SEZIONE I: EVOLUZIONE ED INVOLUZIONE DEL PRINCIPIO
5. Il principio del libero convincimento nel Codice Rocco del 1930, un codice misto
Il clima culturale in cui si pongono le basi per la redazione del codice Rocco sono quelle sopra descritte, che sono ben rappresentate dal pensiero di Carnevale: egli si esprimeva a favore di un sistema probatorio che fosse il più libero possibile
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Sulle diverse interpretazioni del concetto di stato di diritto presso la dottrina tedesca, Cfr M.A. CATTANEO, Anselm Feuerbach, filosofo e giurista liberale, Milano, 1970, pp. 175 ss.
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I diritti della difesa ed in particolare la presunzione di non colpevolezza furono largamente osteggiati dalla dottrina del tempo, vedi V. MANZINI, Trattato di diritto processuale italiano
(1914), VI edizione, Torino, 1967, pp. 254 ss., il quale definisce la presunzione di innocenza quale
“grossolanamente paradossale e contraddittoria” in quanto in contrasto con il principio della verità materiale.
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Cfr A. SERMONTI, Principi generali dell’ordinamento giuridico fascista, Milano, 1943, p. 246.
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In dottrina è da segnalare la posizione di U. CAO, Dottrina penale fascista, Cagliari, 1931, pp.19 ss.
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da limitazioni sostanziali o di rito, le quali potessero risultare d’ostacolo al pieno esplicarsi dell’attività conoscitiva del giudice51.
Dato che il principio del libero convincimento era definito come un mezzo di investigazione obiettiva, si ricercava inevitabilmente la base della sua intrinseca razionalità; se l’illuminismo e il giusnaturalismo avevano posto un’assoluta fiducia nell’innato buonsenso insito in ogni uomo, nel periodo storico che precedeva la redazione del Codice Rocco, si instaurò l’idea che la soluzione migliore fosse quella di fare affidamento esclusivo sulla razionalità del giudice-funzionario, la cui estrazione sociale e la cui cultura venivano percepite quali garanzie assolute52.
Una tale convinzione portò ad una rielaborazione in chiave inquisitoria del principio del libero convincimento: il giudice era l’unico e vero dominus del processo e la libertà del magistrato venne a coincidere con la possibilità che il suo convincimento si formasse a prescindere dall’instaurazione del contraddittorio tra le parti.
Analizzando la struttura del procedimento delineato dal Codice Rocco, esso distingueva, nel momento investigativo, una fase cosiddetta preliminare ed una fase di istruzione vera e propria, che, a sua volta, era ripartita tra formale e sommaria.
La fase preliminare era destinata alla ricerca del materiale probatorio necessario per l’inizio della azione penale53.
Solo successivamente si passava alla fase di istruzione vera e propria che doveva condurre ad una decisione circa il rinvio a giudizio o meno dell’imputato; la stessa istruzione si definiva formale o sommaria a seconda del soggetto che conduceva effettivamente le indagini.
Nel caso di istruzione formale era il giudice istruttore; nel caso, invece, di istruzione sommaria era il pubblico ministero; quest’ultimo poteva procedere ad istruzione sommaria nel caso in cui ritenesse la prova della colpevolezza evidente54.
Quanto all’istruzione formale, essa era avviata dal pubblico ministero, il quale investiva il giudice dell’istruzione attraverso una richiesta; prima di tale richiesta era comunque consentito al pubblico ministero di compiere atti di investigazione e di conservazione della prova55.
Nella fase dell’istruzione formale condotta dal giudice istruttore, inoltre, il pubblico ministero poteva avanzare richieste, assistere a qualsiasi atto di indagine e prendere visione degli atti in qualsiasi stato e grado del procedimento.
51
E. CARNEVALE, Carattere della verità nel processo penale, in Diritto Criminale, Vol. III, Roma, 1932, pp. 380 ss.
52
E. CARNEVALE, L’investigazione obiettiva nel processo criminale, in Diritto Criminale, cit., Vol. III, pp. 413 ss.
53
Cfr U. ALOISI, Manuale pratico di procedura penale, Milano, 1932, p. 268.
54
Cfr Cassazione, I sezione, 29 febbraio 1932, in Giustizia penale, 1933, IV, p. 50. Cfr altresì, L. GARLATI, “Contro il sentimentalismo”. L’impianto inquisitorio del sistema delle prove nel c.p.p.
del 1930, in Criminalia, 2012, p. 192.
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L. GARLATI, “Contro il sentimentalismo”. L’impianto inquisitorio del sistema delle prove nel
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Nel caso, invece, di prova evidente e di istruzione sommaria, le indagini erano svolte dal pubblico ministero, il quale aveva tutti i poteri d’indagine attribuiti nell’istruzione formale al giudice istruttore, tranne alcuni (ben pochi), che erano espressamente previsti ex lege.
Terminata l’istruzione, che fosse formale o sommaria56, nel caso in cui rispettivamente giudice istruttore o pubblico ministero optassero per il rinvio a giudizio dell’imputato, si giungeva all’ultima fase dell’iter processuale, ovvero al dibattimento.
Esso era orale e pubblico, ma il giudice poteva basare la sua decisione indifferentemente sia su elementi probatori formatisi avanti a lui nel contraddittorio tra le parti sia su atti compiuti in fase di indagine57.
In tal modo veniva meno la base della struttura accusatoria, in quanto, come ben precisato da Loredana Garlati, “l’utilizzabilità dibattimentale degli atti raccolti nell’istruttoria finiva per vanificare la separazione delle fasi processuali (autonome e al tempo stesso concatenate fra loro fino a formare un meccanismo complesso) e forgiava un’idea di unità dell’intero procedimento in cui, tuttavia, la fase precedente al giudizio era talmente preponderante da trasformare il dibattimento in una mera e il più delle volte spenta riproduzione di quanto già trasfuso negli atti, quasi fosse “una sorta di semplice controllo di giudizi cristallizzatisi in momenti anteriori”58.
Il codice Rocco, inoltre, riteneva quasi superflua la figura dell’avvocato nella fase istruttoria: la sua presenza era vissuta quasi come una mancanza di fiducia nei confronti del giudice, che, come visto, per estrazione sociale e cultura, meritava la più ampia discrezionalità.
Nel codice Rocco non vi era una disciplina specifica circa la prova e la sua valutazione: a titolo esemplificativo dovevano sussistere indizi sia ex art. 252, al fine di giustificare l’emissione di mandati o di ordini di cattura, sia ex art. 226 ter per la predisposizione di intercettazioni telefoniche; al contrario, si richiedeva la presenza di vere e proprie prove al fine del rinvio a giudizio o per emettere sentenza di condanna.
A causa dell’assenza di una vera e propria disciplina della valutazione delle prove, si doveva ricorrere a conclusioni elaborate dalla giurisprudenza, adducendo quale principio giustificatore quello del libero convincimento del giudice.
I casi più rilevanti ed eclatanti erano quelli in cui si ammettevano prove formate in modo irrituale o del tutto nulle.
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Da notarsi come “la violazione della forma d’istruzione, ossia la non osservanza dell’obbligo imposto dagli articoli 295 e 389 del codice di procedura penale di procedere ora con rito formale ora con quello sommario a seconda dei presupposti di partenza, non comportava nullità, risolvendosi in un mero spostamento di attribuzioni tra organi giudiziari egualmente abilitati a compiere quegli stessi atti istruttori, sottolineandosi in questo modo ancor di più la promiscuità” tra le due figure. Così testualmente L. GARLATI, “Contro il sentimentalismo”. L’impianto
inquisitorio del sistema delle prove nel c.p.p. del 1930, cit. p. 194.
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FLORIAN, Principi di diritto processuale penale, Torino, 1932, p. 66.
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Così letteralmente testualmente L. GARLATI, “Contro il sentimentalismo”. L’impianto
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In alcune pronunce, la Cassazione ha ritenuto valutabili interrogatori viziati da nullità assoluta, nonostante avesse la stessa Corte precisato che il principio del libero convincimento comporta in ogni caso l’esclusione di prove nulle59, od informazioni testimoniali non verbalizzate e riferite dalla polizia giudiziaria senza indicazione dei testi60.
Un cenno a parte meritano le sentenze in tema di diritto al silenzio dell’imputato, che consideravano lo stesso rilevante ai fini decisori61: di particolare importanza quanto affermato dalla Sezione VI penale della suprema Corte, la quale giustificava, proprio in nome del principio del libero convincimento, la valutazione del silenzio dell’imputato come elemento da ascrivere a suo carico62.
Tale posizione finiva col far ricadere sull’imputato un onere della prova proprio sulla base del principio del libero convincimento.
Nel codice Rocco il principio del libero convincimento si legava inevitabilmente con il concetto di prova; quest’ultima assumeva significati polivalenti, non essendo codificata, come nel sistema vigente, la differenza tra mezzi di prova e mezzi di ricerca della prova.
In dottrina63 si prospettava la distinzione tra prove rappresentative e prove critiche. Con le prime, il giudice, fondandosi su massime di esperienza verificava se l’oggetto della rappresentazione fosse o meno materialmente e storicamente esistito; nel caso delle prove critiche, invece, l’elemento acquistava l’attitudine a provare, tramite l’elaborazione critica dell’interprete.
Si riteneva che la prova rappresentativa esprimesse essa stessa la proposizione probatoria, lasciando poi all’operatore giuridico il solo compito di controllarla, mentre con la prova critica quest’ultimo esprimeva un giudizio proprio.
La decisione consisteva nel confronto tra quanto espresso dall’escussione del mezzo di prova e il fatto storico la cui esistenza andava provata64.
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Cfr. Cass. Pen. 16 ottobre 1973, D’Alì e Cass. Pen. 14 dicembre 1982, Ferrari.
60
Cfr. Cass. Pen. 7 dicembre 1976.
61
Cfr. Cass. Pen. 1 marzo 1982, Di Bitetto, nonché Cass. Pen. 7 novembre 1983, Canale.
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Vedi Cass. Pen. VI, 21 febbraio 1988, la quale affermava che “il principio secondo cui l’imputato non ha l’obbligo di rispondere alle contestazioni che gli vengono rivolte non comporta una limitazione legale della sfera del libero convincimento del giudice, che può legittimamente esercitarsi anche sulla portata significative del silenzio mantenuto dall’interrogato su circostanze sui cui questi, potendo fornire indicazioni di dati che potrebbero scagionarlo e contribuire all’accertamento della verità, si rifiuti di farlo.
In tal caso non si può dire che il silenzio, garantito all’imputato come oggetto di un suo diritto processuale, venga utilizzato in contrasto di tale garanzia, come tacita confessione di colpevolezza, giacchè il convincimento di reità nel giudice viene a formarsi non sulla valorizzazione confessoria del silenzio, bensì sulla valorizzazione in senso probatorio di elemento già idonei a suffragare il giudizio di colpevolezza, in ordine ai quali il silenzio del soggetto viene ad assumere valore di mero riscontro obiettivo”.
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Cfr F. CARNELUTTI, Diritto e processo, Napoli, 1958, pp. 128 ss. E F. CORDERO, Prove
illecite, in Tre studi sulle prove penali, Milano, 1963, pp. 9 ss.
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