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La lunga ricerca di una gestione integrata

I L GOVERNO DELLE ACQUE IN I NGHILTERRA

1. D A PRIVATO A PUBBLICO AND BACK AGAIN : L ’ ACQUA IN I NGHILTERRA DALL ’ ETÀ VITTORIANA AD OGG

1.1. La lunga ricerca di una gestione integrata

La politica delle acque inglese si basa, in teoria ancora oggi, su un‘antica istituzione di common law, i ―diritti rivieraschi‖, cioè i diritti dei soggetti rivieraschi di utilizzare l‘acqua dei fiumi secondo le proprie esigenze, purché ciò non pregiudichi gli interessi degli altri rivieraschi (Barraqué 1995). Non esiste una proprietà, pubblica o privata, sulle acque: al contrario dell‘Italia, le acque non appartengono al demanio dello stato ed il diritto d‘uso, che è dunque l‘unico applicabile, è legato alla proprietà dei terreni.

Su queste basi il rapido processo di industrializzazione dell‘epoca vittoriana (1837- 1901), attraverso l‘uso intensivo ed indiscriminato delle risorse, generò presto problemi di penuria e di inquinamento delle acque in un paese fino ad allora abituato a basarsi sull‘autoapprovigionamento. Le sempre più frequenti emergenze sanitarie che queste condizioni scatenavano portarono allo sviluppo dell‘industria dell‘acqua più antica del mondo (Barraqué 1995; Hassan 1998)75.

Le iniziative dei privati erano soggette all‘autorizzazione del Parlamento. Benché le autorizzazioni contenessero indicazioni per la tutela dell‘interesse pubblico e un generale ―codice di condotta‖, che arrivava ad includere controlli finanziari e specifiche tecniche, non rispondevano ad un indirizzo di policy preciso, ma erano piuttosto ―accordi‖ che il Parlamento negoziava di volta in volta tra il singolo imprenditore e i possessori di diritti rivieraschi concorrenti, che erano con sempre maggiore frequenza rappresentati da industrie manifatturiere (Hassan 1998). Si venne presto a determinare una struttura del servizio idrico

75 Tra i fattori che contribuirono allo sviluppo del settore, Foreman-Peck (1988) evidenzia anche la difficoltà di trovare acqua sufficiente durante i numerosi e frequenti incendi.

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altamente frammentata e scoordinata, in cui gli interessi delle lobby private assumevano precedenza sulle necessità pubbliche (ibid.). Alla fine dell‘epoca vittoriana, di fronte ad una fornitura ancora largamente intermittente e di bassa qualità, la gestione dei servizi idrici veniva trasferita con sempre maggiore frequenza alle municipalità (Hassan 1985).

Il controllo pubblico, se contribuì a porre un freno all‘atomizzazione dei servizi, non migliorò tuttavia l‘elevato grado di frammentazione verticale ed orizzontale della gestione delle acque. Questa debolezza strutturale del sistema veniva già all‘epoca riconosciuta come tale dagli esperti e dagli operatori del settore; e fin dalla metà dell‘Ottocento si cominciarono ad avanzare proposte per una maggiore integrazione della gestione e delle responsabilità sulla risorsa. Il processo di riforma fu tuttavia lungo ed estremamente lento e prese la forma di una progressiva centralizzazione (Barraqué 1995), che culminò nel Water Act del 1973. Accanto alla generale scarsa attenzione rivolta all‘acqua per tutta la prima metà del Novecento (Sheail 1998), la difficoltà di erodere diritti ed interessi consolidati nel tempo da parte del governo centrale spiega la durata più che centennale del processo (Hassan 1998).

Negli anni Quaranta, tuttavia, una prima ondata di riforme attribuì all‘esecutivo, nella persona del Ministro della Sanità, la responsabilità di influenzare lo sviluppo della risorsa e, quindi, dell‘industria idrica (Water Act 1945) e istituì trentadue River Board (Rivers Board Act 1948). Con dimensioni che ricalcavano quelle dei precedenti Catchment Board, i River Board coprivano l‘intero territorio nazionale e realizzavano una centralizzazione di funzioni mai verificatasi prima. Ad essi venivano infatti attribuiti tutti i compiti in precedenza svolti da enti diversi e a geometria variabile: Catchment Boards (controllo degli scarichi), Drainage Boards (controllo degli scarichi e bonifica), County Council (prevenzione dell‘inquinamento) e Fisheries Board (tutela della fauna ittica76).

I River Board, tuttavia, continuavano a non avere giurisdizione sul sistema delle captazioni; e, nonostante la riforma del 1945, quest‘ultimo continuava ad essere dominato dalla frammentazione e dalla disorganizzazione (Hassan 1998). I limiti imposti dalla common law, insieme alla scarsa propensione ad intaccare i diritti della proprietà privata o i maggiori interessi costituiti, privavano di fatto il governo di una reale capacità di pianificazione. La fornitura dei servizi, dunque, continuava ad essere divisa tra la miriade di imprenditori privati e i numerosi governi locali.

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Per ragioni storiche gli interessi dell‘industria della pesca e dei pescatori, e delle loro associazioni ricreative, erano tenuti in notevole considerazione sia dal Partito Conservatore che da quello Laburista. Furono infatti queste lobby a contribuire all‘istituzione dei Fisheries Board negli anni Venti (Sheail 1993).

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Questi ultimi, tra la fine dell‘Ottocento ed il primo dopoguerra, erano diventati una lobby molto potente, naturalmente interessata al mantenimento dei propri poteri di controllo sulla risorsa e contrari ad una maggiore centralizzazione delle funzioni. Anche le maggiori associazioni professionali, la Association of Waterworks Engineers (AWE), la British Waterworks Association (BWA) e la Water Companies Association (WCA), non guardavano con favore ad uno sviluppo in tal senso. La prima riuniva quasi esclusivamente ingegneri idraulici altamente qualificati, e divideva la maggior parte dei membri con l‘Institution of Civil Engeneers. La BWA e la WCA rappresentavano invece gli interessi delle water industries, cioè dei fornitori, pubblici e privati nel primo caso, solo privati nel secondo. La ragione per cui le associazioni professionali osteggiavano un passaggio di poteri al governo centrale risiedeva nella ristrutturazione delle responsabilità ministeriali che ne avrebbe fatto seguito, con la gestione delle risorse inglobata nelle attività di pianificazione. Ciò avrebbe comportato un forte indebolimento del legame privilegiato che con il tempo queste associazioni avevano sviluppato con il Ministero della Sanità77.

Nonostante questi ostacoli, negli anni Sessanta un‘altra importante riforma segnava lo sviluppo della politica delle acque in Inghilterra. All‘inizio degli anni Cinquanta la responsabilità politica in materia era passata al Minister for Housing and Local Government (MHLG), che, di fronte all‘incapacità del sistema infrastrutturale industriale di rispondere alla crescente domanda d‘acqua, lanciò una vera e propria campagna per favorire la concentrazione industriale (Kinnersley 1988). Se alla metà degli anni Cinquanta esistevano più di mille gestori, un rapporto del Department of Environment nel 1971 ne rilevava solamente 198, con le sei imprese più grandi che servivano tutte distretti la cui popolazione superava il milione di abitanti (Hassan 1998).

La water policy assumeva lentamente i tratti di una politica maggiormente interventista, orientata alla pianificazione e allo sviluppo dell‘offerta (attraverso interventi principalmente infrastrutturali, quindi). Lo sfruttamento di nuove fonti o l‘ampliamento di quelle esistenti conoscevano infatti un rinnovato impulso, soprattutto dopo l‘istituzione del Water Resource Board (WRB) nel 1963. Questo era un organismo di pianificazione con il compito di sviluppare dei piani regionali delle acque, che nel 1973 avrebbero poi portato all‘elaborazione di un unico piano nazionale. Il WRB era informato da un approccio tecnocratico ed ingegneristico, tanto che il piano nazionale del 1973 venne definito ―non una strategia per il futuro ma una smania ingegneristica‖ (Kinnersley 1988, 90, trad.nostra).

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La riforma del 1963 rappresenta un cambiamento di rilievo, riflettendo la riconosciuta necessità di un approccio maggiormente integrato alla gestione delle acque (Parker e Derrick Sewell 1988). Il Water Act del 1963, oltre al WRB, introduceva infatti ventisette River Authorities in sostituzione dei precedenti Boards. Non solo le Autorità ne ereditavano tutte le funzioni, ma ricevevano accresciuti poteri in materia di controllo dell‘inquinamento e gestione delle risorse.

In particolare sotto quest‘ultimo aspetto il Water Act introduceva un sistema di licenze, e relativi canoni, obbligatorie per tutti i prelievi di acque superficiali o sotterranee. Con questo provvedimento per la prima volta veniva di fatto alterato il sistema dei diritti rivieraschi a favore di una regolamentazione pubblica delle concessioni d‘uso.

Sotto il profilo più strettamente ambientale, le Autorità erano responsabili di fissare degli obiettivi di qualità ambientale, di stabilire un livello di deflusso minimo, di autorizzare gli scarichi e fissarne gli standard di qualità e quantità. La questione dell‘inquinamento, d‘altronde, a quest‘epoca cominciava ad essere riconosciuta come una questione di interesse nazionale anche dalle maggiori istituzioni (Hassan 1998), e la crescita degli interventi infrastrutturali sul territorio alimentava le preoccupazioni di molti sul loro impatto sugli ecosistemi. Negli anni Sessanta, inoltre, il movimento ambientalista inglese comincia ad abbandonare i caratteri più conservatori e ―conservazionisti‖ (Dryzek 1997) e ad assumere invece i tratti del contemporaneo fenomeno politico.

L‘implementazione della riforma non conobbe tuttavia i risultati sperati, soprattutto perché i gestori dei servizi idrici continuavano a mantenere una consistente autonomia rispetto alle River Authorities (Hassan 1998). Inoltre il ciclo della fornitura e quello degli scarichi continuavano a restare separati, con i primi di responsabilità dei gestori (imprese private o agenzie dei governi locali) e i secondi di responsabilità dei governi locali (Parker e Derrick Sewell 1988). Di conseguenza le Autorità non riuscirono a fare molti progressi nel migliorare la qualità dei corsi d‘acqua o nel gestire la risorsa. Questi ultimi due fattori, insieme all‘impossibilità, per i motivi appena citati, di implementare schemi di trasferimento o progetti di sviluppo a scala regionale (Rowntree 1972), contribuirono ad una diffusa delusione nei confronti della riforma. Altri due fattori di pressione portarono il Parlamento ad approvare, a soli dieci anni di distanza dal Water Act, una radicale riforma. Da un lato, l‘affermazione degli interessi legati agli usi ricreativi dell‘acqua, che in precedenza erano rimasti in una posizione marginale (Parker e Derrick Sewell 1988). Dall‘altro, la consapevolezza che il numero delle gestioni risultava ancora eccessivamente alto per riuscire ad ottenere maggiore efficienza attraverso economie di scala.

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Il Water Act del 1973 rappresenta l‘apice del processo di centralizzazione delle funzioni legate all‘acqua. La responsabilità per l‘intero ciclo dei servizi idrici fu affidata a dieci Regional Water Authorities (RWA) basate sui bacini fluviali, che dunque ereditavano le funzioni precedentemente divise tra circa 1500 unità gestionali (ibid.)78. Gli obiettivi attribuiti alle RWA erano molto ambiziosi ed innovativi: assicurare un‘abbondante offerta di acqua di buona qualità, ristabilire la qualità dei fiumi, assicurare la protezione dalle piene e proteggere tutti gli usi, inclusi la pesca, la navigazione e gli usi ricreativi (Hassan 1998).

Naturalmente questa concentrazione di funzioni senza precedenti non poteva eliminare all‘improvviso più di un secolo di gestioni relativamente autonome ed interessi costituiti, anche perché, al momento della loro nascita, le nuove Autorità si trovavano ad operare con le strutture e le risorse delle vecchie River Authorities. Tre settori, in particolare, mantennero una relativa autonomia, regolata nella maggior parte dei casi da un rapporto di agenzia con le RWA. Rimasero operative ventotto aziende private di fornitura dei servizi idrici, che insieme servivano circa un quarto della popolazione di Inghilterra e Galles (Parker e Penning-Rowsell 1980). In alcuni casi il settore della fognatura rimase invece di responsabilità dei governi locali, data la storica importanza di questi in materia di sanità e pianificazione territoriale (Hassan 1998). Infine, il controllo sul settore delle bonifiche veniva di fatto esercitato dal Ministero dell‘Agricoltura (Minister for Agriculture, Fisheries and Food – MAFF) e non dal Department of Environment (DoE), che nel 1970 era succeduto al MHLG. Il MAFF, notoriamente colonizzato dagli interessi agricoli e fondiari (Hassan 1998; Parker e Derrick Sewell 1988; Pitkethly 1990), oltre a finanziare le opere, eleggeva infatti parte dei membri delle Regional Land Drainage Commettees, a cui spettavano poi le responsabilità esecutive.

Nonostante queste ―anomalie‖, la ristrutturazione del settore operata nel 1973 è stata interpretata da molti come una vera e propria ―rivoluzione‖ nella gestione delle acque (Okun 1977), o comunque come ―la riforma cardine del ventesimo secolo‖ (Hassan 1998). Non solo, infatti, la riforma del 1973 rappresentava la realizzazione, forse eccessivamente rigida, dell‘imperativo idrologico e della filosofia della gestione integrata. Nessuna concessione venne fatta, ad esempio, alle pressioni per un‘Agenzia interamente gallese, così che buona parte del Galles centrale ricadeva sotto la giurisdizione (inglese) dell‘Autorità del fiume Severn (Parker e Derrick Sewell 1988). Uno dei maggiori difetti del sistema, inoltre, il fatto che le RWA rappresentassero sia il ―guardacaccia‖ che il ―cacciatore‖, per usare la metafora diffusa in Inghilterra, era stato introdotto proprio con la fiducia che avrebbe massimizzato i

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benefici di una gestione integrata (Hassan 1998). Ma la riforma formalizzava anche, per la prima volta, un approccio di tipo manageriale, basato su criteri di efficienza amministrativa (ad esempio, con obiettivi di performance per le RWA) e soprattutto economica (fra tutti, il principio del recupero dei costi dei servizi).

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