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LA PRACTICA DE LOS EXERCICIOS DE SAN IGNACIO.

PARTE SECONDA: DOMINGO MURIEL, ULTIMO PROVINCIALE DEL PARAGUAY.

II.4. LA PRACTICA DE LOS EXERCICIOS DE SAN IGNACIO.

Un esempio dell’azione spirituale di Muriel, che univa la custodia gelosa delle regole e della memoria ignaziane al fomento dello spirito comunitario, è dato dal libro che diede alle stampe nel 1772: la Práctica de los Exercicios de San Ignacio por el P. Ignacio Diertins de la Compañía de Jesús. Si tratta di uno scritto singolare sotto molti aspetti. Innanzitutto, perché fu la prima traduzione in castigliano della Praxis Meditationum S. P. Ignatii Loyolæ del p. Diertins (Roma, 1698)193; in secondo

192 ARSI, Paraq. 3, f. 14 recto.

luogo, perché fu la prima volta che le meditazioni degli Esercizi Spirituali ignaziani furono distribuite in tutti i giorni dell’anno, invece che nel classico mese, pur mantenendo per comodità la classica suddivisione in quattro settimane. Era un’iniziativa volta ancora a rinsaldare nei suoi sottoposti il sentimento di appartenenza all’Ordine, giacché la Praxis originale del Diertins era specificamente diretta ai gesuiti che svolgevano la terza probazione, e possiamo facilmente immaginare che Muriel vi si sia familiarizzato quando, ancora in America, era preposto proprio ai tercioneros194. Ma era anche un’operazione a cui egli stesso attribuì una grande importanza, tanto che ebbe cura di far stampare una copia del suo scritto per ciascuno dei paraguaiani e di consegnare ogni copia personalmente ad ognuno di loro, con tanto di nome e cognome vergato sul frontespizio195. Nonostante infatti nell’introduzione del libro si indirizzasse a tutte le persone, di ogni categoria, che, non potendo prendersi un intero mese di tempo per fare gli esercizi ignaziani, potevano almeno dedicare loro un’ora ogni giorno, numerosi riferimenti interni indicano senza ambiguità che i destinatari delle sue fatiche erano sacerdoti, o quanto meno religiosi. Un esempio chiaro ne è la meditazione XLVI della quarta settimana, assegnata al 26 novembre, in cui, considerando la nona apparizione del Risorto su un monte della Galilea, paragona gli apostoli e i discepoli che gli salivano incontro al sacerdote che sale all’altare per la celebrazione della messa, citando anche esplicitamente le preghiere ai piedi dell’altare, in particolare il salmo 42: «E. Dirian las palabras del Psalmo: Embia tu luz, y tu verdad. Ellas me han movido, y traido à tu santo monte. Ps. 42. Lo mismo debemos nosotros decir, quando subimos al altar»196. Ricorre spesso questo riferimento a nosotros, un «noi» che significa soltanto «noi sacerdoti», o meglio «noi gesuiti». Fra tanti altri, Muriel ha anzi scelto proprio il libro del Diertins proprio perché fa oggetto delle meditazioni sia le virtù apostoliche, che soprattutto le regole dell’Istituto ignaziano.

194 Lo stesso Muriel afferma, nell’introduzione del volume, di aver integrato personalmente il testo del Diertins, attingendo anche alle opere di insigni maestri della spiritualità gesuitica, quali G. Agnelli, L. de La Palma, A. Le Gaudier, L. de La Puente. Cfr. I. Diertins, Practica de los Exercicios de S. Ignacio, trad. D. Muriel, Faenza (Archi) 1772, pp. 5-6.

195 Furlong, Domingo Muriel, S.J. y su Relación, cit., p. 33.

196 Practica, cit., p. 321; affermazioni simili si possono trovare anche alle pp. 156, 174, 246, in cui, sebbene non altrettanto esplicitamente, lascia capire con facilità che è sua intenzione rivolgersi a religiosi.

Per quanto, infatti, il testo sia incontestabilmente di natura spiccatamente spirituale ed ascetica, in conformità al suo originale, presenta comunque alcune rugosità, specialmente nelle parti in cui si riferisce alle regole gesuitiche; si tratta di alcuni angoli che sembrano aprire uno spiraglio nell’universo delle realtà eterne per lasciarci gettare uno sguardo sulle vite dei nostri gesuiti. Lo spiraglio è indirettamente offerto dalle meditazioni attorno al terzo grado ignaziano di umiltà, cuore della vita spirituale gesuitica:

La terza umiltà è perfettissima e si ha quando, includendo la prima e la seconda e consentendolo un’uguale lode e gloria della divina maestà, desidero e scelgo, per imitare e rassomigliare più effettivamente a Cristo nostro Signore, la povertà con Cristo piuttosto che la ricchezza, le ingiurie con Cristo, che ne è ricolmo, piuttosto che gli onori, e preferisco essere stimato stupido e pazzo per Cristo, che per primo fu ritenuto tale, anziché saggio e prudente in questo mondo197.

A questo, si accompagna il tema dell’esame di coscienza relativo, tutto concentrato nella distinzione fra Dio e mondo, conformemente alla contemplazione delle due Bandiere, che di poco lo precede:

Accompañan a este modo de humildad, amor perfecto de Dios solo: ser Dios fortaleza, y rifugio del humilde, seguridad, y quietud del animo, que de el aparta todo espanto de temor198.

La proposta spirituale è insomma di riscattare la tranquillità dell’animo e la sicurezza con l’affidamento totale dell’esercitante all’Onnipotente. In effetti, è posta un’alternativa fra Dio, quale rifugio e sicurezza, e il timore e l’inquietudine del mondo, analogamente al famoso esercizio delle due Bandiere, che invita a considerare la vita spirituale come una scelta fra la sequela dello stendardo di Cristo e di quello di Babilonia. Naturalmente, il riferimento alle distrazioni o alle inquietudini mondane sono un tratto tipico e, diremmo anche, trasversale della generalità dei

197 I. di Loyola, Scritti, Torino (UTET)1977, p. 133; questo stesso brano, ovviamente in lingua castigliana, si ritrova nel volume che esaminiamo, nella meditazione 77 della seconda settimana, assegnata al giorno 5 maggio, festa di s. Pio V: Practica, cit., p. 133. Anche in questa coincidenza possiamo, forse, intravedere un indizio della destinazione essenzialmente religiosa e sacerdotale della Practica, dato il significato spiccatamente cultuale della commemorazione del papa che aveva riformato il messale dopo il concilio tridentino.

trattati d’ascetica; tuttavia, possiamo cogliere alcune allusioni, che ci danno la possibilità di spiare la realtà quotidiana a cui mirava Muriel. Ecco dunque una riflessione che, prendendo spunto dalla contemplazione della Passione, pare alludere perfettamente alle vicende che i gesuiti paraguaiani avevano attraversato nel corso dell’espulsione:

E. Consideremos quanto padeció, siendo arrastrado para la muerte, atormentado con las violencias de la prision, despojado, abandonado de los suios, tratado como ladron. Refl. Qué comparacion tiene con esto lo que nosotros padecemos?199

Torna quel «nosotros», che riguarda, l’abbiamo visto, essenzialmente religiosi: ma quanto questa è una usuale meditazione sulla Passione, e non piuttosto un suggerimento di proiettare sulla storia sacra il tempo presente, le effettive vicende biografiche dei gesuiti, che avevano davvero patito la prigione, l’abbandono dei familiari, l’ignominia con l’extrañamiento a cui erano sottoposti? Quanto non una proiezione delle angustie presenti nei tormenti del Cristo, nel tentativo di una identificazione spirituale attraverso quell’affidamento, in cui consiste essenzialmente il terzo grado ignaziano di umiltà?

La stessa umiltà perfetta si applica nel testo precipuamente a un aspetto della vita religiosa: quello dell’obbedienza ai superiori, unici sicuri interpreti della volontà divina. Soltanto dal superiore dipende la possibilità che l’esercitante prosegua nel suo cammino spirituale; analogamente, in conformità alle regole ignaziane, l’ordine impartito dal superiore deve equivalere, per il religioso, alla stessa volontà di Dio, come si evince chiaramente da questo passo:

Accusemonos y arrepintamonos de esta falta [ovvero, l’obbedienza non perfetta ai superiori]: y en adelante haviendo propuesto el superior la cosa, dexemos-le todo el cuidado, teniendo por mejor lo que ordinare, sin replicas, sin hazer instancia, persuadendonos que lo que ordinare sera lo que mas conviene para el divino servicio, y nuestro maior bien200.

199 Ivi, p. 223. 200 Ivi, pp. 153-154.

È richiesta dunque un’obbedienza cieca, incondizionata, simile a quella che prestarono i servi dello sposo di Cana agli ordini del Cristo, per rammentare l’episodio evangelico dalla cui meditazione prende spunto l’aspirazione che abbiamo appena citato. Un richiamo a stringersi attorno all’organizzazione gerarchica della Chiesa e, per trasposizione, della Compagnia, giunge poi in un altro passo, se possibile ancora più esplicito; riflettendo sulla condizione dei discepoli che, dopo la Risurrezione, ancora increduli viaggiavano da Gerusalemme a Emmaus, dove sarebbe avvenuta la teofania, è fatta questa considerazione:

Aquellos discipulos se apartaban de Pedro, y de los otros Apostoles, que les pudieran aconsejar, y ayudar en su desconsuelo. Reflex. Nosotros tal vez recansamos pedir consejo al superior, ó al confesor201.

La disobbedienza o l’obbedienza imperfetta sono messe in stretta correlazione alla desolazione, all’aridità dell’anima, alla stessa tentazione diabolica; di più, l’obbedienza al superiore e persino al confessore è fatta discendere gerarchicamente dagli apostoli, addirittura dal fondamento del principio gerarchico cattolico, quale è la figura di Pietro.

Nella meditazione, inoltre, sull’episodio evangelico della tempesta sedata dal Cristo mentre camminava sul lago di Tiberiade – episodio che ha sempre richiamato riflessioni ecclesiologiche – ecco che, di nuovo, la Compagnia di Gesù è inserita in un cosmo gerarchico, vera e propria mediazione fra la Chiesa e il singolo, e baluardo necessario nell’avversità e nella tentazione:

Pero si con Christo entramos en la nave, ó de su Iglesia, ó de la Religion, ó del interior de nuestro corazon; facilmente calmará el viento, conoceremos y adoraremos al Hijo de Dios202.

L’immagine della barca sul punto di essere sommersa dai flutti, tradizionalmente utilizzata come metafora della Chiesa circondata da un mondo ostile e da forze oscure ma salvata dal Cristo, nelle ristrettezze degli anni seguenti

201 Ivi, p. 297. 202 Ivi, p. 174.

all’espulsione del 1767 non avrà certo mancato di richiamare i nostri gesuiti, i gesuiti di Muriel, a riflettere sulla loro vita, a cercare un significato alla crisi istituzionale e biografica che stavano vivendo. Verosimilmente, questo era anche l’intento di Muriel, quando tradusse, pubblicò e distribuì questi esercizi, la cui particolarità, lo ricordiamo, era di non richiedere, a differenza della loro forma tradizionale, un ritiro o un romitorio: ognuno poteva farli nella vita di tutti i giorni, ritagliando uno spazio relativamente piccolo nelle loro giornate. Viene quasi da sospettare che, sullo scorcio del pontificato di Clemente XIII, grande difensore della Compagnia, di fronte al crescere dei suoi oppositori e della probabilità che fosse sciolta, secondo le richieste delle corti borboniche, in particolare della spagnola; viene allora da sospettare che Muriel abbia di proposito cercato, attraverso questo libro, di assicurare ai suoi sottoposti una via attraverso cui continuare la pratica degli Esercizi ignaziani, vero fondamento della spiritualità gesuitica e anima della vita della Compagnia, per mezzo di questa Practica che, in fondo, non richiedeva altro che un po’ di applicazione e la direzione spirituale di un confessore.

Ma possiamo anche non fare di Muriel un profeta della sventura; la situazione dei suoi sottoposti era già, sotto molti aspetti, gravissima: l’espulsione e l’esilio avevano già condotto i gesuiti spagnoli a disperare della giustizia terrena, visto che era in loro forte la convinzione di subire un provvedimento che non avevano affatto meritato, nella loro generalità. È significativo dunque che i passi che meglio potevano richiamare la loro situazione reale, sia pure velati dal linguaggio tipico dell’ascetica, si trovino sempre accompagnati da un riferimento all’umiltà perfetta. Orbene, è anche da notare che, benché la natura, dicevamo, ascetica degli Esercizi spirituali miri costantemente a portare l’esercitante a una condizione di perfezione, vista più come limite a cui tendere, che come necessaria tappa sulla via della santificazione cristiana; nonostante ciò, il riferimento alla perfezione non rimanda a questioni astratte o mistiche, ma trova, per così dire, incarnazione e concretezza nel richiamo implicito alla vita quotidiana degli espulsi. Sembra quasi, insomma, ciò che non è necessario per la salvezza dell’anima, divenga necessità per la sopravvivenza dei corpi, e soprattutto del Corpo per eccellenza che è quello della Compagnia, che muore

soltanto con lo scioglimento del vincolo di obbedienza gerarchica fra i suoi membri203.