall’individuo del modo in cui immagina che gli altri lo vedano, basandosi sulle comunicazioni degli altri di cui può disporre. Ora, questa coscienza sociale di sé non sorge all’improvviso, ma è una costruzione, che ha inizio nella prima infanzia e prosegue per tutta la vita.

L’individuo si vede con gli occhi degli altri, ma in quanto mette insieme tutte le immagini di sé che dagli altri ha ricevuto e riceve.

Tornando alla nostra analisi, è opportuno sottolineare che, a differenza di Bergson ma in

134 «Recognition of their close and vital relationship to social forces will create and reenforce search for the principles which are truly relevant in our own day».

sintonia con George Mead, Dewey afferma che la costruzione del sé avviene in un contesto sociale specifico e che quindi l’individuo non costruisce propriamente se stesso, ma è il risultato di valori e atteggiamenti comuni al proprio gruppo e interiorizzati, anche se rivissuti in modo personale. La similitudine del linguaggio è valida anche in questo ambito: parliamo una lingua comune dicendo, però, cose personali e uniche135: ogni discorso che facciamo, forse ogni frase, non è mai stata detta da altri, ma le parole che usiamo, il lessico e la sintassi, sono comuni a tutti i parlanti la stessa lingua.

La dimensione sociale del sé è un aspetto basilare della teoria di Dewey, come lo è la centralità dell’individuo. Né l’egoismo né l’altruismo costituiscono un principio soddisfacente, perché la personalità non esiste indipendentemente dai rapporti sociali.

Gli atteggiamenti costitutivi del sé si formano in questo contesto sociale. Le teorie dell’uomo come fondamentalmente egoista o, al contrario, altruista, sono possibili considerando l’individuo come separato dal contesto sociale. La teoria stessa, invece, secondo Dewey, deve muovere dalla concezione dell’uomo come essere sociale.

«La famiglia, ad esempio, è qualcosa di diverso da una persona, più un’altra, più un’altra. È una forma durevole di associazione in cui i membri del gruppo stanno fin dall’inizio in relazione l’uno con l’altro, e in cui ogni membro orienta la propria condotta pensando all’intero gruppo e al suo posto in esso, piuttosto che a un aggiustamento tra egoismo e altruismo»136. (LW 7: 299) «La moralità – conclude Dewey

135 Hickeman e Alexander danno una spiegazione chiara del rapporto tra individuo e società nella determinazione del sé: «Essere umano significa avere impulsi e desideri, ma implica anche essere parte di una società in cui obbligazioni e diritti sono istituzionalizzati e in cui le azioni sono approvate e disapprovate. Il Bene, argomenta [Dewey], non dovrebbe essere definito né in termini di impulsi individuali né di obbligazioni sociali in quanto tali, ma in termini di ciò che è sperimentalmente approvabile, tenendo conto dei due tipi di considerazioni». (To be human is to have impulses and desires, but it is also to be a part of a society in which obligations and rights are institutionalized and in which actions are approved and disapproved. The Good, he argues, should be defined neither in terms of individual impulses nor social obligations as such, but in terms of what is experimentally approvable, taking both types of considerations into account.) (Hickeman e Alexander 2002: XII). Si tenga presente il riferimento, che svilupperemo più avanti, all’etica “sperimentale”: per Dewey i valori devono essere oggetto di indagine per metterli alla prova come risposte costruttive ai problemi degli uomini che li vivono.

136 «The family, for example, is something other than one person, plus another, plus another. It is an enduring form of association in which the members of the group stand from the beginning in relations to one another, and in which each member gets direction for his conduct by thinking of the whole group and his place in it, rather than by an adjustment of egoism and altruism».

– consiste nel contribuire a soddisfare i bisogni del gruppo intanto che si soddisfano i propri». (Ibidem)

«Dato che ognuno di noi è membro di un gruppo sociale e dato che questo non ha esistenza indipendentemente dai sé che lo compongono, non esiste un interesse sociale che non sia al tempo stesso un’attenzione intelligente per il nostro benessere e sviluppo»137. (LW 7: 300) Ad esempio, i genitori che dedicano poche cure allo sviluppo e alla maturazione dei figli, poi ne subiscono le conseguenze: quindi dedicare loro tempo è anche una sorta di “egoismo intelligente”.