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L‟utopica impresa di una definizione univoca

Singolare avversione allo scrivere. Cui bono, cui bono? (Ardengo Soffici, 21 marzo 1943)

Come è illusoria l‟impresa di “attraper l‟eau” nella celebre espressione montaignana, così è complessa e probabilmente frustrata la ricerca di una definizione unica e pienamente soddisfacente per il diario. I tentativi finora sono stati accompagnati da perplessità e cautele: si sono moltiplicate le codificazioni di servizio, mai aspirando alla completa delimitazione di campo. Ogni teorico s‟è sentito chiamato a dare il proprio contributo, quand‟anche lo scrittore offrisse un‟auto-definizione della sua opera. Troppo generali o troppo minuziose, le teorie faticano ad abbracciare interamente le tante sfaccettature e l‟eteronomia costitutiva del diario. Alla base di quest‟apparente impasse vi è il desiderio di porre ordine laddove, patologicamente, l‟ordine non è contemplato; ed è, anzi, continuamente smentito dalla sperimentalità delle forme diaristiche. Come tutte le scritture dell‟io, il diario è tanto proteiforme da crescere e nutrire al suo interno elementi narrativi, descrittivi, documenti storici, opere nelle opere, con il rischio che la prevalenza di un singolo aspetto generi opere indefinibili. Per simili casi sarebbe errato parlare di una denaturazione, dal momento che forma e contenuti sono liberi. Questa libertà spalanca la creatività del diarista, ma apre anche problemi per la critica teorica, che brancola tra costanti ed eccezioni a una norma che è impossibile da fissare.

Prima di addentrarci nella querelle teorica, è utile saggiare come i grandi strumenti di riferimento si sono misurati con il problema del “diario” e del “taccuino”. Ne emergeranno ambiguità che dall‟ambito lessicale scivoleranno in quello semantico e nell‟impiego sempre più libero e spurio dei due termini come sinonimi. Innanzitutto, notiamo che i termini entrano nell‟uso piuttosto tardi: sono infatti assenti nel dizionario della Crusca del 1612, dove si attesta solo la presenza di “quaderno”, ma in riferimento al supporto materiale; una definizione autonoma del sostantivo “diario” entrerà tardi, solo nella quinta edizione. Quanto ai dizionari etimologici, il Battisti-Alessio riconduce il termine “diarista” al 1773, mentre il

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“diario” come «registro giornaliero» risale al latino diariumma impiegato da Gellio, ripreso poi dagli Umanisti nel Diarium romano di Burchard (1483-1506).1 Sul

Cortellazzo-Zolli, il diario è considerato fin da Varchi (av. 1565) un‟«opera in cui vengono annotati giorno per giorno avvenimenti considerati di rilievo».2 La voce

“taccuino”, usato dal XIX secolo con il valore di „quadernetto per appunti, spec. tascabile‟, risale invece all‟arabo taqwīm, „corretta disposizione, ordine giusto‟, diffuso attraverso due opere di autori arabi divulgate dalla scuola medica di Salerno col titolo Tachuinum sanitatis.3 Un cenno è da fare anche per quanto riguarda il

dizionario dei sinonimi di Tommaseo: “taccuino” ha per sinonimo il moderno „portafogli‟; invece, “diario” è accorpato al gruppo lessicale di “giornale”, è considerato un «latinismo ormai storico» ma privo di derivati.4

Facciamo infine riferimento alla definizione del Grande Dizionario Battaglia, da cui muoveremo per sondare l‟ambito teorico:

Diario: 1. Raccolta di annotazioni giornaliere, registrate secondo un ordine cronologico, in cui vengono descritti fatti di rilievo, avvenimenti politici, sociali, economici, osservazioni di carattere scientifico, medico, ecc.

2. Tipo di narrazione in cui si annotano giorno per giorno le proprie vicende, le proprie impressioni o osservazioni, i propri sfoghi più intimi e segreti. Anche: le annotazioni stesse.

- Quaderno stesso che contiene il diario. - Anche come titolo.

Alla luce degli studi teorici francesi, potremmo definire la prima tipologia di diario quale “journal externe” e la seconda “journal intime”? La questione è molto più complessa, al punto che le stesse definizioni del Battaglia paiono imprecise a una seconda lettura. Accantoniamo per un attimo l‟accezione di supporto materiale e il riferimento alla titolazione, per concentrarci sulle due definizioni principali. In entrambe, si può notare che il diario è subito inquadrato come testo; in realtà, l‟identità non è scontata. Secondo Lejeune, ad esempio, in questo assunto si situa il primo errore metodologico di molti studiosi: il diario è solo secondariamente un testo letterario; anzi, diventa un testo dopo la morte dell‟autore; prima, è da

1 C.BATTISTI –G.ALESSIO, Dizionario etimologico italiano, Firenze, Barbera, 1965, II, 1282.

2 M.CORTELLAZZO –P.ZOLLI, Dizionario etimologico della lingua italiana, Bologna, Zanichelli, II, 333.

3 Ivi, 1307.

4 N. TOMMASEO, Dizionario dei sinonimi della lingua italiana, completamente riveduto e allargato da G. Rigutini, Milano, Vallardi, 1974, 557-558.

considerarsi un atto, un‟occupazione, e come tale andrebbe trattato.5 Considerarlo

un libro, in particolare, genera delusioni e critiche, perché raramente il diario soddisfa un alto orizzonte d‟attesa estetica. Il diario è anzitutto da soppesare nella sua natura manoscritta, umorale e imprecisa, spesso pubblicabile solo dopo un accurato processo di revisione autoriale e/o editoriale. A quel punto, se si vuole mantenere una certa ortodossia, il diario-libro si è allontanato dalla sua natura, ed è una versione spurgata, ibridata, «shadow of its former self».6

Se prestiamo attenzione ai critici che più si sono occupati di diario, possiamo individuare almeno due grandi tendenze: il diario come “genere” e il diario come “pratica”. Nel primo filone capeggia Lejeune, con la sua ansia classificatoria (pur attenuatasi nel tempo) tradisce il desiderio di ingabbiare il diario secondo schemi semplificatori. Ricondurre il diario degli scrittori a un canone sottintende la sua legittimità di genere letterario, sottoposto a norme codificate via via dalla tradizione. Tuttavia, anche Lejeune concorda nel ritenere che un piccolo sottogruppo di diari è da ricondursi a genere letterario. Lejeune ritiene che il diario sia anzitutto una «traccia», ma non esclude che si possa considerare il diario come un genere, purché consci di fare riferimento a un corpus infinitamente minoritario. In più luoghi elabora invece suggestive metafore per rimarcare la sua visione del diario non come un prodotto finito, ma come un atto, colto nel suo divenire:7 nel

considerarlo un merletto o una ragnatela, evidenzia la sua natura discontinua, fatta di spazi vuoti più che di pieni (ovvero di ciò che il lettore non può sapere). È anche una camera oscura, così buia che per riuscire ad ambientarsi il lettore deve soffermarvisi a lungo, finché i contorni si chiariscono. Al tempo stesso, è come studiare una lingua straniera, piena di contenuti impliciti e connotazioni da decifrare. Per via della sua natura performativa, è uno sport come lo sci o la vela: tenere un diario è «surfare sul tempo». O ancora, per evidenziare le difficoltà e smarcare il diario dalla paraletteratura, Lejeune vi accosta l‟arte dell‟improvvisazione, che prevede capacità tecnica ma anche accettazione immediata dell‟inconnu. Infatti, nel diario viene meno l‟attuazione del racconto retrospettivo, dal momento che si colgono singoli avvenimenti legati al presente o, meglio, a un passato recente; e allo stesso modo è bandita la preveggenza. Inoltre, come nell‟improvvisazione il diarista non può comporre né correggere: deve dire la cosa giusta al primo colpo, o la correzione successiva resterebbe sulla carta

5 P.LEJEUNE, The Diary on Trial, in ID. On diary,…, 153 e sgg. 6 Ivi, 154.

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(meriterebbe un discorso a sé stante il diario tecnologico). In più, il diarista lotta ogni giorno per riaccendere la volontà di scrivere o cedere alla tentazione di interrompere l‟opera (cfr. par. 1.8).

Nel filone del diario come pratica troviamo Gusdorf: la sua posizione filosofica di democratizzazione della scrittura diaristica supera di gran lunga qualsiasi pretesa di letterarietà, di per sé escludente ed elitaria. L‟interesse è qui concentrato non tanto sul diario come testo (e quindi sull‟indagine ermeneutica), ma sulla ricerca ontologica e gnoseologica dell‟io, che lotta per rivelarsi a sé stesso. Allora si parlerà molto più frequentemente di diario come “atto”, “pratica”, nel più ampio contenitore del “life writing”.8

Per tornare alla definizione del Battaglia, notiamo quanta attenzione viene dedicata alla scansione quotidiana della scrittura, come d‟altra parte prescriverebbe l‟etimologia stessa della parola: la temporalità è protagonista del diario, ma non richiede una ritualità giornaliera, inconcepibile o quantomeno irrealizzabile per la maggior parte degli scrittori. Non tutti, infatti, sono grafomani come Amiel, che ha lasciato oltre 16.000 pagine di diari, vergati con una ritualità nevrotica e un‟ossessione costante per il dettaglio, anche il più inutile. Anche Béatrice Didier, che ha donato uno dei primi studi interamente dedicati al diario, precisa che la pratica del giornaliero sottende interruzioni e il concetto stesso di regolarità è variabile.9 Pare più corretto fare riferimento a una periodicità e a una metodicità del

diario, più che alla ritualità giornaliera. Tant‟è vero che non tutti i diaristi, come vedremo (cfr. par. 1.8), attribuiscono la stessa importanza alla ferrea delimitazione cronologica dei frammenti: saranno i casi più problematici, di non rara trasgressione alla norma (si badi, non alla regola).

In secondo luogo, la definizione appare incompleta, dal momento che esclude molte tipologie di diario: non si accenna al diario dell‟opera, né il diario d‟occasione o di viaggio.

8 Secondo Marlene Kadar, è «a kind of writing about the „self‟ or the „individual‟ that favors

autobiography, but includes letters, diaries, journals and (even) biography», citato in S.L.BUNKERS, “What Do Women Really Mean? Thoughts on Women's Diaries and Lives”, in The Intimate Critique: Autobiographical Literary Criticism, a cura di Diane P. Freedman, Olivia Frey, and Frances Murphy Zauhar, Durham, Duke University Press, 1993, 215. Sulla narrativizzazione della propria vita, sono interessanti le teorie di Eakin: cfr. P. EAKIN, Touching the world. Reference in Autobiography, Princeton, Princeton University Press, c. 1992; ID., How our lives become stories. Making selves, Ithaca-London, Cornell University Press, 1999; ID., Living autobiographically. How We Create Identity in Narrative, ivi, 2008.

9 «Le mot “journal” suppose seulement une pratique au jour le jour – avec, bien entendu, des

interruptions, une régularité très variable. La périodicité est pourtant la seule loi ressentie comme telle par l‟auteur» (B.DIDIER, Le journal intime, Paris, PUF, 1976, 8).

Da ultimo, si noti che la seconda definizione è aperta dalla parola “Narrazione”, ma tale macrodefinizione è problematica: pur concordando con Beckett che «avec le mots on ne fait que se raconter»,10 l‟identità tra scritture dell‟io

e narrazione esclude molti frammenti descrittivi e introspettivi, nonché i testi lirici che talvolta intervallano le prose. Secondo Lejeune, il diario sarebbe per sua natura «non-narrativo»: gli stralci narrativi contenuti non hanno sequenzialità; in più, il diario è scritto senza una coscienza della fine. Dunque, per renderlo narrativo occorre usarlo come serbatoio narrativo, riscriverlo oppure operare un montaggio logico.11 Concorda con Lejeune anche Genette, che in Fiction et diction accosta

saggio e autobiografia in qualità di «letteratura non narrativa in prosa», benché il saggio si concentri sugli oggetti del mondo e l‟autobiografia su una vita e il suo divenire.12

In più, la scrittura narrativa esclude i diari poetici, che non sono così rari, a cominciare dall‟Ungaretti dell‟Allegria fino al Sereni di Diario d‟Algeria e al Pagliarani di Inventario privato.

Attraversando la storia degli studi sulla diaristica, sappiamo che è Michel Leleu a rivendicare il conio in Francia del termine “diariste”. Ma con Alain Girard, nel 1963, si incontrano le prime resistenze alla definizione del genere: consapevole dell‟impresa impossibile, lo studioso sostiene che ogni opera è figlia del capriccio del diarista, che obbedisce solo all‟ordine cronologico. La sua legge è l‟assenza di una scelta, scrive quanto gli capita, come in una sorta di registro, e nel suo passaggio dalla forma privata alla pubblicazione segna un cambiamento sempre più forte nella concezione dell‟individuo. Tolte le caratteristiche peculiari, tutti i diari «apportent la relation d‟une même expérience vécue, qui se développe et va s‟approfondissant avec le temps».13 L‟attitudine comune, davanti alla vita e a sé

stessi, si riflette nei temi della fuga del tempo, nella mobilità delle impressioni, multiple e contraddittorie al tempo stesso; nella volontà di essere sinceri, che si scontra con la certezza di non poterlo essere totalmente; nell‟impressione che lo spirito vaghi su un fondale oscuro, cosa che provoca amore e odio verso sé stessi. Non sono rari la paura verso gli altri e il fascino del nulla, che si scontrano con il desiderio di sviluppare e riaffermare la propria personalità, pur mostrandosi

10 S.BECKETT, Le monde et le pantalon [1989], Paris, Minuit, 2003, 11.

11 P.LEJEUNE, Composer un journal…, 63-72.

12 Per approfondimenti, cfr. il recente V.FERRE, Frontières de l‟essai et de l‟autobiographie, in Le propre de l‟écriture de soi…, 43 e sgg. Sul saggio autobiografico, invece, è ancora rilevante il saggio di G.GOOD, The Observing Self. Rediscovering the Essay, London, Routledge, 1988.

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generosi nonostante l‟egoismo originario. Queste caratteristiche, che Girard riconduce al diarista del XX secolo e, in qualche misura, già del XIX, hanno la loro matrice nella storia: l‟industrializzazione, la crescita demografica, nonché i progressi dell‟istruzione e l‟affermazione sempre più marcata dei diritti e doveri dei cittadini contribuiscono alla crescita dell‟identità individuale. Allo stesso tempo, entro la massa si avverte sempre più la solitudine, e i continui cambiamenti sociali portano alla dissociazione delle strutture morali e psicologiche degli individui. Si va verso l‟osservazione del proprio io disgregato, diretta conseguenza dei movimenti che si producono all‟esterno.14 Date queste coordinate iniziali, Girard elenca le

caratteristiche fondamentali nel capitolo intitolato significativamente Storia di un genere: innanzitutto, il diario è scritto giorno per giorno. Non si pone altre regole: l‟ordine stesso di cosa raccontare è arbitrario, come i contenuti. Solo le circostanze guidano entro il periplo dei giorni (in questo senso, Girard concorda nel dire che il diario non è un‟opera). Come secondo elemento, l‟autore è presente personalmente, ed è il centro di convergenza delle percezioni e dell‟osservazione: si concentra maggiormente su quanto gli avviene direttamente, anziché sugli incontri e sugli avvenimenti esterni, che sono comunque recepiti e filtrati da una personalità. Il diario si estende per un lungo periodo di tempo imprecisato e testimonia l‟introversione del suo autore. L‟intimità dominante comporta che non sia destinato a un pubblico fino al XXsecolo.

Diverso dal journal intime e molto più diffuso in Italia è il “journal externe”, definizione di Gusdorf per indicare un diario più concentrato sugli eventi esterni che sull‟io. Come cronache quotidiane, registrano materiali storici preziosi; non è detto, comunque che tra le carte inedite non si trovino materiali molto privati.

Se rapportiamo il diario alle teorizzazioni di Philip Lejeune, possiamo vedere che rispetta tre condizioni su quattro del pacte autobiographique: forma espressiva (linguaggio in prosa); soggetto trattato (l‟individuo); identità tra autore-narratore- personaggio. Ma si tratta veramente di un genere? Nella teorizzazione di Lejeune, pare di sì, per quanto lo studioso francese si soffermi in opere successive sul diario come pratica e come performance. Scettico, invece, Roland Barthes, che si annovera tra i detrattori del diario, almeno a livello teorico:15

14 «Nouveau genre littéraire et fait de civilisation, le journal intime est inséparable des circonstances

de temps et de lieu où il a pris naissance et s‟est développé. Il est un témoin, qu‟on peut interroger, pour mieux comprendre l‟époque dont il figure une des multiples illustrations» (ivi, XX).

15 R. BARTHES,Dove lei non è, Torino, Einaudi, 2010. Si tratta di un diario in cui Roland Barthes rievoca l‟esperienza dolorosa della morte della madre. Oltre alla scelta del frammento scardinato da una trama predefinita (già presente nel precedente Frammenti d‟un discorso amoroso [1977], Torino, Einaudi, 2007),

Il Diario è un “discorso” (una sorta di parola „writée‟ secondo un codice particolare), non un testo […]. Non può assurgere a Libro (ad Opera); è solo un Album, per riprendere la distinzione di Mallarmé (è la vita di Gide ad essere un‟“opera”, non il suo Diario). L‟Album è una raccolta di fogli non solo permutabili (questo non vorrebbe dire nulla), ma soprattutto sopprimibili all‟infinito.16

L‟album, definizione generica che si presta a racchiudere più tipologie di diario, è colto nella sua istanza comunicativa, a dispetto della letterarietà, nonché la sua superfluità, congenita da un lato e maledizione dall‟altro.

La proposta di Onley, «a discovery, a creation, and an imitation of the self»,17

resta piuttosto nebulosa e si ferma allo scopo del diario, senza descriverne la struttura o la composizione.

Nel 1995, Jordane tenta di circoscrivere il campo del “journal intime”, pur non accorgendosi che include nelle sue caratteristiche elementi propri del “journal externe”:

se définit, avant toute caractéristique de forme (fragment daté, par exemple), de contenu (“événements” extérieurs ou intimes, introspection, etc.), de fonction (retenir par le langage, ou plus justement je crois, oublier par lui certains moments de la vie), par l‟unicité de son existence physique : même dactylographié, il n‟existe qu‟en un exemplaire unique, dont toute reproduction trahit le statut original18

In tempi recenti, Simonet-Tenant deduce che l‟etichetta di “journal intime” è troppo limitante; è più corretto parlare di “journal personnel”, dal momento che l‟idea stessa di intimità varia da scrittore a scrittore. La diversità qualitativa e quantitativa di ogni diario mette al bando qualsiasi analisi generalistica, e conclude che «le journal, écriture fondée sur la structure calendaire, écriture stéréotypée dans un certain sens, est également une forme ouverte à toutes les innovations».19 Si può

quindi dedurre che il journal «se présente sous la forme d‟un énoncé fragmenté qui épouse le dispositif du calendrier et qui est constitué d‟une succession d‟ „entrées‟ […]. S‟y exprime un je, le plus souvent omniprésent, prisme qui réfracte actions,

si rintraccia l‟attenzione al supporto: foglietti scritti a matita o a penna, conservati e riorganizzati dallo stesso Barthes.

16 ID., Riflessione, in ID., Il brusio della lingua…, 379.

17 J.OLNEY, Autobiography and the Cultural Moment, in Autobiography: Essays Theoretical and Critical, a cura di J. Olney, New Jersey, Princeton University Press, 1980, 19.

18 B.JORDANE, Toute ressemblance…, J.-B. Puech, Champ Vallon, 1995, 119-120.

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observations, pensées et sentiments».20 Immediatezza e scrittura cumulativa, non

pensata inizialmente per la pubblicazione, sono due elementi costitutivi del journal. Se le definizioni del diario hanno sortito dubbi, passiamo infine a quanto scrivono i diaristi. Non di rado il diario è considerato una scrittura residuale, avanzo delle altre opere o semplicemente deposito (qualche volta «rifugio») di ciò che l‟esistenza scartavetra: «Questi libretti son la lisciva della mia vita. Ci resta tutto il sudicio. Il bianco asciuga sulle siepi, il ruscello porta via le brutture; qui, invece, c‟è la gora che si trova dopo aver fatto un bagno»,21 scrive Prezzolini l‟11 ottobre 1916.

Bianciardi abbandona l‟idea di scrittura liberatoria e ricollega il diario universitario a «tutto ciò che non si è ben digerito».22 Landolfi riprende la metafora e si incalza per

trovare «un mezzo più onorevole di digestione» rispetto al «dannato diario».23 Ne

consegue che il diario non provochi che un «piacere ronzinesco (di brenna arrembata, vecchia, bolza e mezzo addormentata che cammini a testa bassa per una carreggiata)»,24 metafora che riprende il zoomorfo giornale gaddiano, che procede

come un «asino frusto a digiuno».25 Per il giovane Dessì, benché rifugio

rassicurante, il diario raccoglie le «bricciole» [sic] del proprio pensiero, che figurano «sparse sulla carta senz‟ordine, senza nesso, senza vita».26 Anche Pavese definisce

con una metafora quotidiana e dimessa il diario, destinato a ospitare «i trucioli della piallatura», ove «la piallatura è la giornata» e la necessità è quella di ripulire «le tavole d‟approccio, le gabbie, le impalcature, i ghiribizzi», per semplificare e «veder chiaro il grosso pezzo che verrà».27 Già cinque anni prima aveva associato la scrittura

autobiografica alla cena di un «uomo solo, in una baracca, che mangia il grasso e la salsa da una pignatta»:

Certi giorni ci raschia con un vecchio coltello, certi altri con le unghie; tanto tempo fa la pignatta era piena e buona, adesso è brusca e per sentirne il gusto l'uomo si mangia le unghie rotte. E continuerà domani e dopo.

20 Ivi, 19-20.

21 G.PREZZOLINI, Diario 1900-1941, Milano, Rusconi, 1978, 234.

22 L.BIANCIARDI, Diario universitario, in ID., L‟antimeridiano. Tutte le opere, a cura di L. Bianciardi, M. Coppola e A. Piccinini, Milano, Isbn - Ex Cogita, 2005, I, 1946.

23 T.LANDOLFI, Rien va [1963], Milano, Adephi, 1998, 94.

24 Ivi, 121.

25 C.E.GADDA, Giornale di guerra e di prigionia Con il “Diario di Caporetto”, Milano, Garzanti, 2002, 81.

26 G.DESSÌ, Diari 1926-1931, a cura di F. Linari, Roma, Jouvence, 1993, 200.

27 C. PAVESE, Il mestiere di vivere. 1935-1950, nuova edizione condotta sull‟autografo a cura di M.