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La tutela della fauna selvatica è sempre stata disciplinata dal legislatore unitamente alla disciplina della caccia, accompagnando la dimensione della tutela della risorsa faunistica a quella della fruizione della stessa e ponendo nel canale di tutela sia l’interesse negativo alla protezione della risorsa de qua che l’interesse positivo e contrario del privato al prelievo venatorio.

Proprio a fronte di ciò, non risulta possibile affrontare la tematica della governance faunistica in ottica sistemico-funzionale senza prendere in considerazione anche la disciplina dell’attività venatoria, pena offrire una trattazione lacunosa e frammentaria.

Le funzioni che ad oggi si ritiene possano -rectius, debbano- essere ricondotte all’attività venatoria scaturiscono da un’evoluzione del concetto stesso di caccia, convertito nel tempo da fonte di approvvigionamento ad esercizio di addestramento bellico, sfoggio di uno status sociale e, infine, attività ludico- ricreativa.

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Negli ultimi decenni, si sottolinea fin da ora, si è assistito inoltre ad una progressiva

pubblicizzazione dell’impianto normativo della disciplina della caccia427, col

graduale affermarsi della prevalenza dell’interesse pubblico alla conservazione del patrimonio faunistico e naturalistico rispetto all’interesse privato all’esercizio dell’attività venatoria428.

Proprio in seno a tale evoluzione viene ad emergere la dimensione prettamente ecosistemico-funzionale alla luce della quale si ritiene necessario, ad oggi, come si dirà, leggere la disciplina relativa alla gestione della fauna selvatica.

Nell’offrire una breve disamina storica della disciplina in oggetto, si può individuare come prima tappa normativa429 il Testo unico sulla caccia emanato dal

r.d. 5 giugno 1939, n. 1016 (Approvazione del testo unico delle norme per la

protezione della selvaggina e per l'esercizio della caccia), ai sensi del quale si

riconosceva un vero e proprio diritto soggettivo di caccia come diritto naturale assoluto dell’individuo430.

427 N. LUCIFERO, I danni all’agricoltura dalla fauna selvatica. Prevenzione e responsabilità, Torino, Giappichelli, 2015, p. 51 e M. RUOTOLO, Caccia, in Il diritto amministrativo dopo le riforme

costituzionali, vol. 1 e 2, Milano, Giuffrè, 2006, p. 422.

428 Tendenza emersa anche a livello giurisprudenziale: Corte cost. sentt. nn. 1002 de 1988, 35 del 1995, 536 del 2002, 169 del 1999.

429 Una normativa italiana unitaria è mancata fino al Regio Decreto 24 giugno 1923, n. 1420 (in precedenza, il Codice civile del 1865) nel quale si precisava che la fauna oggetto di caccia era considerata “fra le cose che non sono ma possono venire in proprietà d’alcuno con l’occupazione”, al pari di cose mobili abbandonate (res derelictae). A tale Regio Decreto seguirono, fino al 1929, diverse leggi e decreti, non raccolti in un testo unico, che insieme ai principi generali fissati dal Codice Civile andavano a formare complessivamente il diritto venatorio in vigore in Italia.

430 L’art. 2, co. 2, disponeva che «in terreno libero la selvaggina appartiene a chi la uccide o la cattura […]. Peraltro, appartiene al cacciatore quella scovata finché non ne abbandoni l’inseguimento e quella palesemente ferita al feritore». Sul punto, J. GALLO CURCIO – C. LACAVA, La caccia, in S. CASSESE (a cura di), Trattato di diritto amministrativo, Diritto amministrativo speciale, Tomo IV, Milano, Giuffrè, 2003, p. 3255.

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La selvaggina, considerata res nullius431, era oggetto di libera appropriazione da

parte di chi esercitava sulla stessa l’attività venatoria mediante il mezzo di acquisizione a titolo originario dell’occupazione, ex art. 932 c.c.432

Oggetto delle disposizioni del T.U. erano tutti i mammiferi e gli uccelli viventi in libertà per la cui tutela erano create zone di protezione e zone di ripopolamento e cattura (ZRC); venivano inoltre individuati i c.d. “animali nocivi”, ritenuti potenzialmente pericolosi per le piantagioni, gli allevamenti, la pescicoltura e la selvaggina stanziale protetta433 e rispetto ai quali veniva agevolato quindi

l’abbattimento.

Negli anni ’50-’60, in risposta ad un ambiente sostanzialmente integro, si osservava un equilibrio fra il numero di cacciatori e la selvaggina e la preoccupazione per la tutela del patrimonio faunistico -e dell’ambiente in generale- era scarsa, se non assente. Preoccupazione ed obiettivo principale riconducibile alla disciplina in oggetto era, piuttosto, mantenere “l’autosufficienza” relativamente alla disponibilità di selvaggina, proteggendo quindi la fauna in quanto oggetto di caccia e non come risorsa ambientale. In quest’ottica, infatti, le zone di ripopolamento e cattura e le riserve di caccia rivestivano un’accentuazione marcatamente produttiva, funzionale alle esigenze venatorie: la fauna era vista, vissuta e trattata esclusivamente come una risorsa da sfruttare.

Innovazioni di rilievo sono state introdotte nel 1977 con la legge quadro del 27 dicembre, n. 968 (Principi generali e disposizioni per la protezione e la tutela della

431 Già lo storico Senofonte, autore del trattato Caccia con i cani, dettava un codice etico per la caccia, ma si sono dovuti attendere i Romani per vedere stabilito il principio giuridico del res nullius per la selvaggina: la cacciagione è un prodotto del suolo e quindi non appartiene a nessuno, essendo le ferae bestiae in condizione di assoluta libertà da vincoli di appartenenza, a meno che non vengano catturate (occupatio) o domesticate.

432 Cass. SU, 21 gennaio 1976, n. 180, in Giust. Civ., 1976, I, p. 519.

433 Tra gli animali considerati nocivi venivano inclusi il lupo, il gatto selvatico, l’aquila, il gufo reale, il cinghiale e i rapaci notturni.

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fauna e disciplina della caccia), step fondamentale per la protezione della fauna

selvatica, la quale veniva qualificata, in ossequio al principio innovativo sancito all’articolo 1, non più come res nullius suscettibile di acquisto tramite occupazione, ma come “patrimonio indisponibile dello stato”, tutelato “nell’interesse della comunità nazionale”.

Tale mutamento di prospettiva legislativa si evince anche dalla formulazione dei citati titoli normativi, e specificatamente dalla sostituzione del termine selvaggina del T.U. n. 1016/1939 con il termine fauna della l. 968/77, segnale inequivocabile della volontà del legislatore di abbandonare l’originaria concezione di protezione finalizzata esclusivamente all’esercizio dell’attività venatoria.

All’articolo 11 venivano indicate le 69 specie oggetto di caccia (con relativo periodo temporale)434, che risultavano come eccezione al divieto generale di

“abbattere, catturare, detenere o commerciare esemplari di qualsiasi specie di mammiferi e uccelli appartenenti alla fauna selvatica italiana”: la caccia veniva quindi vietata in linea generale, ma permessa per specie e periodi prestabiliti, sempre a patto che non comportasse la riduzione delle specie e non danneggiasse le colture.

Veniva ad emergere così il passaggio cruciale dal quale sarebbe scaturito poi il totale rovesciamento dell’impostazione originaria (così come consacrato dalla successiva legge n. 157/1992): la fauna selvatica era tutelata in quanto tale e relativamente alla stessa era riconosciuto un interesse della comunità

434 L’elenco può essere modificato con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, interpellato l’Istituto Nazionale di Biologia della Selvaggina e il Comitato Tecnico Venatorio Nazionale, i cui pareri non sono però vincolanti. L’articolo specifica che l’intervento del Presidente del Consiglio si rende necessario «quando la situazione della fauna o di una parte di essa, lo richieda». Formula passibile di interpretazioni arbitrarie poiché la legge individua determinate situazioni, non escludendo che qualunque causa possa suggerire l’intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri. Unico limite generico è rappresentato dal comma 1 dell’art. 8, che ammette la caccia a condizione che “non contrasti con l’esigenza di conservazione della selvaggina e non arrechi danno effettivo alle produzioni agricole”.

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riconducibile al ruolo che questa gioca nella salvaguardia e nel mantenimento degli equilibri ecologici ed ecosistemici del territorio nazionale.

La fauna protetta viene a configurarsi così come bene pubblico, vincolato ex lege alla conservazione del patrimonio naturale e ambientale, anche in relazione alla fruibilità dello stesso da parte della collettività. In quanto bene pubblico, di conseguenza, alla fauna si applica la normativa generale riguardante i beni patrimoniali indisponibili, in forza della quale il bene non può essere sottratto alla sua destinazione se non secondo le modalità previste dalla legge: il diritto di caccia si tramuta quindi nella facoltà concessa dallo Stato al privato di abbattere, in particolari condizioni di tempo e di luogo, determinate specie di mammiferi e uccelli. Il possesso di detta fauna, quindi, può essere considerato legittimo soltanto se avviene nel rispetto delle disposizioni di legge, dal momento che l’attività venatoria è da ritenersi l’unico mezzo lecito di appropriazione di beni faunistici appartenenti al patrimonio indisponibile dello Stato435.

Da qui, la costituzione ope legis, in capo allo Stato, del diritto di proprietà sulla fauna selvatica vivente sul territorio nazionale436.

Negli anni successivi, in risposta a rilevanti mutamenti intervenuti nella nostra società (dallo spopolamento delle campagne al conseguente abbandono di coltivazioni e terreni, dall’innalzamento generale dei livelli di istruzione alla mobilità territoriale, fino al mutamento dei consumi materiali e culturali), si è assistito ad un importante cambiamento dell’assetto territoriale nazionale e dei

435 Tutt’oggi, la cattura di un esemplare di fauna selvatica da parte di un soggetto privo di suddetta licenza costituisce reato contro il patrimonio statale configurabile come “furto venatorio”. Le previsioni circa le sanzioni penali e amministrative previste oggi agli artt. 31 e 31 della l. 157/92 si riferiscono invece a comportamenti che risultano sì difformi rispetto alla regolamentazione dell’attività venatoria (es. caccia nel periodo di divieto), ma che si presuppongono comunque posti in essere da soggetti muniti di licenza (ex multis, Cass. Pen. Sez. V, sent. 24 marzo 2016, n. 12515). 436 La conseguenza immediata fu la configurazione del delitto di furto venatorio, commesso da chiunque, esercitando attività venatoria al di fuori dei limiti di legge, si impossessasse al fine di trarne profitto di esemplari di fauna selvatica, sottraendoli al proprietario – la Repubblica – che li deteneva (Cass. 7310/91, Cass. 10780/90, Cass. 9526/90, Cass. 8182/90, Cass. 11947/89, Cass. 4772/89, Cass. 313/89, Cass. 20/89, e molte altre precedenti e conformi).

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suoi equilibri, che ha comportato la rarefazione di alcune specie animali, e, in risposta, il ritorno di altre (si pensi ai grandi mammiferi)437. Proprio tali fenomeni

hanno comportato per un verso l’aumento dei conflitti tra la componente faunistica e quella antropica e, per un altro, l’emergere di un sentire sociale sempre più sensibile alle tematiche in oggetto, con un mondo ecologista sempre più attivo ed intraprendente.

In questa complicata e delicata panoramica si inserisce la legge quadro nazionale n. 157 del 1992438, tutt’oggi vigente, che si basa sul principio fondamentale

(ripreso dalla legge precedete) secondo cui la fauna selvatica è patrimonio indisponibile dello Stato. In base a questo principio, in Italia non esiste, tutt’oggi, un diritto di caccia, ma solo la possibilità di richiedere, se in possesso dei requisiti di legge, il rilascio della c.d. licenza di caccia, provvedimento discrezionale439 di

natura concessoria440 rispetto al quale il privato assume una posizione qualificabile

come interesse legittimo441.

437 F. SORBETTI GUERRI, Il difficile equilibrio fra fauna e agricoltura, Lettura Accademica italiana dei Georgofili, 13 maggio 2013, p. 1-6.

438 “La legge fondamentale 11 febbraio 1992 n. 157 non è stata studiata né da giuristi né da esperti di caccia, ma è nata da un lungo travaglio parlamentare che doveva conciliare posizioni estreme e, spesso, estremiste. Ogni norma è stata stiracchiata senza aver presente un quadro generale sistematico, frammenti di articoli sono stati tolti od inseriti per accontentare qualche gruppo politico, nessuno ha tenuto presenti le regole ufficiali da seguire per la redazione di atti normativi. Perciò non si è seguito il metodo logico di fornire prima di tutto le definizioni dei termini usati nella legge, poi di dettare la regolamentazione completa di ogni categoria creata, indicando chiaramente ciò che è consentito e ciò che è vietato, infine di stabilire le sanzioni per ogni cosa vietata.” Dalla prefazione di E. MORI, La caccia. Il diritto della caccia, le leggi, la giurisprudenza commentata, Bolzano, Libriprofessionali.it, 2011.

439 La licenza di caccia è da ritenersi un provvedimento discrezionale esclusivamente nell’an, al contrario di altri provvedimenti, come la concessione edilizia, discrezionali del quid. Così M. S. GIANNINI, Diritto amministrativo, vol. II, Milano, Giuffrè, 1993, p. 244.

440 L’identificazione della natura concessoria della licenza di caccia non è pacifica in dottrina, anche se la giurisprudenza costituzionale, esprimendosi circa l’esclusione dell’esistenza di un diritto soggettivo alla caccia, sembra far propendere in tal senso (ex multis, Corte cost., sent. n. 1083/2016: “i provvedimenti che consentono la detenzione ed utilizzo (di armi) vengono ad assumere – su un piano di eccezionalità – connotazioni concessorie di una prerogativa che esula dall’ordinaria sfera soggettiva delle persone”). Per una ricostruzione delle varie tesi a riguardo, S. NESPOR, A. L. DE CESARIS, Codice dell’ambiente, Milano, Giuffrè, 2009, p. 756 ss.

441 A. CONIO, F. DINELLI, Tutela della biodiversità e protezione della natura e del mare, in G. ROSSI (a cura di), Diritto dell’ambiente, Torino, Giappichelli, 2017, p. 381. In giurisprudenza, ex multis, TAR

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Da ultimo, come si è anticipato e come si avrà modo di approfondire, con legge costituzionale 18 ottobre 2001 n. 3 si è prevista una -nuova- competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di “tutela dell’ambiente e dell’ecosistema”, facendo rientrare la “caccia” nell’alveo delle materie di competenza residuale regionale.