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La chiusura del cerchio con il “Dialogo d

3. IL MONDO E' CADUTO, E NIUNO S'E' MOSSO 79 : LEOPARDI E LUCIANO TRA REALTA', IMMAGINAZIONE E

3.2. La satira e il sistema filosofico leopardiano:

3.2.4. La chiusura del cerchio con il “Dialogo d

Timandro e di Eleandro”.

Dopo aver passato in rassegna le quattro operette precedenti Leopardi arriva a delineare il punto focale del

124 Cfr. Giacomo Leopardi, Laura Melosi (a cura di), Operette Morali, BUR, Milano, 2019, pp. 437, 438. 125 Cfr. Walter Binni, Lettura delle Operette Morali, Marietti, Genova, 1987, pp. 98-100.

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percorso compiuto fino a quel momento e lo racchiude all'interno di un dialogo fondamentale nell'analisi della raccolta delle Operette Morali.

Il “Dialogo di Timandro e di Eleandro” rappresenta una sorta di sintesi, di prefazione ma anche di apologia dell'intera opera leopardiana e proprio per questo nel 1827 l'autore stesso collocò il dialogo a chiusura del libro offrendone anche una chiave di lettura. È lui stesso a definirla appunto “al tempo stesso una specie di

prefazione, ed un'apologia dell'opera”126 in una lettera del giugno 1826 all'editore Stella, in cui afferma di non aver potuto creare una prefazione per le sue Operette Morali poiché tutta la loro carica ironica e tutto il loro spirito non hanno bisogno di preambolo alcuno, arrivando però a supplire questo vuoto con il dialogo che ci si appresta ad analizzare.

Questa operetta appare come una vera e forte polemica nei confronti dei filosofi moderni e contro il proprio tempo; è inevitabile notare in questo contesto la vicinanza dell'autore alla figura di Luciano, che nella maggior parte dei propri dialoghi mantiene viva la sua critica nei confronti dei filosofi fasulli che animavano la sua epoca. Ugualmente Leopardi, giunto alle ultime verità che lo conducono sempre più verso la direzione pessimistico-materialistica che era culminata nel di poco

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precedente “Dialogo della Natura e di un Islandese”127, vuole difendere la propria opera, da sempre osteggiata, e polemizzare contro le filosofie spiritualistiche e antimaterialistiche del suo tempo che non fanno altro che illudere gli uomini.

Il dialogo in questione vede coinvolte due voci, quella antropocentrica e ottimistica di Timandro (letteralmente “colui che ha stima degli uomini”) e quella intellettuale, anticonformista e di più intima forza di Eleandro (“colui che ha compassione degli uomini”).

Di fatto il vero protagonista e alter-ego dell'autore è quest’ultimo che si serve della figura del suo interlocutore, talvolta sciocco e superficiale, per riuscire a far risaltare le proprie riflessioni di grande chiarezza intellettuale. Il dialogo, infatti, si presenta come una esplicita difesa da parte di Eleandro dei propri scritti e di conseguenza dei propri pensieri che in apertura di conversazione vengono definiti da Timandro come “molto biasimevoli”, richiamando proprio la compassione che Eleandro porta nel nome. Egli si è fatto e si sente portavoce di certe verità scomode e tristi che sono contenute nei suoi scritti: la violenza che caratterizza la vita dell'uomo, la noia, l'irrealizzabilità del piacere, la contraddittorietà dell'esistenza che sono proprio ciò che lo conduce ad avere compassione degli uomini. Questo

127 Nonostante non siano contigue all'interno della raccolta il “Dialogo della Natura e di un Islandese” (operetta numero

12) e il “Dialogo di Timandro e di Eleandro” (numero 20) sono state scritte a distanza ravvicinata, la prima nei primi dieci giorni di giugno 1824 e la seconda tra il 14 e il 24 giugno dello stesso anno.

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sentimento deriva dal fatto che la prospettiva di un avvenire positivo non corrisponde quasi mai alla sua realizzazione, per questo la verità enunciata da Eleandro come espediente per esprimere la propria pietà viene fraintesa e additata come odio verso il genere umano. Ma di fatto egli tende a volersi distinguere dall'opinione comune: vuole porsi in antitesi al suo interlocutore

Timandro ma anche all'intero genere umano

accaparrandosi l'accusa di misantropo che ricollega l'operetta direttamente al suo antecedente lucianeo individuato nel dialogo “Timone, o il misantropo”.

Il personaggio di Timone, filosofo ateniese (320-230 a.C.) che odiò i suoi concittadini e il genere umano intero, viene infatti esplicitamente citato all'interno dell'operetta proprio come termine di paragone per poter introdurre un'accusa di misantropia mossa da Timandro verso Eleandro, descrivendo il suo odio come derivato da nessuna causa particolare. Ma di fatto il personaggio leopardiano si mostra e si definisce come incapace di odiare ed è effettivamente lontano da questa maschera misantropica.

L'opera di Luciano con Timone protagonista si presenta come una vera e propria diatriba filosofica che sicuramente Leopardi aveva tenuto presente nella scrittura del suo dialogo: sotto le vesti della commedia e del comico costruiti insieme per intessere uno scambio di battute efficace, Luciano propone la storia del suo

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personaggio probabilmente attingendo ai dati biografici reali di Timone. L'uomo, un tempo ricco e apprezzato da tutti viene descritto adesso come intento a zappare la terra, privato di ogni cosa proprio per l'approfittarsene di coloro che lo avevano sempre circondato. Il vittimismo da cui sembra afflitto e che viene osservato da Giove, che richiamato e insultato dallo stesso Timone, si era dimenticato di lui, non è però condiviso da Pluto, che per ordine del padre degli dei dovrebbe recarsi a casa dell'uomo e tornare a stabilirsi lì garantendogli ricchezza e benessere. È qui che emerge il fatto che gli sperperi che Timone aveva compiuto in passato derivavano solo dal suo desiderio personale: ma di fatto il personaggio che ci viene presentato è un uomo che a causa degli abusi subiti da chi aveva vicino si è trovato in miseria e compare accanito contro l'umanità proprio per ciò che ha dovuto sopportare. Di conseguenza per lui i suoi simili diventano furfanti e arriva ad affermare di aborrire sia gli uomini che gli dei, come a volersi isolare completamente dalla realtà perché è vivendo in quella che ha conosciuto gli inganni degli adulatori, ha conosciuto l'invidia e quindi l'odio, è stato corrotto dai piaceri e ha conosciuto il tradimento. Dunque, anche in questo caso vediamo un personaggio che certamente si trova escluso dalla gente del suo tempo e che sicuramente non ne apprezza lo stile di vita e di pensiero, si tratta di un personaggio fuori dal comune che viene accusato forse troppo duramente per i suoi giudizi

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banditi come misantropici. Leopardi, infatti,

comprendendo probabilmente la profondità nascosta dietro questo mascheramento lucianeo e identificandosi a sua volta in critico della contemporaneità, sceglie di usare come metro di giudizio un misantropo, al quale troppo spesso anche lui stesso si è sentito paragonare. In realtà, se si fa riferimento al diretto antecedente leopardiano di questo dialogo, cioè “Novella Senofonte e

Niccolò Machiavello” allora notiamo che le caratteristiche

del misantropo si confanno in maniera più coerente al personaggio di Machiavello in contrasto con la sua evoluzione in Eleandro che, consapevole del proprio essere, riesce a definire se stesso in contrapposizione a Timone, che odiava e fuggiva tutti ma amava solo Alcibiade (perché avrebbe provocato la rovina degli Ateniesi) e che secondo alcuni non odiava gli uomini ma le fiere in sembianza umana. Eleandro si distacca da questo modus operandi concludendo perentoriamente che egli non odia né fiere né uomini, distanziandosi da quell'etichetta che il mondo vuole infliggergli.

Sotto la maschera di Eleandro, Leopardi riesce in qualche modo, finalmente, a difendere se stesso dalle simili accuse di misantropia a cui anche i contenuti delle

Operette erano stati sottoposti: gli attacchi rivolti al

genere umano, alle loro speranze considerate assurde, alle loro presunzioni e il dissenso nei confronti dell'orgoglio di essere il genere per cui il mondo è stato

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creato, di fatto non sono per l'autore, così come cerca di esprimere il suo personaggio, critiche all'uomo in sé, ma sono rivolte a certe particolari concezioni di quel tempo che l'uomo ha sull'uomo, sono critiche verso determinate filosofie ottimistiche e teologiche che secondo l'autore hanno portato alla cecità di fronte alla verità128.

L'intensità argomentativa è data prevalentemente dalle risposte di Eleandro fino ad arrivare ad avere una sorta di riflessione autobiografica.

Si perde la spinta data dal tono agonistico a partire dall'espressione “amico mio” con cui Eleandro esordisce nello spiegare e definire il suo essere, la sua persona nata ad amare e che ha amato in abbondanza fino ad arrivare a non amare più nessuno fuorché se stesso. Questa necessità che il protagonista reputa come naturale riporta immediatamente in questione il tema dell'amor di sé precedentemente osservato nell' “Ottonieri”.

Di fatto le parole di Eleandro, non più contraddette dal suo interlocutore, tornano a sottolineare un'esclusione dal mondo che è anche quella dell'autore: la scrittura delle loro idee e dei loro pensieri non è accettata dalla

contemporaneità poiché viene percepita come

inadeguata ad adattarsi a quelle cerimonie di mascheramento usate per parlare positivamente dell'umanità, tipiche delle filosofie e delle letterature del tempo. Quindi Eleandro viene mosso dallo stesso istinto

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leopardiano di scrivere per ridere dei mali dell'uomo, per trovare conforto in questo sorriso come unico palliativo al dolore che sempre più lo affligge: la scelta della risata rispetto alla disperazione per la propria condizione è sicuramente una scelta coraggiosa ma che non deve essere interpretata come ottimistica, poiché è di fatto la realizzazione della consapevolezza dell'inconsistenza delle illusioni.

L'istinto di scrivere è inoltre alimentato dal bisogno di verità in contrapposizione a tutti quei discorsi legati ai valori, al progresso, alla virtù e all'ottimismo compiuti dai suoi contemporanei ma che di fatto sono maschere a cui probabilmente neanche loro riescono più a credere. Tornano per un momento sulla scena i fantasmi comparsi sulla terra nella “Storia del genere umano”, la Gloria, la Virtù appunto, proprio a sottolineare il fatto di non appartenere per indole a nessun uomo e questi fantasmi, pur essendo una volta venerati, adesso non suscitano alcuna considerazione all'interno di una società che si basa unicamente sull'utilizzo inganni verso il prossimo. Come era stato accennato inizialmente il nucleo di questo dialogo sfocia in argomentazioni travolgenti sul tema filosofico e sulla “perfettibilità” dell'uomo, verso cui Timandro non ha gli strumenti per ribattere; la conclusione del Leopardi del 1824 si fa perentoria attraverso le parole di Eleandro che individua l'apice del sapere umano e del filosofare nel riconoscere l'inutilità di

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quella stessa filosofia o nel correggere i danni che questa nel corso dell'evoluzione ha compiuto per riportare l'uomo a quello stato di natura a cui apparteneva nell'antichità.

Ritroviamo quindi ancora la volontà di confrontare la vita dell'uomo antico con quella del moderno attanagliato dall'unica certezza che non c'è altro di vero che il nulla, mosso dal continuo desiderio di perfezionarsi rispetto al passato ma senza avere la concreta possibilità di realizzare questa smania, poiché Leopardi, consapevole dell’ “infinita vanità del tutto”, conclude tra l'ironia e la presa in giro, che l'umanità potrà soltanto peggiorare la propria condizione così come aspramente aveva scoperto Prometeo nella sua “Scommessa” durante il viaggio terrestre.

3.2.5. Il ritorno alla mitologia nella teoria di infiniti