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La teoria romantica del libero convincimento

Nel documento Prove legali e libero convincimento (pagine 58-62)

SEZIONE I: EVOLUZIONE ED INVOLUZIONE DEL PRINCIPIO

6. Involuzione del principio del libero convincimento

6.1. La teoria romantica del libero convincimento

Quanto alla suddetta degenerazione del principio del libero convincimento, autorevole dottrina72 ha coniato la c.d. teoria della preuve morale.

L’introduzione del libero convincimento è sicuramente legato alla jury del processo francese73: il primo metodo che venne utilizzato per introdurre il c.d. principio della libera valutazione fu l’inserimento nel sistema processuale, delle giurie popolari, sulla scorta del modello inglese.

Ciò avvenne mediante una riforma del sistema, nel quale si introdussero principi fondamentali quali quello dell’oralità, dell’immediatezza e del libero convincimento, considerati fra loro come inevitabilmente connessi74.

I giudici del popolo per forza di cose, nell’impossibilità di utilizzare lo stesso metodo dei giudici professionisti, più che fondare il loro convincimento su parametri legislativi razionali, facevano riferimento alle loro intuizioni intime di giustizia.

La Costituzione francese del 1791 stabilì, sul punto, il principio che, nei processi penali, le questioni di fatto sarebbero state decise da una giuria di cittadini75, quelle di diritto da giudici togati; in questo modo si voleva realizzare la partecipazione dei cittadini all'amministrazione della giustizia, in coerenza con il principio di sovranità nazionale affermato dalla Rivoluzione francese. L'istituto della giuria era chiaramente mutuato dal sistema giudiziario inglese, che gli illuministi francesi del XVIII secolo ammiravano, contrapponendolo al sistema dell'Ancien Régime dove, soprattutto nei potenti Parlements, le funzioni giurisdizionali erano appannaggio di un ceto ristretto (La noblesse de robe).

Con il trapianto dell’istituto della giuria –importata sull’onda del fascino delle istituzioni giudiziarie di common law – si diffuse nel continente, però, l’idea sbagliata, di una valutazione della prova affidata ai giurati in forza di un approccio puramente emotivo.

processo non deve risolversi in termini di conflitto, ma di controversia e il contrapporsi delle opposte posizioni delle parti non deve implicare uno scontro, ma un confronto dialettico.

72

Ci si riferisce in particolar modo ad E. AMODIO. Si veda sul punto: La motivazione della

sentenza penale e il suo controllo in cassazione, Milano 1967, pp. 95 ss., ed altresì, La rinascita del diritto delle prove penali. Dalla teoria romantica della intime convinction al recupero della legalità probatoria, in Processo penale, diritto europeo e common law, Milano 2003, pp.121 ss.

Cfr altresì NOBILI, Il principio del libero convincimento del giudice, cit., p. 13.

73

Per un’ampia trattazione del problema si veda Amodio, La motivazione della sentenza penale e

il suo controllo in cassazione, cit. pp. 95 ss.

74

Si consideri che la proposta di adottare il Grundsatz der freien Überzeugung venne avanzata nei paesi di lingua tedesca già molto tempo prima rispetto alla formulazione franco-italiana ma ciò senza successo. Ma non solo. Ed invero, già dalla fine del secolo XVIII venne elaborata la teoria delle c.d. “prove legali negative” secondo la quale le prescrizioni normative sulla sufficienza e il valore delle prove erano richieste unicamente per la condanna e non già anche per l’assoluzione. Tale soluzione intermedia venne adottata appunto nei paesi tedeschi per circa un cinquantennio e venne superata solo dall’adozione delle giurie popolari. Sul tema si veda Nobili, Il principio del

libero convincimento del giudice, cit., p. 95.

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Il convincimento, dettato, pertanto, da aspetti metarazionali, frutto di scelte intuitive, da sollecitazioni emotive, risultava essere del tutto insuscettibile di analisi.

“La decisione della giuria, resa attraverso un provvedimento immotivato, fece pensare ai giuristi continentali che il giudizio sull’imputato fosse per sua intrinseca natura così fortemente radicato nella reazione istintiva delle prove da essere sottratto a qualsiasi forma di razionalizzazione”76, anche a quella astrattamente attuabile a posteriori mediante la motivazione.

Questa catena logica giuria-verdetto immotivato-persuasione emotiva costituisce l’asse portante di quella che potrebbe essere definita come la teoria romantica del libero convincimento77.

La testimonianza più significativa di questo orientamento si trova nel testo delle istruzioni ai giurati contenute nel codice di procedure penale francese: “ la legge non chiede conto ai giudici del modo in cui si sono convinti; essa non prescrive regole dalle quali far dipendere in modo particolare la pienezza e la sufficienza di una prova; essa prescrive ai giudici di interrogarsi nel silenzio e nel raccoglimento cercare, nella sincerità delle loro coscienze, quali impressione hanno avuto, sulla loro ragione, le prove a carico e quelle a discarico introdotte dalla difesa. La legge pone ai giudici un solo interrogativo, che racchiude la pienezza dei loro doveri: Avez vous un intime conviction?” (Art. 363 c.p.p., ed analogamente art 498 c.p.p. italiano del 1865).

La versione irrazionalistica del libero convincimento ebbe due effetti perversi: da un lato produsse un’interpretazione in chiave illiberale, e quindi prevalentemente inquisitoria, dell’obbligo di motivazione e, dall’altro lato, costituì un artifizio attraverso il quale si cercò di recuperare le prove inammissibili, perché irrituali o illecite, onde poterle utilizzare nella formazione della decisione78.

Si era progressivamente ed inevitabilmente giunti al paradosso per cui la regola del libero convincimento si era sovrapposta con il principio della libertà dei mezzi di prova, nonostante la prima regola attenga al momento valutativo dell’efficacia probatoria della prova, mentre il secondo principio, ovvero quello della libertà dei mezzi di prova, attenga la fase acquisitiva del materiale probatorio79.

Tale versione costituì il pretesto per una rivolta antiformale, che sfociò in una vera e propria anarchia gnoseologica attraverso una ricca fioritura di norme

76

Così E. AMODIO, Libero convincimento e tassatività dei mezzi di prova: un approccio

comparativo, in Riv. it. Dir. proc. Pen., 1999, p. 4.

77

Sul tema si veda E. AMODIO, Libero convincimento e tassatività dei mezzi di prova: un

approccio comparativo, cit., pp. 4 ss.

78

Sul punto G. DE LUCA, Il sistema delle prove penali ed il principio del libero convincimento

nel nuovo rito, cit., p. 1269 scrive che il libero convincimento “ha rappresentato per due secoli il

grande artifizio a cui ha fatto ricorso la giurisprudenza per recuperare ed utilizzare nel processo prove acquisite contra legem determinando l’abolizione di fatto di quasi tutte le regole di esclusione della prova.

79

Cfr E. ZAPPALA’, Il principio di tassatività dei mezzi di prova nel processo penale, Giuffrè, 1984, p. 108.

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para-legali, frutto di avventurosi criteri interpretativi improntati ad una razionalità teologica.

Sul piano compartivo si deve, quindi, registrare una curiosa evoluzione di segno opposto, o come definito sopra, un “trapianto sbagliato”; infatti, mente nei sistemi di Common law la giuria ha dato luogo al sorgere di quel reticolo di regole probatorie che prende il nome di law of evidence, regole che servivano principalmente per evitare possibili errori valutavi di giudici non professionali, in Europa, invece, la presenza di laici nelle corti d’Assise, ha dato vita alla teoria dell’intime convinction che, di fatto, ha affrancato i giudici, laici e togati, da qualsiasi limite legislativo nella valutazione della prova.

Secondo autorevole dottrina80 il problema di una tale sbagliata ricezione nei paesi continentali del principio del libero convincimento risiede non solo della mancata previsione di qualsiasi regole di esclusione, che potesse arginare l’ampia e libera discrezionalità del giudice, ma, altresì, nel fatto che la “stessa concezione dialettica del processo fu trapiantata unicamente nei tratti che riguardano le strutture del processo (contraddittorio, assetto accusatorio etc.) e per breve periodo (1789-1808)81, non anche per quanto attiene alla logica interna del giudizio ed alla concezione della prova”82.

In questo modo si ottenne in pratica una deformazione del metodo anglosassone, che ha causato un’impostazione del problema dell’intimo convincimento del giudice del tutto particolare per i paesi continentali.

Ed invero, in tali paesi anche quando ci si sforzò di individuare un’interpretazione in chiave razionale dell’intimo convincimento si ottennero comunque risultati apprezzabili sotto alcuni profili, ma sicuramente differenti rispetto a quelli della law of evidence, ricollegabili piuttosto a quel tipo di razionalismo aprioristico che aveva caratterizzato l’evoluzione delle prove nei secoli precedenti.

Tramite l’excursus storico di cui sopra si è già avuto modo di rilevare come la sola adozione delle giurie popolari non sia stata idonea a far confluire nei sistemi continentali le tecniche probatorie della common law; il che comportò appunto la suddetta serie di fraintendimenti nell’interpretazione del principio del libero convincimento del giudice, sino ad arrivare addirittura alla concezione irrazionale dello stesso.

Si consideri che a partire dal XVIII secolo era comunque già molto chiara la distinzione sussistente fra il principio del libero convincimento e il iudicium secundum conscientiam, rappresentativo di un giudizio personalizzato ed interiorizzato: infatti, se è pur vero che in entrambi i casi assume rilevanza la convinzione del singolo, è altresì vero che il libero convincimento è un principio che spiega i suoi effetti esclusivamente nella fase relativa alla valutazione del materiale probatorio, mentre il giudizio secondo coscienza ha una portata più

80

Ci si riferisce a M. NOBILI, Il principio del libero convincimento del giudice, cit., p. 13.

81

Vedi sopra, paragrafo 3.

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vasta e tale da contrapporsi all’impostazione stessa del iudicium secundum alligata et probata83.

Il codice di procedura penale dell’Italia preunitaria- approvato l’8 settembre 1807- ricalcava fedelmente il modello napoleonico, ma con una peculiarità degna di rilevo: il giudizio sul fatto, prima di esclusiva competenza della giuria popolare, tornava ad essere prerogativa dei giudici togati, che non erano, però, obbligati, a motivare le loro decisioni, né tenuti ad osservare alcun criterio predeterminato di valutazione delle prove.

La totale assenza di argini alla libertà del giudicante rendeva concreta il rischio che l’intimo convincimento potesse trasmodare e risolversi in puro arbitrio, come la dottrina del tempo non mancò di segnalare84.

I grandi teorici italiani della procedura - come Romagnosi, Genovesi, Pagano o Nicolini - hanno tentato di reagire all’irrazionalismo della formula “intime conviction”, elaborando una logica della prova storica e giudiziaria.

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“Al riguardo si può infatti rilevare come pur trattandosi in entrambi i casi di sistemi che risolvono il problema del giudizio sul fatto dando preminente rilievo alla convinzione del singolo, quello dell’intimo convincimento fa riferimento solo alla valutazione delle prove raccolte nel processo, secondo il rito giudiziario, mentre il giudizio secondo coscienza si pone come antitetico al iudicium secundum alligata et probata”. Così M. NOBILI, Il principio del libero convincimento

del giudice, cit., p. 97. Su tale contrapposizione si veda G. SALVIOLI, Dei limiti della certezza morale nella prova criminale secondo il diritto romano canonico e la dottrina antica, in Diritto e giurisprudenza, Napoli, 1916.

84

Come osservano M. NOBILI, Il principio del libero convincimento del giudice, cit., p. 207 e ss. ed E. AMODIO, Libero convincimento e tassatività dei mezzi di prova: un approccio

comparativo, cit., pp. 4 ss: la previsione dell’obbligo di motivazione - introdotta dal codice del

regno di Napoli del 1819 e ben preso adottata da tutti gli altri ordinamenti degli Stati pre-unitari – senza dubbio ridimensionò i pericoli paventati dalla dottrina, ma nella coscienza del giudice – portato a credere che, comunque, restasse fermo l’intento del legislatore di non porre vincoli all’accertamento del fatto – si era ormai radicata la convinzione di gestire un potere sostanzialmente illimitato, al quale non sarebbe stato facile rinunciare.

A seguito dell’unificazione politica, venne alla luce nel 1865, il primo codice dello Stato italiano che si presentava come una riedizione – ampliata e corretta – di quello promulgato dal regime albertino nel 1847.

Trascorsero, tuttavia, quasi cinquant’anni prima che il nostro paese si aprisse ad idee liberali, almeno in parte recepite dal codice Finocchiaro Aprile del 1913.

Dopo pochi anni si vita difficile, anche quel codice usciva, però di scena travolto dalla veemente e repentina ascesa del regime fascista, che manifestò subito l’intento di imporre una sua codificazione, a cominciare propria dal settore della giustizia penale. Quello del 1930 era un sistema processuale di ispirazione dichiaratamente autoritaria, che fu etichettato, persino nelle presentazioni ufficiali, come il simbolo di una ferma opposizione alle idee illuministiche e liberali. Era inevitabili, quindi, che la filosofia di fondo del codice fascista condizionasse anche il modo di intendere il principio del libero convincimento, destinato ad assecondare le istanze di difesa sociale propugnate da regime.

La successiva riforma codicistica maturò in un clima profondamente diverso, segnato da eventi – come l’entrata in vigore della Costituzione Repubblicana e l’approvazione delle Carte internazionali sui diritti dell’uomo – che avevano rivoluzionato il quadro dei valori di riferimento per la disciplina del processo penale, riequilibrando il rapporto tra autorità e diritto. Le mutate esigenze del paese spingevano verso un radicale rinnovamento del sistema e, in tale prospettiva, i compilatori del codice del 1988, non potevano che imprimere una netta inversione di tendenza anche alla traiettoria del libero convincimento, recuperando quei profili di garanzia e legalità offuscati dalle imposizioni ideologiche del regima fascista.

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L’unica via per temperare gli eccessi dell’arbitrio dei giudici, per molti, risiedeva in una logica delle prove legali negative85: non, dunque, nella predeterminazione legislativa dei mezzi di prova da addurre e nella definizione a priori del valore da attribuire loro, come nel sistema di prove legali, ma in un metodo costituito da norme di esclusione alla maniera del processo anglosassone e, alla luce di quanto sin qui esaminato, secondo il concetto di prova tramandato dai nostri classici.

A che cosa ci si riferisca parlando di prova legale negativa o positiva, ce lo spiega, negli anni cinquanta, Ettore Dosi, quando precisa che la prova legale possa intendersi in senso positivo, “quando la legge prescrive che, verificandosi certi presupposti da essa indicati, un fatto deve essere ritenuto vero dal giudice”, in senso negativo, “quando la legge fa divieto al giudice di ritenere vero un fatto se non si verifica quel minimo di prova ch’essa stessa stabilisce”86.

Nel documento Prove legali e libero convincimento (pagine 58-62)