Capitolo 4: UN’ANALISI EMPIRICA SUL CO-SVILUPPO
4.1.3 I legami con la madrepatria
Sebbene non si possa affermare che il ruolo del migrante come agente di sviluppo per la terra di provenienza sia riconosciuto univocamente ed ufficialmente, si può sostenere senza paura di smentite che in modo particolare in Senegal la funzione svolta dagli immigrati nel supporto, materiale e non, al welfare e allo sviluppo locale comunitario nei villaggi d’origine ha un impatto notevole, talvolta ben superiore a quello esercitato dalla compagine statale e dal sistema della cooperazione internazionale. Assume allora ancor più interesse comprendere come si possano integrare le iniziative di sviluppo indipendenti, singolari e collettive dei lavoratori migranti con le strategie implementate sul campo dai governi locali e nazionali e dalle agenzie di cooperazione. Al di là del mero influsso economico, pur preminente, le iniziative messe in campo dall’associazionismo migrante infatti hanno il vantaggio rispetto ad interventi predisposti ad altri livelli istituzionali di garantire un tipo di relazione continua e stabile con il territorio ed una conoscenza diretta e non mediata dei bisogni locali. Fattori questi che difficilmente un osservatore escluso dalle dinamiche comunitarie interne può giungere a possedere in assenza del capitale sociale transnazionale di cui dispongono coloro che sono emigrati da quelle terre. Emblematico di questa condizione è il fatto che mentre gli investimenti produttivi effettuati sulla base dei risparmi individuali si concentrano soprattutto nelle zone urbane, le iniziative di natura collettiva si indirizzano piuttosto verso le aree rurali, in cui praticamente assenti si mostrano gli interventi statali. Tendenzialmente le azioni promosse dalle associazioni dei senegalesi all’estero vanno, infatti, nella direzione di dare soddisfazione tanto alle necessità fondamentali, quali l’educazione primaria, l’accesso universale alle cure sanitarie,
l’approvvigionamento idrico e la strutturazione di infrastrutture collettive, quanto alle esigenze di natura simbolica, come ad esempio la costruzione dei luoghi di culto. Oltre ai progetti realizzati in collaborazione con le ong e gli enti locali italiani, numerose sono infatti le iniziative sostenute in maniera autonoma, tanto a livello decisionale quanto finanziario, dalla comunità senegalese immigrata in Italia, grazie al ricorso alle rimesse collettive.
“Queste relazioni con l’esterno che modificano l’interno, in un rapporto dialogico, non sono generiche ma ben specifiche: nei villaggi del Cayor si usano modi di dire, espressioni linguistiche, tipiche di alcune città del Nord Italia, e questo avviene soprattutto tra i giovani, che sono i de-costruttori del presente e i costruttori del futuro” (Ceschi e Stocchiero, 2006, pag. 230)165. Interessante è riflettere a tal proposito come per un verso i progetti di co-sviluppo vengano alimentati dal mito del ritorno in patria degli emigranti che in Senegal mantengono le radici pur aprendosi verso l’esterno e, per l’altro, hanno l’effetto di rafforzare il miraggio dell’emigrazione nei giovani in cerca di esperienze di successo da emulare. Bisogna quindi porre attenzione al fatto che se da un lato, con l’esempio dei migranti impegnati nella promozione della madrepatria, si può stimolare la mobilitazione autonoma di risorse e capacità locali per la definizione di programmi di sviluppo autogestiti, dall’altro si può ampliare il senso di dipendenza dall’estero, che spesso porta all’immobilità e all’incapacità di assumersi responsabilità per il proprio futuro. Gli effetti ambivalenti delle dinamiche che si sviluppano intorno alle rimesse dei migranti inviate per il benessere delle aree di provenienza sono stati ampiamente discussi dagli studiosi del transnazionalismo. Taluni, ritenendo che le migrazioni siano parte del sistema globale di dipendenza del Sud del mondo dal capitalismo del Nord, sostengono che, nel momento in cui i migranti promuovono investimenti produttivi nelle società di partenza, essi non fanno altro che riprodurre il meccanismo di sfruttamento di cui essi stessi sono vittime. Secondo altri, invece, sebbene gli investimenti talvolta possano incrementare la polarizzazione economica, in altri casi se ben integrati nel contesto di riferimento favoriscono piuttosto lo sviluppo economico. Sicuramente, come dimostrano i casi d’insuccesso che hanno visto per protagonisti anche attori senegalesi, il co-sviluppo non può essere la panacea di tutti i mali, ma solo un fattore che insieme a molti altri può concorrere alla lotta alla povertà
(Grillo e Riccio, 2004)166. Ciò anche perché per la buona riuscita di un progetto occorre realizzare un mix sapiente tra gli interessi e le motivazione dei diversi soggetti, abbiano essi natura informale o istituzionale. Come affermano Grillo e Riccio nelle conclusioni del loro lavoro (Ibidem), è impossibile trattare con il co-sviluppo come se esso fosse una realtà sradicata dal contesto culturale, politico e sociale, tanto qui che là, visto che, non bisogna scordarlo, la sua influenza attraverso i legami transnazionali mantenuti dai migranti si esercita tanto nel territorio di partenza che in quello di arrivo.
Nonostante la scarsa attenzione riservata comunemente alle politiche migratorie dei paesi d’origine, esse rappresentano una dimensione interessante da indagare per poter disporre di un quadro complessivo dei nessi che interconnettono i migranti con le relative società di partenza. “Pur senza procedere ad una generalizzazione assoluta, si può asserire che, nello stesso modo in cui esiste una forte convergenza nelle politiche di immigrazione poste in essere dagli stati del nord del mondo – caratterizzate da un rafforzamento dei controlli in entrata e da un progressivo allargamento dei diritti per gli stranieri residenti – si osserva una convergenza speculare nei paesi di origine verso la realizzazione di politiche per promuovere e mantenere i legami con le proprie comunità all’estero” (Coslovi, Zarro, Pastore, 2008, pag. 3)167. Il caso senegalese è emblematico di questo processo di progressiva strutturazione di una strategia definita per il controllo dei flussi di emigrazione e per la gestione delle relazioni transnazionali con la diaspora senegalese all’estero. Il Senegal, insieme a Capo Verde, è stato il primo paese africano ad includere la questione migratoria all’interno della strategia elaborata a livello nazionale per la riduzione della povertà. La scoperta delle risorse che l’immigrazione porta con sé, tanto da punto di vista del contributo economico che può apportare alla madrepatria, quanto in termini di orientamento positivo che può indurre nella politica estera del paese di destinazione, ha indotto infatti negli ultimi anni in Senegal un cambio repentino di paradigma in risposta alle opportunità e ai rischi connessi all’integrazione dei migranti nelle aree di destinazione. Seguendo un indirizzo pragmatico di continuità con la politica migratoria precedente, il governo del presidente Wade, insediatosi nel 2000, ha teso a promuovere iniziative destinate, da un lato, a
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Grillo R., Riccio B., Translocal development: Italy-Senegal, Population, space and place n.10, 2004.
167 Coslovi L., Zarro A., Pastore F., Stati africani e migrazioni, la sfida dell’istitutional building. Ricerca-
azione sulle politiche di alcuni Stati africani verso la diaspora, Working Paper 39/2008, CeSPI, aprile
valorizzare il ruolo della diaspora intesa come legittimo interlocutore politico e, dall’altro, ad incoraggiare un dialogo aperto e costruttivo di concertazione trasversale sulla materia migratoria che è tuttora in fase di costruzione. Il primo atto concreto, a dimostrazione della volontà di favorire la partecipazione della comunità di emigrati all’estero allo sviluppo del paese, è stata l’istituzione nel 2003 del Ministero dei Senegalesi all’Estero e del Turismo, che attraverso il lavoro portato avanti dalle tre Direzioni interne deputate rispettivamente al sostegno degli investimenti, all’assistenza sociale e alle politiche abitative, si è orientato alla valorizzazione multisettoriale delle opportunità di sviluppo derivanti dalle migrazioni. Altra linea politica d’intervento prioritaria, indotta dal confronto costante con le nazioni europee mete dei flussi migratori senegalesi, quali in via primaria l’Italia, la Francia e la Spagna, è quella della sensibilizzazione e dell’informazione sui rischi dell’emigrazione clandestina, in un’ottica di tolleranza zero del fenomeno caldeggiata per giungere all’obiettivo di prevenire le migrazioni forzate grazie ad un’opera indirizzata alla creazione d’opportunità di lavoro in patria (Ibidem). In attuazione dell’obiettivo di supportare il rimpatrio degli emigrati in difficoltà, che è una delle priorità, che insieme alla protezione dai pericoli della clandestinità, alla valorizzazione della diaspora e alla mappatura dei cittadini espatriati concorre alla determinazione delle misure previste per la promozione della crescita e la creazione della ricchezza per il periodo 2006-2010, nel corso del 2007 il governo senegalese ha promosso il cosiddetto programma Reva (Ritorno verso l’agricoltura). Tale intervento prevede di sostenere lo sviluppo di attività agricole allo scopo di reintegrare i propri cittadini rimpatriati dalla Spagna. Non poche riserve gli sono state avanzate da parte della società civile senegalese, da un lato, per la scarsa trasparenza dimostrata dalla compagine governativa sugli accordi di rimpatrio stipulati con la Spagna e, dall’altro, per il fatto che tale programma più che diretto al ritorno sarebbe indirizzato ad una vera e propria riconversione lavorativa dei soggetti coinvolti, tradizionalmente occupati nella filiera della pesca e non in quella agricola (Liberti, 2007)168. Come ricordano bene Coslovi e i colleghi del CeSPI nella recente indagine condotta sulle politiche migratorie degli stati africani, l’Italia rappresenta un paese di assoluta importanza per il Senegal. Tale condizione si può facilmente spiegare con il ricorso, da un lato, al fatto che negli ultimi decenni il territorio italiano sia
diventato meta privilegiata degli immigrati che abbandonano le coste senegalesi e, dall’altro, alla peculiare situazione dei rapporti intergovernativi caratterizzata dalla quasi totale assenza di accordi bilaterali per la definizione di strategie concordate per il management congiunto dei flussi migratori. Attente analisi realizzate al fine di fornire indicazioni di policy sulla questione rivelano che il modo più diretto per gestire in maniera congiunta il fenomeno migratorio sarebbe proprio la sottoscrizione di intese bilaterali fra Italia e Senegal in materia di lavoro per la definizione di meccanismi attraverso cui prevedere quote di ingresso regolare, liste di collocamento e corsi di formazione professionale. In particolare, tra gli obiettivi primari da realizzare in un prossimo futuro per facilitare il riconoscimento della situazione giuridica dei lavoratori, vi dovrebbe essere la stipula di convenzioni relative alla sicurezza sociale per garantire ai migranti diritti fondamentali come la possibilità di riunire i contributi lavorativi ottenuti in Italia per fini assicurativi e pensionistici, oltre al pagamento degli assegni familiari. É bene sottolineare a tal proposito che la questione del denaro risparmiato dai lavoratori stranieri riveste un’importanza decisiva non solo a livello di accordi intergovernativi ma soprattutto in ambito privato.
Le rimesse hanno infatti un rilevante valore simbolico, oltre che materiale, per i senegalesi espatriati poiché svolgono la funzione di adempiere all’obbligo morale fortemente sentito e messo in pratica di mantenere la famiglia in patria, mostrandosi all’altezza delle aspettative promosse nei loro confronti delle famiglie allargate. Si pensi solo al fatto che in alcune zone rurali intorno a Louga le rimesse costituiscono il 90% del reddito familiare. Più che il quantitativo di denaro di volta in volta inviato, è la frequenza stessa degli invii l’indicatore più adatto a misurare l’intensità e la varietà delle relazioni sociali che connettono l’immigrato alla madrepatria. La tradizione gruppocentrica della cultura senegalese influenza in maniera significativa le modalità di risparmio dei migranti. “La frase spesso ripetuta: “Il lavoro è qui, i sentimenti, gli affetti sono in Senegal” ha implicita l’idea del viaggio come temporaneo, la permanenza transitoria, e pure una soluzione delle problematiche dello stare tra due mondi, il cui polo di attrazione è la comunità in Senegal” (Castagnone et al., 2005, pag. 33). Con riferimento alla classica definizione di Merton, Scidà169 è giunto persino a considerare il migrante senegalese come uomo marginale per la propensione a riconoscersi
169 Scidà G., Le relazioni sociali dei senegalesi in viaggio verso la modernità, Sociologia urbana e rurale,
esclusivamente all’interno del gruppo di appartenenza e a rifiutare il conformismo verso gli usi e i costumi della società d’approdo, maggiormente accentuata rispetto a quello delle altre comunità straniere indagate. L’estrema dipendenza dalla terra d’origine ha conferito all’emigrazione senegalese in Occidente il carattere distintivo che l’ha resa riconoscibile all’esterno, la sua tendenza cioè a coinvolgere quasi esclusivamente uomini soli, salvo i rari casi recenti di migrazione al femminile e di ricongiungimento familiare, che riproducono all’estero vere e proprie comunità in cui coltivare la propria identità nazionale ed etnica. Come sottolineato da diversi autori, l’intreccio tra la permanenza prolungata all’estero ed il parallelo radicamento affettivo ed economico nelle relazioni con in parenti in Senegal è talmente stretto che si potrebbe parlare dei riassetti delle esistenze in rapporto alla migrazione come di una condizione che riguarda l’intera famiglia. L’esperienza migratoria tipica dei senegalesi fatta di andate e ritorni dal paese d’origine periodici ed intermittenti è, in particolar modo, esemplificativa della riorganizzazione interna all’assetto famigliare che le migrazioni transnazionali portano con sé. É bene, infatti, porre l’accento sul fatto che l’esperienza migratoria, nelle sue dimensioni tanto esplicite quanto taciute, permea in profondità il vissuto quotidiano non solo di coloro che sono partiti ma anche dei congiunti rimasti in patria che si trovano a gestire il rapporto con questa presenza-assenza a livello affettivo e pratico. Assumendo una prospettiva di genere, risulta particolarmente significativo affrontare l’analisi di come la tradizionale posizione delle donne all’interno della società senegalese sia stata trasformata dall’esperienza della migrazione anche quando questa non le ha viste coinvolte in prima persona, se non per il tramite dei parenti espatriati. Da una consueta marginalizzazione, seppur più formale che effettiva, delle donne nei processi decisionali e gestionali propri dell’economia familiare, la necessità contingente si è convertita in un’opportunità di promozione e partecipazione attiva della figura femminile. Un po’ arrangiandosi e un po’ innovando le donne che, alla partenza del congiunto, si sono ritrovate a svolgere funzioni inedite nella conduzione familiare, hanno sperimentato nuove strategie autonome per provvedere al sostentamento della parentela allargata e alla gestione delle risorse economiche e materiali provenienti dall’emigrazione. “Se per un verso il fatto stesso che siano soprattutto gli uomini a partire e a mandare a casa il denaro contribuisce a ribadire la norma socioculturale secondo cui è appunto ad essi che compete la funzione di garantire il mantenimento della famiglia con il loro lavoro, per
un altro verso la loro assenza sta inducendo tutta una gamma di situazioni nuove in cui le donne si rendono visibili come esse stesse produttive e non soltanto impegnate nella riproduzione in senso stretto (pur tenendo conto del fatto che le donne fanno numerosi figli e dell’incidenza della dimensione della prole nella centralità della famiglia d’origine)” (Castagnone et al., 2005, pag. 225). Proprio al fine di indagare il nesso tra genere e transnazionalismo alcune autrici hanno proposto l’utilizzo dell’ Household approach che si pone l’intento di svelare l’interconnessione tra azione individuale, fattori culturali e strutture socioeconomiche sulla cui base si dispiegano, all’interno del percorso migratorio, le divisioni legate al genere (Chant e Radcliffe, 1992)170.