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CAPITOLO I: La protezione della democrazia in un’ottica

7. La “conventio ad excludendum” del PCI e del MSI

forma di stato repubblicana, il sistema politico italiano è stato contrassegnato, per un periodo quantitativamente importante, dalla presenza di formazioni partitiche da più parti considerate antisistema. In un arco temporale compreso tra il 1948 e la fine dell’XI legislatura, sovente identificato con il termine di “Prima Repubblica”, è stata registrata la presenza nella scena politica italiana di due formazioni partitiche ideologicamente agli antipodi e da più parti temute sul presupposto della loro “inaffidabilità democratica”123: a sinistra il Partito comunista e a destra il

122A. Galluccio, Il saluto fascista è reato? L’attuale panorama normativo e

giurisprudenziale ricostruito dal Tribunale di Milano, in una sentenza di condanna,

in Diritto penale contemporaneo, Aprile 2019.

123A. D’Andrea, Costituzione e partiti antisistema. Il PCI ed il contesto costituzionale

e politico dell’Italia nel secondo dopoguerra, in Storia sicurezza e libertà costituzionali. La vicenda dei servizi segreti italiani, Atti del Convegno, del 23/ 24

Movimento sociale italiano. Entrambi i partiti erano ritenuti per ragioni diverse al limite del sistema democratico: il primo per i rapporti intrattenuti col blocco sovietico e per l’adesione al Kominform, il secondo perché diretto a tenere viva l’eredità del fascismo, secondo la formula “Non rinnegare, non restaurare” coniata quando segretario del partito era Augusto De Marsanich.

Partendo dal primo, le ragioni di tanta diffidenza erano riconducibili, prevalentemente anche se non esclusivamente, a questioni di politica internazionale: l’inizio della guerra di Corea (1950-1953) favori una delle fasi più acute della Guerra fredda, cui si accompagnava il diffuso timore di un nuovo conflitto mondiale. In questo contesto, l’Italia, seppur firmataria del Patto atlantico (1949), conosceva la presenza di una forte opposizione comunista, ostile alla linea di politica estera italiana, e promettente, in caso di guerra, lo svolgimento di azioni di sabotaggio. Queste contingenze fecero maturare la convinzione e il timore che in caso di guerra il PCI potesse agire come “quinta colonna” obbediente agli ordini sovietici e operante a scopo sovversivo. Già, i risultati delle elezioni politiche dell’aprile 1948, consegnando la maggioranza assoluta dei seggi alla Democrazia cristiana, avevano segnato in modo definitivo l’emarginazione delle forze comuniste e socialiste del Paese, facendo della DC, oltre che il principale partito italiano, il naturale riferimento per l’elettorato anticomunista.

Negli anni successivi, queste tensioni si acuirono in modo significativo e a partire dagli anni ‘50 si apri la discussione sulla possibilità di istituire una “democrazia protetta”, al fine dichiarato di arginare il temuto “pericolo rosso”. Tale obiettivo si manifestò specialmente nel tentativo di varare una legislazione eccezionale, culminata poi nella legge elettorale bollata come “Legge Truffa”

(1953)124. In questo quadro si inseriscono quindi una serie di provvedimenti varati in quegli anni, allo scopo dichiarato di escludere dalla vita politica italiana le forze di estrema destra e sinistra. In questo senso, pare opportuno segnalare, oltre alla già menzionata Legge Scelba, il disegno di legge sulla difesa civile, proposto dall’allora ministro Mario Scelba nell’ottobre 1950 e salutato come il “primo provvedimento speciale teso all’istaurazione di una democrazia protetta”125. Tale progetto, recante “Disposizioni

per la protezione della popolazione civile in caso di guerra o di calamità”, avrebbe istituito presso il Ministero dell’Interno la Direzione generale per i servizi di difesa civile, allo scopo di provvedere alla protezione della popolazione, in caso di eventi costituenti un pericolo per l’incolumità pubblica delle persone o compromettenti il funzionamento dei servizi indispensabili. Per favorire lo svolgimento di questi compiti, l’art. 4 del medesimo disegno avrebbe consentito “la requisizione di beni e di prestazioni personali nei limiti strettamente indispensabili per il funzionamento dei relativi servizi” e su ordine del Ministro dell’interno, “in caso di grave e urgente necessità dipendente da calamità o in caso di pericolo per la sicurezza del Paese riconosciuto dal Consiglio dei ministri”. Pare opportuno segnalare come tale riferimento al “pericolo per la sicurezza del paese” costituisse, secondo molti126, il punto di

maggiore criticità del progetto in esame, in quanto si temeva potesse essere interpretato in modo da includervi le azioni di sabotaggio, gli scioperi e più in generale le agitazioni popolari di ogni sorta. In

124 Tale legge prevedendo il passaggio al sistema maggioritario (con assegnazione del 65% dei seggi al partito o alla coalizione che avesse ottenuto la metà più una delle preferenze) era volta a blindare la formula centrista, inserendosi a pieno nel disegno politico degasperiano di costruzione di una “democrazia protetta”.

125

I. Rossini, Democrazia protetta e leggi eccezionali: un dibattito politico italiano (1950-1953), in Dimensioni e problemi della ricerca storica, n. 2/2011, pp. 75-95.

questo senso la legge sulla difesa civile avrebbe assunto un carattere squisitamente politico e strumentale a mettere fuori gioco gli oppositori politici. Un altro disposto su cui si condensarono molte critiche era quello che avrebbe consentito, ex art. 6, al Ministro dell’interno di avvalersi “anche di personale volontario”, ai fini dello svolgimento di tali servizi. In particolare, le forze socialiste e comuniste tendevano a leggere tale riferimento come allusivo ad un possibile ritorno della Milizia Volontaria per la sicurezza nazionale del fascismo127. Nonostante le dure critiche e i tentativi di ostruzionismo, tale disegno fu comunque approvato alla Camera e poi trasmesso al Senato, dove però decadde con la fine della legislatura.

Un altro provvedimento proposto in quegli anni e del quale pare opportuno trattare è rappresentato dalla proposta di legge degasperiana n. 2354 detta anche “Polivalente”. Tale proposta, diretta a proteggere la democrazia contro attacchi sovversivi da parte delle forze antidemocratiche, era stata approvata dal Consiglio dei ministri nel maggio del ‘52 e poco dopo depositata in Senato. Tale disegno si inseriva all’interno di una cornice di costruzione di uno Stato democraticamente forte, secondo la concezione degasperiana. Perciò introduceva delle fattispecie incriminatrici contro coloro che promuovevano, costituivano, dirigevano e organizzavano un partito, un’associazione o un movimento antidemocratico o minacciavano ed esaltavano l’uso della violenza come metodo di lotta politica, coloro che facevano propaganda per stabilire una dittatura, coloro che svolgevano un’attività diretta a reprimere il sentimento del dovere di difendere la patria. Le critiche maggiori rivolte a tale disegno si appuntarono soprattutto sulla vaghezza delle nozioni impiegate per

circoscrivere le fattispecie di reato128: invero, si temeva che a causa dell’indeterminatezza di espressioni, quali, ad esempio, “finalità antidemocratiche”, si potesse fornire il pretesto necessario a mettere fuori legge ogni oppositore temuto. Non mancò infine chi denunciò apertamente l’illegittimità costituzionale del disegno in esame129,

evidenziando come l’art. 49 della Costituzione individuasse quale unico limite per i partiti quello del rispetto del solo “metodo democratico”. Tale proposta non venne quindi discussa in Senato e decadde con la fine della legislatura.

In definitiva, l’obiettivo dichiarato di istaurare una “democrazia protetta”, attraverso il varo di una legislazione di stampo eccezionale, falli, a causa delle forti opposizioni esercitate dal PCI, PSI, con la CGIL e le organizzazioni di massa. Nondimeno, le pressioni interne ed internazionali per la costruzione di un fronte anticomunista culminarono in un progetto concentrazionista, sostenuto in modo costante sin dalle elezioni del 1948 ed implicante una collaborazione tra tutte le forze politiche anticomuniste, sulla base di una discriminante antimarxista. Per queste ragioni, è stata coniata l’espressione, ormai in uso nel linguaggio politologico italiano, di “conventio ad excludendum”130, allusiva alla prassi,

costante fino alla fine della Prima Repubblica, di escludere il PCI dalle coalizioni di governo.

Come anticipato in esordio, ad essere escluso dall’accesso al governo non fu solo il PCI: analoga sorte spettò al Movimento Sociale Italiano. Quest’ultimo fu fondato il 26 dicembre 1946 da alcuni reduci della Repubblica sociale italiana, come Giorgio Almirante ed

128 Ibidem.

129 V. Crisafulli, La Democrazia cristiana prepara nuove leggi eccezionali, in S. Bartole, R. Bin (a cura di), Politica e Costituzione. Scritti militanti (1944-1955), Franco Angeli, Milano, 2018 p.171-178.

ex esponenti del regime fascista, tra cui Arturo Michelini, allo scopo dichiarato di rappresentare quanti si sentivano legati agli ideali del ventennio fascista131. All’interno del MSI convivevano tuttavia due fazioni contrastanti: un’ala intransigente legata agli ideali rivoluzionali ed antiparlamentari del fascismo ed altra più moderata, decisa a ritagliarsi un proprio spazio nel rispetto delle regole parlamentari. Le tensioni tra queste due fazioni culminarono nel 1950 nell’estromissione dalla segreteria di partito di Giorgio Almirante, in favore del più moderato Augusto de Marsianich, al fine di accelerare l’ingresso del partito nella vita democratica del paese. Grazie all’appoggio vaticano, operante in funzione anticomunista, il consenso elettorale del MSI crebbe in misura significativa già negli anni immediatamente successivi: alle elezioni politiche del 1953, assorbendo buona parte dei voti in fuga dalla DC, il partito raccolse il 5,8% dei voti. Negli anni successivi, i missini tentarono l’alleanza con la DC al fine di accedere al governo e inserirsi a pieno titolo nel panorama politico italiano. In questo senso va letto l’appoggio missino, determinante in termini di voti, al governo monocolore presieduto dal democristiano Tambroni. Il fallimento di quest’esperienza di governo segnò tuttavia l’isolamento del partito fino a quando al congresso nazionale di Fiuggi del gennaio 1995, il Msi lascerà spazio alla formazione partitica Alleanza Nazionale, abbandonando ogni riferimento ideologico al fascismo.

Dall’analisi che precede, risulta quindi pacifico che l’opzione adottata nei confronti di tale formazione partitica, pur di sospetta illegittimità per i suoi riferimenti ideologici, sia constata in definitiva

131 La mozione conclusiva del I congresso del MSI, svoltosi a Napoli in data 27- 29 Giugno 1948, sintetizza la posizione del MSI nei riguardi del fascismo nella formula “Non rinnegare e non restaurare”, fatta propria dall’allora esponente e poi segretario di partito Augusto De Marsianich, cfr. Pier Luigi Murgia, Ritorneremo!

Storia e cronaca del fascismo dopo la Resistenza, Sugarco, Milano, 1976, pp.100-

nella sua integrazione parlamentare. Nonostante, fosse relegata ad un’opposizione dura ed esclusa in modo costante dalle coalizioni di governo, l’ala più moderata del partito si impegnò nella costruzione di una linea legalitaria, che consenti di catalizzare al suo interno molte delle forze di estrema destra operanti all’epoca e di difendere le sorti del partito. Nondimeno, non mancarono tentativi di estromettere il partito dalla vita parlamentare, in applicazione della norma contenuta nel primo comma della XII disposizione transitoria e finale della Costituzione. In questo senso, merita di essere segnalato il disegno di legge n. 1125/1961 d’iniziativa del Senatore Ferruccio Parri, diretto ad ottenere lo scioglimento di tale formazione. Le critiche dirette a tale progetto132, come documentato dagli atti parlamentari, furono tuttavia durissime e si appuntarono sia sul merito che sul metodo di tale operazione.

Partendo dal metodo, ad essere contestata, tra l’altro, era la legittimazione parlamentare allo scioglimento del partito: ex art. 3 della Legge Scelba, la competenza ad emanare il provvedimento di scioglimento è attribuita alternativamente: al Ministro per l’interno, sentito il Consiglio dei ministri, qualora con previa sentenza risulti accertata la riorganizzazione del disciolto partito fascista; ovvero, “nei casi straordinari di necessità e di urgenza”, al governo mediante decreto-legge. A ben vedere, nel caso di specie la magistratura non aveva pronunciato alcuna sentenza in proposito, né il Governo aveva rinvenuto quei casi straordinari di necessità ed urgenza legittimanti l’esercizio del potere di scioglimento. Di conseguenza, l’intervento parlamentare, stante la vigenza dell’art. 3 della Legge Scelba, avrebbe costituito, a detta di molti senatori, un’indebita interferenza

132 F. Parri (a cura di), Scioglimento del Movimento Sociale Italiano: in applicazione della norma contenuta nel primo comma della XII disposizione transitoria e finale della Costituzione discussione del disegno di legge d'iniziativa del senatore Parri atti parlamentari, Senato della Repubblica, S.l.: s.n., 1961, pag.23337-23350.

del potere legislativo nell’ambito proprio di quello giudiziario ed esecutivo, in contrasto quindi col principio della divisione dei poteri. A questo rilievo, se ne accompagnava un altro, decisivo, diretto ad evidenziare le gravi ripercussioni che sul piano penalistico avrebbe espletato tale operazione. Invero, la XII disposizione transitoria e finale esige ai fini dello scioglimento l’accertamento della riorganizzazione del disciolto partito fascista. Perciò, delle due l’una: o l’approvazione di tale disegno avrebbe condotto alla pronuncia che i promotori e dirigenti di tale movimento avevano riorganizzato il disciolto partito fascista, incorrendo nel reato di cui all’art. 3 della legge Scelba, ovvero tale progetto mirava allo scioglimento sic et

simpliciter del movimento, in contrasto dunque con la XII

disposizione finale.

Quanto al merito, ad essere contestata era per lo più l’opportunità politica di tale provvedimento: lo scioglimento di un partito politico è un intervento straordinario e quindi giustificabile solo a fronte di un pericolo serio per le istituzioni democratiche. Tale pericolo, secondo molti, non era invece rinvenibile nel caso di specie, in ragione della consistenza scarsamente significativa del MSI e dunque della scarsa rilevanza politica del fenomeno. Sembra corretto concludere che, congiuntamente a questi rilievi ed in considerazione dell’azione di catalizzatore propria del MSI, dietro queste motivazioni si celasse il timore, diffuso tra i parlamentari dell’epoca, che lo scioglimento potesse da un lato comportare l’eversione di gruppi oramai integrati nel gioco democratico, dall’altro far acquistare un’aurea di legittimazione a tale formazione politica. Tali rilievi furono quindi decisivi per il non passaggio all’esame degli articoli di tale disegno e per l’approvazione di un ordine del giorno, rimasto poi senza seguito, espressivo dell’esigenza di una iniziativa di legge che demandasse alla Corte costituzionale il compito di

giudicare sulla legittimità dei partiti alla stregua della XII disposizione e degli articoli 18, 49 e 54 della Costituzione. Nondimeno, le prospettive di scioglimento di tale formazione si riapriranno nuovamente negli anni ‘70: nel 1971 verrà infatti aperto un procedimento penale contro il MSI dalla Procura di Milano e nel 1972 la Camera concederà l’autorizzazione a procedere contro il segretario generale Almirante. Analogamente alle prime, anche queste iniziative tuttavia si risolveranno in un nulla di fatto.

8. La legge Scelba e la legge Mancino al banco di prova:

lo scioglimento di Ordine Nuovo, Avanguardia

Nazionale e Fronte Nazionale

Come anticipato, all’interno del MSI convivevano due anime contrapposte: l’ala minoritaria più rivoluzionaria e quella di maggioranza più moderata. Tali tensioni interne al partito si acuirono man mano che il MSI entrò in una fase di declino. In particolare, il fallimento dell’esperienza di governo Tambroni, gli procurò una perdita di credibilità e potere nell’ambito istituzionale, tale da aprire il varco ad iniziative esterne al partito. In questo scenario, vanno inquadrate le due formazioni di destra radicale: Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale, a cui si aggiungono le vicende riguardanti la formazione Fronte Nazionale. Nonostante il contributo di questi gruppi era stato esclusivamente extraparlamentare, gli stessi si resero protagonisti di fatti di rilevanza tale da giustificarne lo scioglimento. Partendo da Ordine Nuovo, la storia di tale movimento vede la sua genesi nel 1954: quando venne fondato, ad opera del missino Pino Rauti, come “Centro Studi” all’interno del Movimento sociale italiano. Due anni più tardi, in occasione del sesto congresso del MSI, venne formalizzato il distacco dal partito e il movimento

assunse il nome di Centro Studi Ordine Nuovo. La storia di Ordine Nuovo conosce due fasi distinte: la prima dalla costituzione al rientro nei ranghi del MSI, con conseguente scissione del gruppo e nascita del Movimento Politico Ordine Nuovo (1969); la seconda dalla scissione allo scioglimento deciso con decreto (1973). Invero, i moti di Reggio, unitamente ad una serie di episodi di aggressione attribuiti ai militanti di MPON, fecero di tale movimento l’oggetto privilegiato di attenzione da parte dell’autorità giudiziaria. Perciò, a seguito della pronuncia del tribunale di Roma con cui, in data 21 novembre 1973, venivano condannati trenta dirigenti per la riorganizzazione del disciolto partito fascista, venne disposto lo scioglimento del gruppo con decreto ministeriale. Il decreto di scioglimento non fermò comunque l’ala più rivoluzionaria dell’associazione, che continuò ad operare in modo clandestino anche dopo lo scioglimento, ma con un

ruolo assolutamente marginale.

Analoga sorte toccò nel 1976 al movimento politico Avanguardia Nazionale. Tale formazione fu fondata a Roma da Stefano delle Chiaie nel 1959, all’interno dei Gruppi Armati Rivoluzionari, staccatisi da Ordine Nuovo alla fine degli anni ‘50. Analogamente ad Ordine Nuovo, Avanguardia nazionale nacque per raccogliere il malcontento nei confronti dell’azione “sterile” dei partiti nazionali. A fronte della notevole vicinanza ideologica, Avanguardia nazionale privilegiava tuttavia un’impostazione maggiormente squadrista e tale da procurarsi numerosi provvedimenti giudiziari a carico dei militanti. Tali accadimenti spingeranno lo stesso Delle Chiaie a decidere, onde evitare un decreto di dissoluzione, lo scioglimento del gruppo nel 1966. Tale formazione tornerà però operante nel 1970, fino alla dissoluzione disposta nel giugno 1976 per ricostituzione del partito fascista, agli effetti della Legge Scelba. Nondimeno, il 25 e 26 giugno 2016, durante un convegno a Roma, alcuni dei vertici

storici di Avanguardia nazionale hanno reso pubblica l’intenzione di ricostituire il movimento, sotto lo stesso nome e simbolo delle origini. A questa notizia ha fatto seguito, nel silenzio delle istituzioni, la ricostituzione del movimento.

In conclusione, merita di essere segnalato lo scioglimento del movimento, fondato nel Gennaio 1991 da Franco Freda, Fronte nazionale. Tale formazione politica si rese protagonista tra il 1990 e il 1993 di un’azione di propaganda rispetto alla “questione razziale”, che gli costò un’inchiesta giudiziaria avviata dalla procura di Verona e culminata nella dissoluzione, decisa con decreto ministeriale nel novembre 2000. Diversamente dai casi sopracitati, lo scioglimento nel caso di specie fu tuttavia deciso sulla base di una sentenza che, derubricando il reato da ricostituzione del partito fascista a organizzazione avente lo scopo di incitamento all’odio razziale, applicò la legge Mancino.

CAPITOLO III:

LA PROTEZIONE DELLA

RAPPRESENTANZA IN GERMANIA

SOMMARIO: 1. I fallimenti della Repubblica di Weimar e l’eredità del nazismo nella Grundgesetz – 2. La protezione della rappresentanza politica nella fase di transizione alla democrazia – 3. La formulazione dell’art. 21 GG – 4. Questioni pregiudiziali all’applicazione dell’art. 21 GG – 4.1. Il concetto di partito politico – 4.2 La natura del partito politico – 5. La protezione della democrazia interna dei partiti – 6. Il secondo comma dell’art. 21 GG e la protezione dell’ordinamento democratico e liberale – 7. Il sistema sanzionatorio dell’art. 21 GG – 8. Lo scioglimento della Sozialistische Reichspartei Deutschlands – 9. Lo scioglimento della Kommunistische Partei Deutschlands – 10. Il procedimento contro NPD: la nuova giurisprudenza del

Bundesverfassungsgericht – 11. La revisione costituzionale dell’art. 21

GG.

1. I fallimenti della Repubblica di Weimar e l’eredità del

nazismo nella Grundgesetz

A seguito della caduta del regime nazista, il processo di transizione verso la democrazia fu guidato in parte dalle potenze alleate, in parte dall’élite democratica tedesca. In termini essenziali, l’azione degli uni e degli altri, nel processo di ricostruzione dello Stato tedesco, fu diretta a rimediare agli errori commessi sia durante il regime nazista che nella precedente esperienza della repubblica di Weimar133. A

133 Come noto, la sconfitta della Germania nazionalsocialista comportò la divisione dell’Impero tedesco in quattro zone di occupazione da parte delle potenze alleate: la zona di influenza sovietica, divenuta poi fino alla riunificazione (1989) Deutsche

seguito della Conferenza di Londra, il 1° luglio 1948 i governatori militari riunirono a Francoforte i vertici dei Länder occidentali, autorizzandoli a convocare un’assemblea (Parlamentarische Rat), composta da 65 delegati nominati dai Parlamenti dei Länder. I governatori degli alleati elaborarono alcuni documenti di indirizzo (Frankfurter Dokumente) per la redazione di una Carta Costituzionale a livello federale. Le linee guida individuate in tali documenti segnalarono la necessità, in discontinuità con l’esperienza nazista, di creare uno Stato federale e democratico, garante dei diritti e aperto ad una successiva riunificazione con il blocco d’influenza sovietica. In questa prospettiva, si decise che il documento, pur essendo formalmente una Costituzione, non ne avesse il nome: Legge fondamentale (Grundgesetz) anziché Costituzione.

Entrata in vigore il 23 gennaio 1949, l’intero impianto della Legge