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Premessa

Il presente saggio può costituire la traccia di 2 o 3 lezioni di filosofia a liceali dell’ultim’anno di scuola, che abbiano già trattato la filosofia di Hegel in generale, e cui sia stato fatto un veloce richiamo ad Euclide, trattato in terza liceo. È un approfondimento di concetti fondamentali nella storia del pensiero, e insieme una riflessione critica su temi attuali di epistemologia. Ritengo in generale che solo dall’approfondimento e dal confronto di modelli diversi possa nascere nei ragazzi un ben fondato spirito critico.

Si può p. es. nella prima lezione (di un’ora o due) iniziare con un cenno alla questione trattata nell’introduzione storica (che segue qua sotto). Passar poi si può alla lettura e commento del brano citato con la nota (5) («La gemma scompare....»), da cui trarre la modalità dialettica dei concetti di sviluppo, contraddizione, verità. Si fanno seguire, con altri esempi, i concetti hegeliani di mediazione, (non) identità, scopo e attuazione, “dimostrazione”. Nella seconda lezione (pure di un’ora o due) si analizzi la dimostrazione di un qualsiasi teorema di geometria elementare; si constati come in esso si usano i principi d’identità, non contraddizione, terzo escluso, le proprietà simmetrica e transitiva dell’uguaglianza; e si veda il procedimento lineare della dimostrazione. Infine in una terza lezione (d’un’ora?) si confrontino e si discutano coi ragazzi i due sistemi coi possibili rispettivi campi d’applicazione.

Introduzione. Dall’Ottocento difficili rapporti fra filosofia e scienza

Il rapporto fra filosofia e scienza è stato generalmente buono, talvolta ottimo, nei principali esponenti del pensiero antico e moderno fino a Kant. Si pensi a Platone, la cui dottrina delle idee voleva fornire modelli perfetti come fondamento sicuro alle scienze (in particolare alla matematica); ad Aristotele, scienziato egli stesso ancor prima che metafisico...; Cartesio e Leibniz furono geniali matematici, Spinoza era ispirato dalla catena di ragionamenti della geometria, Kant fu brillante astronomo e fisico prima che filosofo e per lui la filosofia doveva dar fondamento alla scienza.

Una frattura tra Geisteswissenschaften e Naturwissenschaften che durò fino alla II metà del Novecento, iniziò con l’idealismo tedesco, in particolare con Hegel. Egli da intelligente conoscitore della fisica newtoniana fu un acuto critico di suoi limiti: la forza di gravità concepita come azione a distanza, la non verificabilità del principio d’inerzia, l’illusione di non servirsi di presupposti a priori – su tali critiche concorderebbe un fisico moderno – o la rinuncia a definire l’essenza degli enti fisici – limitazione per Hegel inaccettabile. Ma sciaguratamente (forse non per caso) sviluppò con la sua filosofia della natura (la fisica) la parte più caduca del suo sistema, respinta per lo più dai fisici dell’epoca e posteriori. Fra fisici e filosofi idealisti seguirono per decenni scambi di anatemi.

D’altra parte filosofi scientisti come i positivisti dell’800 restrinsero la filosofia alla discussione sulle singole scienze empiriche; e neoempiristi del ‘900 giunsero a dichiarare insensati (sinnlos) non solo i più tipici problemi filosofici, ma pure tutto quel che non si può ridurre o a formule matematiche o ad affermazioni derivanti da dati empirici protocollari. Da

quest’impostazione restano esclusi gli stessi fondamenti delle scienze.

Contrapposizione c’è stata (e un po’ c’è tuttora) pure fra tradizione umanistica storica e letteraria, per lungo tempo bellamente predominante in Italia, da un lato, e filosofie analitiche, empiristiche, pragmatistiche grigiamente dominanti in vari settori nei paesi anglofoni, dall’altro. Ultimamente tende a imporsi pure in Italia un approccio scientista, che pretende verificabilità empirica e valutazione rigorosamente oggettiva in psicologia, storia, sociologia, o addirittura in letteratura, ciò ch’io ritengo semplicemente impossibile: si pretende dalle scienze umane quel che dopo Heisenberg si ritiene fasullo perfino in fisica, id est un oggetto di studio non perturbato dal soggetto conoscente.

Perciò credo meriti di tornare alla fonte, o all’espressione più compiuta, di due sistemi tipici della filosofia e, rispettivamente, della scienza: da un lato del metodo dialettico con Hegel; dall’altro della logica delle scienze esatte con Euclide. Se il secondo non ha bisogno di celebrazioni, non tutti forse han chiari i presupposti della sua grandiosa costruzione; e credo che il primo necessiti di rivalutazione, attualizzazione, chiarificazioni: non son così ovvi come parrebbe alcuni tratti centrali del suo pensiero. Intendo rimettere a fuoco qualche punto centrale del sistema euclideo poco trattato nella nostra tradizione; e tratti di quello hegeliano, dove ho notato da più parti interpretazioni divergenti da quelle che credevo assodate dalla tradizione, su principi e concetti come contraddizione, deduzione, verità, contesto...

Cito in appendice un esempio significativo della tendenza di questi ultimi decenni di avvicinare le due logiche, con interpretazioni della dialettica che rimangono sul terreno della logica classica.

Sono fondamentali in Hegel i concetti di totalità e di infinità, contrapposti dialetticamente a quelli di parti e di finito: le parti dànno senso al tutto, il tutto alle parti; finito e infinito sono opposti complementari. Mentre Euclide, come pure tutti i matematici nei millenni successivi fino al secolo XIX (fino a Giorgio Cantor, fondatore della teoria degli insiemi infiniti), rifiuta il concetto d’infinito attuale, di totalità infinita pensata come esistente tutta insieme, per via dei paradossi cui dà luogo (p.es. un insieme infinito può non essere maggiore di una sua parte, violando l’ottavo assioma d’Euclide).1

Euclide usa i principi della logica aristotelica

Il principio d’identità, ovvero la proprietà riflessiva dell’uguaglianza (qualunque sia A, dev’essere A=A, cioè ogni cosa è uguale a sé stessa); il principio di non contraddizione (non si può attribuire e negare nel contempo una stessa proprietà a uno stesso soggetto); principio del terzo escluso (fra A e non A uno dei due è vero e l’altro è falso: non c’è una terza possibilità); nonché le proprietà dell’uguaglianza: simmetrica (da A=B segue B=A) e transitiva (da A=B e B=C segue A=C).

Sono principi validi solo in un mondo di enti immobili e perfetti (come sono gli enti geometrici di Euclide e le idee platoniche): se p. es. paiono uguali un’asta di legno e un’altra, e questa con un’altra ancora ecc., alla fine l’ultima, contravvenendo alla proprietà transitiva dell’uguaglianza, può essere vistosamente diversa dalla prima, per le piccole differenze invisibili che s’accumulano nella serie. Così gli altri principi (v. oltre). I teoremi di geometria valgono solo per enti che non si deformano mentre li tratti o li misuri, e che siano idealmente precisi: un cerchio di ferro tocca una sbarra, per quanto sottile, in un trattino lungo qualche po’, non in un punto infinitesimo; in un triangolo rettangolo di legno o di ferro il teorema di Pitagora vale approssimativamente (tanto

1 Euclide usa però il concetto d’infinito potenziale (un segmento è prolungabile ad libitum; dato un numero ne esiste sempre uno maggiore……), espresso nel 2° postulato dei suoi Elementi di Geometria. Così la matematica seguente prima di Cantor, compresa la geniale costruzione del calcolo infinitesimale di Leibniz e di Newton. Postulati e assiomi di Euclide si possono trovare p.es. in E. Agazzi e D. Palladino, Le geometrie non euclidee e i fondamenti della geometria

dal punto di vista elementare, La Scuola, Brescia 1998, pp.38, 39. Una trattazione recente si trova in L. Russo, G. Pirro,

più precisamente, quanto più il triangolo s’avvicina al modello ideale; ma esattamente vale solo con quest’ultimo).

La logica hegeliana è invece eraclitea

Una logica del divenire, del mondo in continua trasformazione. La celebre affermazione di Eraclito: «Entriamo e non entriamo negli stessi fiumi, siamo e non siamo» viola un sol colpo allegramente i principi sia d’identità, sia di non contraddizione. Ciò succede nel mondo (non ideale) che cambia. Tal Teresa quattordicenne è la stessa (cioè è rimasta uguale) dopo un anno? O il giorno dopo? Evidentemente no, eppure è ancora Teresa; la stessa Teresa è diversa: è, e non è lei. Quella scarpa ai piedi di quel tizio è uguale a se stessa dopo un mese? E quel germoglio dopo una settimana? Ovviamente no; ma dopo un minuto neppure, benché non sia vistosa la differenza; è lui, ma diverso: è, e non è, quello di prima. Insomma nel divenire di qualcosa non c’è un’essenza stabile di quella cosa, mentre variano le sue qualità (in Aristotele rispettivamente la sostanza e gli accidenti), come se nel fiume o in Teresa ci fosse un fondo immutabile, mentre cambiano l’acqua e le sponde del fiume e, rispettivamente, invecchiano le cellule di Teresa; ma il fiume e Teresa restano sé stessi mutando, sono ancor sé stessi nella diversità. Il soggetto del divenire muta restando sé stesso. Siamo agli antipodi della logica aristotelica.

E in Hegel, come in Eraclito, il divenire non è lineare, mattone su mattone per costruire l’edificio; ma è contesa, lotta, contraddizione: i conflitti muovono il mondo, come le opposizioni logiche dànno senso ai concetti (non si sa che cosa sia la giustizia, se non si conosce l’ingiustizia, il lungo senza il corto, la sazietà senza la fame, il padrone non ha senso senza il servo, una società senza i suoi membri... e viceversa). È un movimento dialettico che Hegel sviluppa nelle sue celebri triadi: A) Si pone qualcosa (tesi), approfondendone il concetto si giunge a B) al suo opposto (antitesi), che sviluppandosi C) ritorna al punto originario, arricchito dal passaggio all’opposto (sintesi), che è lo sviluppo, la “verità” di ambo gli opposti. Questo ritorno è a un livello più alto della tesi, punto di partenza, sicché il moto è circolare sì, ma a spirale. La sintesi è a sua volta punto di partenza, tesi, di un nuovo movimento dialettico, che mena a un’altra sintesi (o “verità”) degli opposti che l’han formata, e così via. Ogni evento della storia individuale e del mondo Hegel intende spiegare con questo schema (ciò che gli riesce spesso brillantemente, forzatamente altre volte).

Ogni passaggio non è un salto, ma è dato da un nesso logico, è mediazione, conciliazione, che mette in relazione gli opposti. Inoltre: per generare un vero rapporto dialettico non basta la semplice affermazione di due concetti contraddittori, la loro giustapposizione in forma intellettualistica; ma essi debbono venir mediati fra loro. «Occorre cioè che sia l’analisi dell’uno a condurci verso l’altro. Mediare due concetti significa per Hegel farli uscire dal proprio isolamento, collegarli intimamente l’uno all’altro, scoprire – attraverso una seria e meditata riflessione su di essi – la loro profonda unità».2

Esempi classici. La Scienza della Logica (nonché l’Enciclopedia), com’è noto, comincia necessariamente dal concetto più generale, quello di essere; approfondendo il quale, si vede come esso sia pure il più generico, povero, privo di determinazioni: dunque ha in sé il nulla, il non essere. Il divenire è la sintesi dei due: quando qualcosa diviene, muta, è e non è quel ch’era prima. Partendo di qua, si deducono le varie categorie.

Nella sezione Coscienza della Fenomenologia dello Spirito s’inizia con la figura della Certezza

sensibile. Con essa (schematizzando con parole mie) pare una verità certissima e stabile lo hoc, hic et nunc (il questo, qui ed ora): ciò ch’io posso vedere qui, davanti a me, ora, in quest’istante;

p.es. un bosco all’alba (tesi). Ma se mi chiedo che cos’è questo qui ed ora, m’accorgo che basta volger lo sguardo altrove, o tornare a guardar più tardi, per trovare un altro oggetto e un altro

qui ed ora; p.es. un fiume al tramonto (negazione, antitesi). Da ciò sorge l’idea di un generico hoc, hic et nunc, della possibilità, direi, di aver in generale tali impressioni sensibili. Ma siccome

è l’io che stabilisce il nesso fra queste diverse impressioni, l’attenzione si sposta dall’oggetto all’io che osserva, dall’esterno all’interno della coscienza (nuovo capovolgimento, sintesi; con essa riparte il processo dialettico...). Hegel scrive di «un’immane potenza del negativo»3 che

scaturisce dall’interno stesso del processo.

E nella sezione Autocoscienza della stessa opera si ha un bell’esempio di applicazione di questa logica alla storia (ideale) delle civiltà umane, con la celebre dialettica fra servo e padrone: il loro rapporto s’instaura, si capovolge, si risolve, come val la pena di leggere direttamente. Così in tante celebri o meno note triadi.

Nota: la conciliazione degli opposti in Hegel non è la coincidentia oppositorum di Nicolò

Cusano: questa è un concetto matematico basato sulla logica aristotelica tradizionale. P. es. all’infinito (cioè con raggio infinito) una circonferenza diviene una retta; un poligono d’infiniti lati infinitesimi (cioè ridotti a punti) diviene un cerchio… Un procedimento di trasformazione continua, lineare, porta (con un passaggio al limite) da un estremo all’altro, i quali (circonferenza e retta, poligono e cerchio) sono semplicemente figure diverse, non opposti dialettici.

Diversi sono i presupposti e lo svolgimento del sistema euclideo

Nella mirabile costruzione della geometria euclidea si ha, com’è noto, una lunghissima catena di dimostrazioni, cioè di ragionamenti fatti di tanti passetti, ognuno dei quali è semplice, intuitivo e rigoroso; ma che tutti insieme portano a basilari risultati, di per sé per nulla intuitivi. Dimostrare una proposizione in Euclide è mostrare il nesso necessario, secondo regole logiche date, che collega quella proposizione alle precedenti, e con ciò alle prime premesse (postulati). P. es. Euclide si piglia il disturbo di dimostrare cose ovvie, come che sono uguali due triangoli che hanno i tre lati, l’un triangolo con l’altro, rispettivamente uguali: non s’accontenta dell’intuizione, del colpo d’occhio, ma mostra come questo teorema derivi dai presupposti dati.4

Ovviamente così non ci possono essere presupposti dimostrabili: ché dovrebbero riconnettersi ad altri precedenti ecc. in un regressus ad infinitum. Si rinuncia dunque a dimostrare il punto di partenza, la base di tutta l’imponente costruzione, i postulati, che sono all’origine della catena di deduzioni. Essi vanno presi come autoevidenti, s’è sostenuto fino al XIX secolo (v. oltre).

In geometria vale tradizionalmente il concetto classico di verità. L’idea di autoevidenza (cioè di verità ovvia, di aderenza indiscutibile alla realtà) si basa implicitamente sulla concezione classica aristotelica del concetto di verità. Ci sono due piani, quello del pensiero (e del linguaggio) e quello del mondo; se si corrispondono, si ha verità; sennò, falsità (“Veritas est adaequatio rei

et intellectus” secondo Tommaso d’Aquino). La geometria è vera, perché corrisponde al mondo,

s’è pensato per un paio di millenni (ma oggi molti preferiscono considerarla un modello eventualmente applicabile a qualche settore del mondo).

E il sistema dev’essere organicamente coerente con se stesso, cioè non deve contenere contraddizioni

Nella concezione moderna dopo Lobacevskij (con la costruzione delle geometrie non euclidee nel XIX secolo) la geometria non si basa sull’esperienza, su dati ricavabili dal mondo esterno a noi (o tutt’al più solo nella formazione psicologica dei concetti, non per la validità dei teoremi), ma ci si accontenta della coerenza interna del sistema, della sua non contraddittorietà.

3 G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, introduzione, traduzione, note e apparati di Vincenzo Cicero, testo tede- sco a fronte, Rusconi, Milano 1995, p.85. È una negazione calata in un mondo in divenire, del tutto diversa dalla statica contrapposizione di due affermazioni riguardanti intellettualisticamente enti fuori dal tempo, come nella logica pla- tonico-aristotelica.

4 Secondo L. Geymonat «Dedurre -nel senso usuale del termine, precisato dalla logica formale- è trasformare in base a regole prestabilite un certo complesso di proposizioni, che sono il punto di partenza della deduzione, sì da ottenere una nuova proposizione, che è la proposizione dedotta», ibid., pp. 314-315.

È il cosiddetto sistema ipotetico-deduttivo di Hilbert: se valgono, o dove valgono, le premesse, sulla cui verità in sé non ci si pronuncia, vale quel che se ne deduce; oppure: se si accettano le premesse (verità convenzionale), vale tutto il sistema da esse dedotto.

Completamente diversa è l’impostazione del sistema hegeliano, la sua idea di punto di partenza e di dimostrazione; nonché il suo concetto di verità. Vedasi lo splendido passo nella prefazione della Fenomenologia dello Spirito:

La gemma scompare, quando sboccia il fiore, e si potrebbe dire che ne viene confutata; allo stesso modo, quando sorge il frutto, il fiore viene per così dire denunciato come una falsa esistenza della pianta, e il frutto subentra al posto del fiore come la sua verità (corsivo mio). Ora queste forme non sono semplicemente differenti l’una dall’altra, ma una soppianta l’altra, in quanto sono reciprocamente incompatibili. Nello stesso momento però la loro natura fluida le rende momenti dell’unità organica, in cui non solo non entrano in contrasto, ma sono necessarie l’una quanto l’altra; e soltanto questa pari necessità costituisce la vita del tutto.»5

E più avanti: «Il vero è il divenire di se stesso, è il circolo che presuppone e ha all’inizio la propria fine come proprio fine, e che è reale solo mediante l’attuazione e la propria fine».6 La verità di una cosa dunque è quella stessa cosa sviluppata, che, raggiungendo la sua pienezza (in

quella fase), esprime appieno il suo significato (sia pure dialetticamente superabile in un’altra fase): la verità dell’antico usuraio è il moderno banchiere; dove l’usuraio non è solo il banchiere in germe, ma qualcosa che non ha ancora un senso definito, che si chiarirà solo col suo sviluppo. Non c’è contrapposizione fra pensiero ed essere (ché anzi in Hegel coincidono reale e razionale), né fra i due piani di linguaggio e mondo (com’è invece nel concetto classico di verità): la sua logica del divenire vale per entrambi. Pure la bugia è parte del reale, e il negativo è componente essenziale allo sviluppo dialettico. «Il vero è l’intero. L’intero però è solo l’essenza che si compie mediante il proprio sviluppo», si dice più avanti;7 il vero cioè è la realtà complessa articolata

giunta al suo pieno sviluppo; il falso è dunque il monco, il parziale, l’incompiuto (pur necessario al processo), che prenderà un senso più pieno solo quando si completerà. Lo sviluppo comprende momenti reciprocamente contraddittori, incompatibili l’uno con l’altro, ma ambo necessari allo sviluppo che porta all’intero ch’è il vero.8

Parmenide ed Eraclito dicono l’uno il contrario dell’altro: ha uno ragione e l’altro torto? Macché! Bando alle contrapposizioni rigide unilaterali fra vero e falso: «La diversità fra sistemi filosofici» è «lo sviluppo progressivo della verità»9 di cui i due filosofi sono momenti parziali

reciprocamente necessari.10

Si veda poi in Hegel il senso di dimostrazione, scopo e attuazione. Dimostrare ha qui un senso tutto suo: dimostrare la validità, la verità, di qualcosa, vuol dire mostrare il percorso necessario che mena a quella cosa; e nel risultato è compreso il percorso, il quale da parte sua dà senso al risultato, lo forma, lo modifica, lo rende “vero” (specificando di qual verità si tratti). 11È come

dire che in una gita in montagna il percorso dà senso alla meta, e la meta al percorso: una

5 G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, cit., p.51. 6 Ibid. p.69.

7 Ivi.

8 (3) A pur illustri commentatori di Hegel a mio parere questo è sfuggito: A. Kojève definisce più volte “Vérité” come “Réalité révélé” nella sua Introduction à la lecture de Hegel, Gallimard Paris 1947, p.25, dove commenta la sez. A, IV, della Fenomenologia dello Spirito. Rivelazione implica quella distinzione fra pensiero ed essere ch’è assente in Hegel. 9 G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, cit., p.51.

10 Platone in qualche modo ricomprende nel suo sistema i due momenti: Parmenide nel mondo delle idee, Eraclito nel mondo sensibile. Ma è più una differenza d’ambiti che una dialettica degli opposti, anche per la svalutazione del secondo dei due.

11 “Dedurre” in Hegel è definito da Geymonat «ricostruire nella loro genesi ideale le categorie del pensiero (e della realtà) approfondendo ed esplicitando il nesso dialettico fra le determinazioni varie in esso contenute; è deduzione aprioristica, dunque necessaria. Scientificità non sta nel riscontro empirico, ma nel presupposto idealistico che lo sviluppo dell’idea corrisponda di per sé al reale», L. Geymonat, Storia del pensiero filosofico e scientifico cit.p. 315.

passeggiata senza meta (ma avrà forse un altro scopo) è altra cosa, già durante la strada, di una con meta; una vetta raggiunta in funivia è (non solo si apprezza come) un’altra vetta, rispetto a quella stessa (non vale il principio d’identità) raggiunta a piedi. La camminata o l’arrampicata (il percorso) dà “verità”, senso compiuto, realizzazione, alla meta; un altro senso, una diversa “verità” è data alla vetta dalla funivia. (Esempio mio). Le cose si spiegano e si definiscono con la

loro storia (e la storia è fatta da ciò che la costituisce).

La cosa infatti non s’esaurisce nel suo fine, bensì nella sua attuazione; e il Tutto reale non è costituito soltanto dal risultato, ma da questo insieme al divenire che l’ha prodotto. Preso a sé stante, il fine è l’universale senza vita, così come la tendenza è il mero impulso cui manca ancora la realtà; e il nudo risultato è il cadavere che s’è lasciata dietro la tendenza. Analogamente la diversità è piuttosto il limite