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La disciplina del danno ambientale come sentinella normativa

Non pare necessario, ai fini della trattazione, soffermarsi sulla disciplina del danno ambientale generalmente intesa362, nè tantomeno sulle vicissitudini storiche che

han portato alla formulazione del concetto attuale di danno ambientale.

360 A titolo meramente esemplificativo: Considerando 1: “[…] le specie esotiche, se raggiungono un numero considerevole, possono diventare invasive e occorre prevenire i gravi effetti negativi che ciò può avere non solo sulla biodiversità e sui servizi ecosistemici collegati, ma anche sulla società e sull’economia”; Considerando 2: “Le specie esotiche invasive rappresentano una delle principali minacce per la biodiversità e i servizi ecosistemici collegati, in particolare per gli ecosistemi isolati sotto il profilo geografico ed evolutivo, come le isole di piccole dimensioni”; Considerando 3: “Vari sono i modi in cui le specie esotiche invasive possono mettere a repentaglio la biodiversità e i servizi ecosistemici collegati, anche con gravi effetti sulle specie autoctone, nonché sulla struttura e sulle funzioni di un ecosistema alterandone gli habitat, mettendo in atto comportamenti di predazione e competizione, trasmettendo malattie, sostituendosi alle specie autoctone in una parte cospicua dell’areale e inducendo effetti genetici mediante ibridizzazione.”

361 Direttiva 2004/35/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 21 aprile 2004, sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale.

362 Per approfondimenti, ex multis, G. PERULLI, Il danno ambientale, Torino, Giappichelli, 2012; F. GIAMPIETRO, La responsabilità per danno all’ambiente. L’attuazione della Direttiva 2004/35/CE, Milano, Giuffrè, 2006; M. ALBERTON, La quantificazione e la riparazione del danno ambientale nel

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Ciò che interessa in questa sede e su cui si ritiene utile focalizzare l‘attenzione è la parte di disciplina europea che pare fare riferimento (seppur non espressamente) proprio agli illustrati concetti di servizi ecosistemici e resilienza.

La direttiva 2004/35/CE, infatti, definisce espressamente:

- il “danno ambientale” come il: “danno alle specie e agli habitat naturali protetti, vale a dire qualsiasi danno che produca significativi effetti negativi sul raggiungimento o il mantenimento di uno stato di conservazione favorevole di tali specie e habitat” (quindi danno alla biodiversità), “e qualsiasi danno che incida in modo significativamente negativo sullo stato ecologico, chimico e/o quantitativo e/o sul potenziale ecologico delle acque”363;

- nello specifico, per "danno" si intende “un mutamento negativo misurabile di una risorsa naturale o un deterioramento misurabile di un servizio di una risorsa naturale, che può prodursi direttamente o indirettamente”364;

diritto internazionale e dell’Unione Europea, Milano, Giuffrè, 2011; B. POZZO, La responsabilità per

danno all’ambiente, in G. ROSSI (a cura di), Diritto dell’ambiente, Torino, Giappichelli, 2011.

363 Articolo 2 – Definizioni. “Ai fini della presente direttiva valgono le seguenti definizioni: 1. «danno ambientale»: a) danno alle specie e agli habitat naturali protetti, vale a dire qualsiasi danno che produca significativi effetti negativi sul raggiungimento o il mantenimento di uno stato di conservazione favorevole di tali specie e habitat. L'entità di tali effetti è da valutare in riferimento alle condizioni originarie, tenendo conto dei criteri enunciati nell'allegato I; Il danno alle specie e agli habitat naturali protetti non comprende gli effetti negativi preventivamente identificati derivanti da un atto di un operatore espressamente autorizzato dalle autorità competenti, secondo le norme di attuazione dell'articolo 6, paragrafi 3 e 4 o dell'articolo 16 della direttiva 92/43/CEE o dell'articolo 9 della direttiva 79/409/CEE oppure, in caso di habitat o specie non contemplati dal diritto comunitario, secondo le disposizioni della legislazione nazionale sulla conservazione della natura aventi effetto equivalente. b) danno alle acque, vale a dire qualsiasi danno che incida in modo significativamente negativo sullo stato ecologico, chimico e/o quantitativo e/o sul potenziale ecologico delle acque interessate, quali definiti nella direttiva 2000/60/CE, a eccezione degli effetti negativi cui si applica l'articolo 4, paragrafo 7 di tale direttiva; c) danno al terreno, vale a dire qualsiasi contaminazione del terreno che crei un rischio significativo di effetti negativi sulla salute umana a seguito dell'introduzione diretta o indiretta nel suolo, sul suolo o nel sottosuolo di sostanze, preparati, organismi o microrganismi nel suolo”.

364 Articolo 2 – Definizioni. “Ai fini della presente direttiva valgono le seguenti definizioni: […] 2. «danno»: un mutamento negativo misurabile di una risorsa naturale o un deterioramento misurabile di un servizio di una risorsa naturale, che può prodursi direttamente o indirettamente”.

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- i servizi naturali meritevoli di tutela sono definibili come “le funzioni svolte da una risorsa naturale a favore di altre risorse naturali e/o del pubblico”365.

Il grado di consapevolezza e rilevanza riconosciuto dalla Direttiva alla funzione ecosistemica dell’ambiente, a scapito della dimensione materiale, è di immediata percezione366.

Non solo si distingue espressamente tra danno alla risorsa e danno al servizio ecosistemico offerto dalla risorsa stessa (tra l’altro, evocando la congettura, accennata nel cap. II, circa la possibile distinzione tra danno ambientale e danno ecosistemico – vedi nota n. 279), ma si riconosce come oggetto di tutela anche il servizio ecosistemico la cui utilità è diretta a favore di altre risorse naturali, e non solo dell’uomo.

Ciò che rileva per il diritto, quindi, non è solo il servizio ecosistemico strettamente collegato al valore d’uso che l’uomo riconosce alla risorsa naturale fonte, ma è anche il servizio che quella risorsa offre al sistema in cui essa stessa è inserita. Ciò che il legislatore europeo tutela, quindi, è (anche) l’utilità che la risorsa naturale fornisce al sistema per il sol fatto di esistere e di occupare una certa collocazione relazionale all’interno dello stesso.

L’uomo, in questi casi, beneficia di dette utilità solo in maniera indiretta, in quanto facente parte, a sua volta, del sistema ecologico. Ecco quindi ripresentarsi i concetti di valore di esistenza e di comunità (e solidarietà) biotica illustrati nel capitolo precedente.

Procedendo con la disamina della direttiva, si rilevano ulteriori spunti di indubbio interesse.

365Articolo 2 – Definizioni. “Ai fini della presente direttiva valgono le seguenti definizioni: […] 13. «servizi» e «servizi delle risorse naturali»: le funzioni svolte da una risorsa naturale a favore di altre risorse naturali e/o del pubblico”.

366 Concorde, sul punto, A. FARÌ, Beni e funzioni ambientali. Contributo allo studio della dimensione

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L'entità dei richiamati effetti negativi su specie o habitat e il carattere “significativo” degli stessi, specifica la direttiva367, è da valutare tenendo conto dei

criteri enunciati dalla stessa all'Allegato I368, secondo il quale “il carattere

significativo di un danno […] è da valutare in riferimento allo stato di conservazione, al momento del danno, ai servizi offerti dai valori ricreativi connessi e alla capacità di rigenerazione naturale.”

Tali effetti negativi, continua, dovrebbero essere determinati sulla base di “dati misurabili” (indicati dallo stesso allegato in un elenco non tassativo). Tra questi, viene menzionata la “capacità della specie o dell'habitat, dopo che il danno si è verificato, di ripristinarsi in breve tempo, senza interventi diversi da misure di protezione rafforzate, in uno stato che […] conduca a condizioni ritenute equivalenti o superiori alle condizioni originarie.”

367 Articolo 2 – Definizioni. “Ai fini della presente direttiva valgono le seguenti definizioni: 1. «danno ambientale»: a) danno alle specie e agli habitat naturali protetti, vale a dire qualsiasi danno che produca significativi effetti negativi sul raggiungimento o il mantenimento di uno stato di conservazione favorevole di tali specie e habitat. L'entità di tali effetti è da valutare in riferimento alle condizioni originarie, tenendo conto dei criteri enunciati nell'allegato I”.

368 Allegato I – Criteri di cui all’articolo 2, punto 1), lettera a). “Il carattere significativo di un danno che produce effetti negativi sul raggiungimento o il mantenimento di uno stato di conservazione favorevole di specie o habitat è da valutare in riferimento allo stato di conservazione, al momento del danno, ai servizi offerti dai valori ricreativi connessi e alla capacità di rigenerazione naturale. Gli effetti negativi significativi rispetto alle condizioni originarie dovrebbero essere determinati con dati misurabili, del tipo: — numero degli individui, loro densità o area coperta; — ruolo di determinati individui o dell'area danneggiata in relazione alla specie o alla conservazione dell'habitat, alla rarità della specie o dell'habitat (valutata a livello locale, regionale e più alto, anche a livello comunitario); — capacità di propagazione della specie (secondo la dinamica propria alla specie o alla popolazione), sua vitalità o capacità di rigenerazione naturale dell'habitat (secondo le dinamiche proprie alle specie che lo caratterizzano o alle loro popolazioni); — capacità della specie o dell'habitat, dopo che il danno si è verificato, di ripristinarsi in breve tempo, senza interventi diversi da misure di protezione rafforzate, in uno stato che, unicamente in virtù della dinamica della specie o dell'habitat, conduca a condizioni ritenute equivalenti o superiori alle condizioni originarie. Il danno con un provato effetto sulla salute umana deve essere classificato come significativo. Non devono essere classificati come danni significativi: — le variazioni negative inferiori alle fluttuazioni naturali considerate normali per la specie o l'habitat in questione; — le variazioni negative dovute a cause naturali o risultanti da interventi connessi con la normale gestione dei siti, quale definita nei documenti di gestione o di indirizzo relativi all'habitat, o praticata anteriormente dai proprietari o dagli operatori; — il danno a specie o habitat per i quali è stabilito che si ripristineranno entro breve tempo e senza interventi, o nelle condizioni originarie o in uno stato che, unicamente in virtù della dinamica della specie o dell'habitat, conduca a condizioni ritenute equivalenti o superiori alle condizioni originarie.”

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Tali previsioni, menzionando concetti quali “stato di conservazione”369, “capacità

di rigenerazione naturale”, “capacità di ripristino”, non possono che esser ricondotte al concetto ecologico di resilienza e alle soglie di vulnerabilità allo stesso connesse.

A conferma di ciò, la previsione secondo la quale non devono essere classificati come danni significativi, tra gli altri, quelli che rispettano “le variazioni negative inferiori alle fluttuazioni naturali considerate normali per la specie o l'habitat in questione” e “il danno a specie o habitat per i quali è stabilito che si ripristineranno entro breve tempo e senza interventi, o nelle condizioni originarie o in uno stato che, […] conduca a condizioni ritenute equivalenti o superiori alle originarie.”

Le variazioni negative che non devono essere considerate dannose quindi, non possono che essere quelle che rispettano le soglie di resilienza dell’ecosistema di riferimento (e che quindi il sistema è in grado di “assorbire” naturalmente).

Una ulteriore conferma dell’approccio ecosistemico-funzionale caratterizzante la direttiva in oggetto si può riscontrare analizzando la disciplina degli obblighi di riparazione conseguenti all’avverarsi del danno ambientale.

Tralasciando volutamente i profili attinenti i principi della prevenzione, della correzione dei rischi alla fonte, del “chi inquina paga” e della precauzione, ci si vuole soffermare sulla priorità che il legislatore europeo ha voluto riconoscere alla tutela in forma specifica (e alla conseguente necessità di optare per una valutazione degli interessi in gioco a seconda delle circostanze di fatto e di diritto)

369 La stessa Direttiva, all’art. 2, punto 4, afferma che “Lo stato di conservazione di un habitat naturale è considerato «favorevole» quando: […] — le strutture e le funzioni specifiche necessarie per il suo mantenimento a lungo termine esistono e continueranno verosimilmente a esistere in un futuro prevedibile, […]”. Ciò non può che evocare il concetto di resilienza dell’ecosistema: lo stato di conservazione dell’habitat è favorevole quando le soglie di resilienza sono rispettate il sistema non è quindi vulnerabile.

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piuttosto che a quella per equivalente (che, al contrario, monetizza il danno lasciando immutato l’assetto di interessi)370.

La finalità della disciplina della responsabilità cui risponde la direttiva risulta essere unicamente la riparazione del danno: non si scorge alcun profilo sanzionatorio, risarcitorio o afflittivo, prevedendo esclusivamente l’attribuzione di obblighi di ripristino dello status quo ante371. La valutazione monetaria, infatti, viene presa in

considerazione solo quale strumento per la misurazione -economica- degli interventi di riparazione alternativa, e mai come misura di riparazione in sé e per sé, rispondendo, anche da questo punto di vista, all’approccio funzionale illustrato fino ad ora.

Uno degli aspetti di maggior interesse, in tal senso, si rinviene nell’allegato 2 della direttiva (“Riparazione del danno ambientale”), dove vengono indicate le misure considerate più appropriate cui attenersi per garantire la riparazione del danno ambientale.

370 Infatti, al Considerando 14 si legge: “la presente direttiva non si applica ai casi di lesioni personali, al danno alla proprietà privata, alle perdite economiche e non pregiudica qualsiasi diritto concernente questo tipo di danni. Qualora vi sia un danno che riguardi il valore patrimoniale, quindi, la sua risarcibilità seguirà le vie ordinarie.”

371 Proprio tale prospettiva, nello specifico, ha comportato problematiche nel recepimento della direttiva in Italia. Molto brevemente, la materia del danno ambientale viene disciplinata per la prima volta nel nostro Paese dalla L. 8 luglio 1986, n. 349 istitutiva del Ministero dell’ambiente, che all’art. 18 contemplava due modalità di valutazione e calcolo dell’obbligo risarcitorio: il ripristino dello stato dei luoghi a spese del responsabile e – in caso di impossibile quantificazione del danno – la determinazione dell’ammontare in via equitativa. Con la Dir. 2004/35/CE (Allegato II), viene imposta una visione secondo la quale il profilo risarcitorio deve occupare una posizione assolutamente accessoria rispetto a quello riparatorio. Tale prospettiva viene recepita dal nostro legislatore con il D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152. Successivamente, nel 2008 e nel 2012, tali disposizioni vengono sottoposte a duplice procedura di infrazione dell’UE in quanto ritenute non sufficientemente atte a recepire la direttiva in oggetto. La principale critica che la Commissione muoveva al legislatore italiano verteva proprio sul mancato recepimento del sistema di riparazione, dal momento che permanevano, nel nostro sistema, strumenti di risarcimento per equivalente pecuniario o patrimoniale. Il D.Lgs 152/06 è divenuto quindi oggetto di rilevanti modifiche (D.L. n. 135/2009 e L. n. 97/2013), al fine di conformare la disciplina interna alle indicazioni comunitarie contenute nella Dir. 2004/36/CE. Ad oggi, anche secondo il nostro Codice dell’Ambiente (art. 311), quindi, il danno ambientale non può essere risarcito per equivalente.

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Secondo il punto 1) dell’Allegato II, “la riparazione del danno ambientale, in relazione all'acqua o alle specie e agli habitat naturali protetti, è conseguita riportando l'ambiente danneggiato alle condizioni originarie tramite misure di riparazione primaria, complementare e compensativa, da intendersi come segue:

a) riparazione «primaria»: qualsiasi misura di riparazione che riporta le risorse e/o i servizi naturali danneggiati alle o verso le condizioni originarie;

b) riparazione «complementare»: qualsiasi misura di riparazione intrapresa in relazione a risorse e/o servizi naturali per compensare il mancato ripristino completo delle risorse e/o dei servizi naturali danneggiati;

c) riparazione «compensativa»: qualsiasi azione intrapresa per compensare la perdita temporanea di risorse e/o servizi naturali dalla data del verificarsi del danno fino a quando la riparazione primaria non abbia prodotto un effetto completo;

d) «perdite temporanee»: perdite risultanti dal fatto che le risorse e/o i servizi naturali danneggiati non possono svolgere le loro funzioni ecologiche o fornire i servizi ad altre risorse naturali o al pubblico fino a che le misure primarie o complementari non abbiano avuto effetto. Non si tratta di una compensazione finanziaria al pubblico.”

Quanto alle finalità di dette misure di riparazione, l’Allegato II (1.1. Obiettivi di riparazione) specifica: “Lo scopo della riparazione primaria è quello di riportare le risorse naturali e/o i servizi danneggiati alle o verso le condizioni originarie. Qualora le risorse naturali e/o i servizi danneggiati non tornino alle condizioni originarie, sarà intrapresa la riparazione complementare. Lo scopo della riparazione complementare è di ottenere, se opportuno anche in un sito alternativo, un livello di risorse naturali e/o servizi analogo a quello che si sarebbe ottenuto se il sito danneggiato fosse tornato alle condizioni originarie. Laddove possibile e opportuno, il sito alternativo dovrebbe essere geograficamente

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collegato al sito danneggiato, tenuto conto degli interessi della popolazione colpita. Finalità della riparazione compensativa. La riparazione compensativa è avviata per compensare la perdita temporanea di risorse naturali e servizi in attesa del ripristino. La compensazione consiste in ulteriori miglioramenti alle specie e agli habitat naturali protetti o alle acque nel sito danneggiato o in un sito alternativo. Essa non è una compensazione finanziaria al pubblico.”

La direttiva prosegue: “Nel determinare la portata delle misure di riparazione complementare e compensativa, occorre prendere in considerazione in primo luogo l'uso di metodi di equivalenza risorsa-risorsa o servizio-servizio. Con detti metodi vanno prese in considerazione in primo luogo azioni che forniscono risorse naturali e/o servizi dello stesso tipo, qualità e quantità di quelli danneggiati. Qualora ciò non sia possibile, si devono fornire risorse naturali e/o servizi di tipo alternativo” (All. II, punto 1.2.2).

Ciò che emerge, a ben vedere, è un modello compensativo che si basa sulla sostituzione di beni nella prospettiva di garantire una funzione ecosistemica, traslando nuovamente l’attenzione dalla dimensione materiale a quella funzionale372.

Ne è ulteriore riprova il fatto che venga prevista espressamente la possibilità di operare le misure di riparazione complementare e compensativa in siti diversi rispetto a quelli effettivamente danneggiati. Ciò che si mira ad ottenere in questi casi, quindi, va da sé, non è il ripristino di quella risorsa, in quanto danneggiata, o del servizio assicurato dalla stessa, ma il recupero di un livello di risorse e servizi analogo a quello esistente prima dell’avvenuto danneggiamento. Proprio per questo ciò è consentito, se ritenuto opportuno, anche in un sito alternativo.

Una tale previsione non può che esser letta (pena, non aver senso logico alcuno) alla luce dei concetti di funzionalità ecosistemica e resilienza: il legislatore europeo

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riconosce la capacità del sistema di fluttuare ed assorbire input esterni, riassestandosi, anche tramite variazioni interne, e ristabilendo, in un certo lasso temporale, l’equilibrio funzionale precedente.

Cambiano quindi i fattori, ma la risposta prestazionale (che si vuole preservare) deve restare la stessa.

Queste misure di riparazione (fatto salvo il reintegro integrale, comunque spesso molto difficile da realizzare) danno quindi per presupposta la considerazione secondo cui una funzione ecosistemica danneggiata può essere ripristinata intervenendo anche su risorse diverse da quelle effettivamente e direttamente colpite dall’evento dannoso373.

Ne deriva che il fascio di utilità riconducibile ad una risorsa naturale inserita in un determinato (eco)sistema relazionale rappresenta il fondamento (giuridico e, ancor prima, scientifico) del descritto meccanismo di riparazione tramite sostituzione di risorse e, al contempo, il limite entro cui tale meccanismo può funzionare: la sostituzione di risorse (che avvenga o meno nel locus colpito dal danneggiamento) ha senso e va effettuata, infatti, solo se risulta effettivamente in grado di garantire il livello di funzionalità richiesto dalla norma. Proprio per questo, tale previsione richiede valutazioni tecniche-scientifiche di livello elevato, applicate di volta in volta alle circostanze di fatto e di diritto.

373 Dir. 2004/35/CE, art. 2, punto 11. “«Misure di riparazione»: qualsiasi azione o combinazione di azioni, tra cui misure di attenuazione o provvisorie dirette a riparare, risanare o sostituire risorse naturali e/o servizi naturali danneggiati, oppure a fornire un'alternativa equivalente a tali risorse o servizi, come previsto nell'allegato II.”

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CAPITOLO 5

L’APPROCCIO ECOSISTEMICO-FUNZIONALE NELLA

DISCIPLINA DELLE AREE PROTETTE

Le riflessioni svolte relativamente alla dimensione funzionale-ecosistemica dell’ambiente e al ruolo che questa ha o può avere nel diritto, non possono ora che affacciarsi alla disciplina delle aree protette, così come prevista dalla legge quadro n. 394 del 6 dicembre 1991.

Questa scelta risulta doverosa ai fini della compiutezza dell’indagine in atto, non solo per il fatto che le aree protette sono considerate, nel nostro ordinamento, lo strumento principe374 per la protezione degli ambienti naturali e degli ecosistemi

ad elevato valore naturalistico375, ma anche perché la relativa disciplina è una delle

374 “[...] è stato notato in dottrina, con efficacia, che la protezione della natura mediante il parco è la forma più alta ed efficace tra i vari possibili modelli di tutela dell’ambiente. [...] Non può in sostanza porsi in dubbio che la ragione d’essere della delimitazione dell’area protetta risieda nell’esigenza di protezione integrale del territorio e dell’eco-sistema e che, conseguentemente, ogni attività umana di trasformazione dell’ambiente all’interno di un’area protetta, vada valutata in relazione alla primaria esigenza di tutelare l’interesse naturalistico, da intendersi preminente su qualsiasi indirizzo di politica economica o ambientale di diverso tipo [...]”, Cass., Sez. VI, 16 novembre 2004, n. 7472.

375 Legge 394/91, art. 1 - Finalità e ambito della legge – “1. La presente legge, in attuazione degli articoli 9 e 32 della Costituzione e nel rispetto degli accordi internazionali, detta principi fondamentali per l'istituzione e la gestione delle aree naturali protette, al fine di garantire e di promuovere, in forma coordinata, la conservazione e la valorizzazione del patrimonio naturale del paese.

2. Ai fini della presente legge costituiscono il patrimonio naturale le formazioni fisiche, geologiche, geomorfologiche e biologiche, o gruppi di esse, che hanno rilevante valore naturalistico e ambientale.

Art. 2 - Classificazione delle aree naturali protette.

1. I parchi nazionali sono costituiti da aree terrestri, fluviali, lacuali o marine che contengono uno o più ecosistemi intatti o anche parzialmente alterati da interventi antropici, una o più formazioni