(Retzer, 1791) e Bothe (Bothe, 1819), che in buona parte ho accolto.
Carolus Fernandus S. P. dicit Petro Cohardo advocato regio
Satis, iucundissime Petre,
compertum habeo permultos, qui se doctissimos credi volunt, ita sacram atque divinam aspernari poesim, quasi eiusmodi sint poete qui et hominibus et civitatibus non solum nihil utilitati quesisse, verum etiam
incommodorum partem vel
maximam invexisse videantur. Quos dum forte rogitari contingit quenam ipsis potissimum ratio persuadeat ut poetas tantopere detestandos esse putent, respondent illos lascivis tantum carminibus insulsissimisque de Deo, deque veneratissimo celicolarum cetu fictionibus abundare. Ignorant autem quantum
1
5
10
15
Charles Fernand saluta cordialmente Pierre de Courthardy, avvocato regio
Amabilissimo Pietro, ritengo
sufficientemente noto che moltissimi, che vogliono essere creduti coltissimi, disprezzano la poesia sacra e divina, quasi fossero poeti di tal genere coloro che non solo non sembrano ricercare alcuna utilità per gli uomini e per le città, ma sembrano addirittura arrecare una quantità di danni anche grandissima. E se per caso accade che si domandi loro quale ragione mai li induca a credere che i poeti debbano essere tanto detestati, rispondono che essi abbondano soltanto di versi lascivi e di invenzioni alquanto sciocche su Dio e sulla veneratissima adunanza dei Santi. Ma essi ignorano quanta verità sia nascosta sotto i segreti velami e involucri dei poeti, a
518 Questi criteri sono validi per tutte le Appendici seguenti, salvo diversamente specificato.
519 Il testo di questa prefazione fu già trascritto in tre edizioni, due antiche: Retzer 1791, pp. 72-79
(trascrizione interpretativa), e Bothe 1819, pp. VII-XIII (trascrizione diplomatica), e una moderna: Sommer 1996, p. 115 ss. (che non ho potuto vedere per irreperibilità del testo). Le ho raffrontate con l’editio princeps, per individuare e correggere eventuali errori. Questa prefazione fu parzialmente studiata da Simone 1939, pp. 474-476.
136
de sanctissima Dei immortalis religione, de vario siderum motu, de multiplici rerum natura, de clarissima virtutum laude, deque rebus omnibus (ut paucis agam) sub occultis poetarum velaminibus involucrisque veritatis delitescat. Nesciunt hii
quantum inter comediam
tragediamque intersit, quid ab epigramate satyra distet, quantum ab herois lirica differant, quodque detestabilius est, ipsas ignorant carminum leges, et de poetis sentenciam ferre non verentur, fitque ut, dum haberi peritissimi volunt ipsi, sese prodant ultro cumque bonis litteris nihil unquam habuisse commercii apertissime fateantur. Ego enim, doctissime Petre (nescio an id tibi fortasse citra rationem dixisse videbor), eum inter litteratos viros numerandum minime reor qui ne ipsa quidem poetices elementa vel primis (ut aiunt) labris, degustanda putarit. Quippe, nisi carminibus ipsis nescioquid praestantie singularis inesse videretur, nunquam profecto
Deus Optimus Maximus
sacratissimas leges, quas ab se, sine ulla controversia, profectas esse constat, carmine potius (et quidem velatissimo) quam soluto sermone conscribi voluisset.
Quisquis igitur poetas aspernare, Divinum Mosen, David, Salomonem, Ysaiam, ceterosque Dei summi vates, aut poetas fuisse prorsus ignoras, aut, si forte nosti, dissimulandum putas. Utcunque tamen est, nihil eximie poetarum laudi detrahis cum dicis nescio quem
Apollinem, inani quondam
priscorum cultu celebratissimum, sua petentibus oracula fuisse solitum carmine respondere, atque poetas inspirare multipliciaque variorum carminum modulamina decantare.
Ille namque verus Apollo,
clarissimus ille Phebus, ille, inquam nature conditor universe, qui Mosen
20 25 30 35 40 45 50 55 60 65
proposito della santissima religione di Dio immortale, del moto differenziato degli astri, della complessa natura delle cose, dell’illustrissima lode delle virtù, e di tutte le cose (per farla breve). Essi non sanno quanta differenza passi tra commedia e tragedia, quanto la satira disti dall’epigramma, quanto le poesie liriche differiscano dai versi epici, e, cosa più detestabile, ignorano persino le regole dei versi poetici, eppure non hanno timore di giudicare i poeti, e accade che, mentre essi stessi vogliono essere ritenuti espertissimi, si tradiscono da soli e dimostrano del tutto apertamente di non avere mai avuto pratica con la letteratura. Io infatti, dottissimo Pietro (e non so se forse ti sembrerà che dica questo senza ragione), non reputo che sia da annoverare tra gli uomini letterati chi ritiene che non si debbano assaggiare neppure, come si dice, a fior di labbra i primi rudimenti dell’arte poetica.
Infatti, se non sembrasse esserci un non so che di singolare eccezionalità nei versi, mai Dio Onnipotente avrebbe voluto che le santissime leggi, le quali, senza alcun dubbio, furono da lui emanate, fossero scritte in poesia (e per di più velatissima) piuttosto che in prosa.
Dunque, chiunque tu sia che disprezzi i poeti, o ignori del tutto che fossero poeti il divino Mosè, David, Salomone, Isaia, e gli altri sommi profeti di Dio, oppure, se per caso lo sai, ritieni di doverlo dissimulare. Comunque sia, tuttavia, nulla togli alle straordinarie lodi dei poeti, quando dici che un certo Apollo, un tempo celebratissimo dal vano culto degli antichi, era solito rispondere in versi a chi chiedeva i suoi vaticini, e ispirare i poeti, e cantare complesse armonie di diversi canti. Egli
infatti, quel vero Apollo,
quell’illustrissimo Febo, dico il creatore dell’universo, colui che solo istruì completamente il suo Mosè a proposito dell’ordine nel quale ha creato tutte le cose e colui che, benevolo, a lui stesso rivelò le santissime leggi che governassero il suo popolo; ebbene, Egli mostrò, con generosità davvero mirabile, anche la
137
suum quonam ordine cuncta crearit solus plane edocuit quique sanctissimas leges que populo suo moderarentur eidem benignus aperuit, idem ille profecto, admirabili quadam liberalitate, carmen quoque quo singula conscriberentur ostendit. «Sed non lascivit», inquis, «divinus ille Moses, nec prophete ceteri quicquam ridiculum videntur afferre».
Sed neque tragici profecto, ut de reliquis poetis interim taceam, si modo que vera sunt fateri non pudet, quoquo pacto lasciviunt, nec inanes nugas contexere gaudent. Est enim apud illos altiloquus520 atque
expolitus sermo, sententia gravis,
eaque creberrima, queque
religiosissimum quemque non mediocriter oblectare queat.
Quod ex Sophocle atque Euripide, quorum sentenciis exquisitissimis moralius nihil afferri potest, colligere facile licet.
Sed quid, per deos immortales, exactissimarum cultissimi Senece tragediarum lectione iocundissima (quandoquidem latinus alius non extat) aut salubrius aut utilius proferri posse credimus? Hunc profecto magnates si perlegerint eidemque fidem putarint habendam, nec oblatis facile extumescent honoribus, nec in quemquam
belluarum more seviendum
arbitrabuntur. Sic enim potentissimos quosque divinus ille poeta hortatur: «Vos, quibus rector maris atque terre Ius dedit magnum necis atque vite, Ponite inflatos tumidosque vultus: Quicquid a vobis minor extimescit Maior hoc vobis dominus minatur. Omne sub regno graviore regnum
70 75 80 85 90 95 100 105 110
formula attraverso cui scriverle una ad una. Ma tu dici: «Ma il divino Mosè non fu impudico, né gli altri profeti sembrano riferire qualche cosa di disdicevole». Ma certamente i tragici, tacendo per il momento degli altri poeti, purché non si provi vergogna a confessare le verità, non sono in alcun modo lascivi, e non si dilettano nel comporre vane sciocchezze. Infatti nei loro testi la lingua è sublime e raffinata, i pensieri sono profondi ed espressi frequentemente, e tali che possano dilettare non poco chiunque sia molto devoto.
È possibile dedurlo facilmente da Sofocle e Euripide: non si può addurre nulla di più morale delle loro ricercatissime sentenze. Ma cosa, per gli dèi immortali, crediamo possa essere menzionato di più salutare o utile della bellissima lettura delle perfette tragedie del dottissimo Seneca (dal momento che non è rimasto alcun altro tragico latino)? Di certo, se gli stessi potenti lo leggeranno attentamente e riterranno che bisogna prestargli fede, non si infiammeranno facilmente per gli onori conferiti loro, né stimeranno giusto accanirsi contro qualcuno al modo delle belve. Così il divino poeta esorta tutti i potenti:
«Voi, ai quali il re del mare e della terra concesse il sommo potere di vita e di morte,
abbandonate il contegno superbo e orgoglioso:
qualunque cosa teme da voi un sottoposto, la stessa cosa minaccia a voi un signore più potente.
Ogni potere è soggetto a un potere superiore».
Allora, buon Dio, che cosa di più santo di questa saluberrima ammonizione, che cosa di più austero, che cosa di più devoto può essere immaginato o detto?
520 Altiloquus è un aggettivo molto usato da Fernand, che non ha occorrenze nel latino classico. In età
medievale ha invece svariate ricorrenze: dalla banca dati Patrologia Latina risulta ad esempio in Beda,
Vita Metrica Sancti Cuthberti Episcopi, XXI, 30; Alano di Lilla, De planctu naturae, 311; idem, Anticlaudianus, III, 350; ivi, VII, 364. È presente altresì nelle Derivationes di Uguccione, cfr. edizione
138
est»521.
Et quid, bone Deus, admonitione hac saluberrima sanctius, quid severius, quid religiosius excogitari dicive potest?
Nemo (mea quidem sententia) tam poterit hebes inveniri qui non hec divinis esse oraculis quam simillima ingenue fateatur.
Que si altiori mente reponenda ducerent qui populis multis longe lateque imperitare gaudent, et minus profecto bellorum consurgeret et
seditionum minus passim
conflaretur.
Atque, ut liberrime quod sentio profitear, cogitanti mihi et sacratissimas canonicorum librorum hystorias, queque ex hiis monemur atque docemur memoria repetenti, denique hec ipsa cum divis nostri Senece carminibus conferenti, tantum fateor admirationis incuti solet, ut ea mihi meritis a nemine laudibus extolli posse videantur. Quid enim mansuetissimus ille David atque ab omni arrogantia longe remotissimus, paterni custos pecoris, ad regiaque praeter spem evectus fastigia, quid contra regali deiectus solio Saul, tandemque miserabiliter interemptus ostendit? Quid Iob quoque, et gravissimo rei familiaris damno et molestissimo afflictus morbo, tandemque et diviciis et pristine restitutus sanitati
demonstrat, nisi secundis
prosperisque rebus non nimium esse confidendum, rursumque, lapsis prorsusque afflictis, meliora minime desperari debere? Atque hoc ipsum gravissimus Seneca noster in eo carmine, cuius iam fecimus mentionem, hiis versibus admonet: «Nemo confidat nimium secundis. Nemo desperet meliora lapsis. Miscet hec illis prohibetque Cloto Stare fortunam. Rotat omne
115 120 125 130 135 140 145 150 155
Secondo me, non si potrà trovare nessuno tanto sciocco da non riconoscere francamente che questo testo sia quanto di più simile alle profezie divine.
Se coloro che si compiacciono di avere un vastissimo potere su molti popoli considerassero queste ammonizioni che devono essere riposte nel più profondo
dell’animo, di sicuro ovunque
insorgerebbero meno guerre e si desterebbero meno rivolte.
E, per confessare assai francamente ciò che penso, quando medito anche le santissime storie dei libri canonici, richiamo alla memoria gli ammonimenti e gli insegnamenti che ne ricaviamo, e infine le confronto con i versi divini del nostro Seneca, proclamo che egli suole incutere così tanta ammirazione, che queste cose non mi sembrano poter essere celebrate da alcuno con lodi adeguate.
Che cosa ci dimostra infatti quel David mansuetissimo e lontanissimo da ogni arroganza, custode del gregge del padre, innalzato ai fasti regi al di là di ogni speranza? Che cosa al contrario ci mostra Saul, rimosso dal trono di re, e infine miserabilmente annientato? Che cosa ci rivela anche Giobbe, afflitto sia dal danno irreparabile del patrimonio familiare che dalla terribile malattia, e infine ristabilito sia nelle ricchezze che nella salute di prima, se non che non bisogna fidarsi troppo delle circostanze fortunate e prospere e che, viceversa, nelle tristi avversità non si deve perdere la speranza in situazioni migliori? Il nostro autorevolissimo Seneca raccomanda la stessa cosa in quell’opera di cui già abbiamo fatto menzione:
«Nessuno confidi troppo nelle circostanze favorevoli.
Nessuno perda la speranza nelle circostanze avverse.
Cloto mescola le une alle altre
E impedisce che la sorte si mantenga inalterata. Ogni destino ruota».
Se qualcuno riterrà queste parole indegne
139
fatum»522.
Que verba si quis homine christiano putabit indigna, is nimirum impericie proprie evidentissimum praebebit argumentum. Neque enim ita de Fortuna prudentissimus Seneca scribit quasi per illam deam aliquam
cecam mundum[que]523,
praeclarissimum Dei immortalis opus, temere citraque rationem summam gubernari intelligat: quin potius hoc utitur verbo ut ea que divine sapiencie certissima sunt atque notissima eorundem mortalibus ignotam esse rationem ostendat, neque fato veluti immobili aliqua necessitate constringi Deum putat, sed esse stabilissimum quicquid eterna decreverit sapientia, esseque rerum omnium vicissitudinem, nec absurde quidem arbitratur524.
Quod autem neque Sansoni
fortissimo validissimas robusti corporis vires, nec rursum sapientissimo Salomoni incredibili donatum ingenio pectus praestitisse animadvertimus, ut ultima possent devitare fata, quid aliud, obsecro, monemur, nisi quod mortem ipsam, quocunque in loco simus, securi nihilque trepidantes expectandam esse arbitrari debeamus, dum ad hoc ipsum praeclarissima illa iam bis
160 165 170 175 180 185 190
di un uomo cristiano531, egli senza dubbio addurrà un evidentissimo argomento della propria ignoranza. Infatti il sapientissimo Seneca non scrive sulla Fortuna come se intendesse che l’universo, opera straordinaria di Dio immortale, fosse governato da quella dea cieca a caso e al di là di una logica suprema, anzi: egli fa uso di questa parola per mostrare che quelle cose che sono certissime e notissime della Divina Sapienza, di quelle la ragione è ignota ai mortali, e [Seneca] non ritiene che Dio sia costretto da qualche necessità come da un fato immutabile, ma tutto ciò che la Sapienza eterna ha decretato è stabilissimo, e che in esso consiste l’avvicendamento di tutte le cose, e certamente non lo pensa in modo arbitrario.
Quanto al fatto che sappiamo che al fortissimo Sansone Dio non concesse vigorosissime forze del corpo robusto, e ancora al sapientissimo Salomone una mente dotata di incredibile ingegno per poter evitare i destini finali, di cos’altro di grazia siamo ammoniti, se non che dobbiamo riconoscere che dobbiamo aspettare la morte sereni e per nulla impauriti in qualsiasi luogo ci troviamo, e quel passo della tragedia già due volte citata sembra adattarsi non poco a questo scopo, con quella famosissima frase che dice così:
522 Sen., Thy., 615-618. Questi versi sono peraltro citati da Giovanni Mario Filelfo nella sua Vita Dantis
Aligherii (cfr. l’ed. Vita Dantis Aligherii J. Mario Philelpho scripta nunc primum ex codice laurentiano in lucem edita et notis illustrata, Firenze, Tipografia Magheriana, 1828, p. 56). Filelfo cita Seneca tragico
in un brano in cui parla della capacità degli individui virtuosi di sopportare le avversità.
523 In questo punto, il testo non sembra acettabile. Tuttavia, volendo conservare il termine mundumque, si
potrebbe attribuire a -que valore enfatico, traducendo: «che da quella dea cieca è governato persino l’universo, straordinaria opera di Dio immortale». Si possono proporre congetture per tentare di sanare il passo, ad esempio sostituendo a mundumque immundamque, traducendo: «dea cieca e sordida». Diversi argomenti sono a favore dell’ipotesi della corruzione: la congiunzione enclitica -que riferisce l'aggettivo mundum al termine che precede («deam aliquam cecam»); inoltre, nell’incunabolo, due segni tipografici in forma di barrette oblique delimitano l’inciso «/deam aliquam cecam mundumque/», confermando l'idea che mundum si riferisca alla Fortuna. Mundum potrebbe quindi essere una forma corrotta per immundam, un termine che nel manoscritto di tipografia poteva essere letto erroneamente come mundum. Mentre munda non è aggettivo associabile alla Fortuna, immunda è un suo attributo già in Plaut., Cist., 114. Un’altra congettura che si potrebbe proporre, sebbene meno economica, sarebbe variamque, già attributo della Fortuna in Sen., Med., 287. Io ho optato infine per la conservazione del termine mundum e l’espunzione dell’enclitica -que, traducendo: «come se intendesse che l’universo, opera straordinaria di Dio immortale, fosse governato da quella dea cieca». Ringrazio la professoressa Donatella Coppini e il professor Francesco Citti per i pareri sull’interpretazione di questo passo.
140
allati carminis periodus non parum facere videtur, que in hunc modum se habet:
«Nemo tam divos habuit faventes. Crastinum ut posset sibi polliceri: Res deus nostras celeri citatas Turbine versat»525.
Neque deos hoc in loco, sed Deum potius, verum rerum omnium conditorem (ut illum religiosissime sensisse negare non possis), nominandum censuit. Porro divitias non esse magnopere appetendas, nec honores quoque, nec dignitates sollicita nimis ambitione querendas; communis omnium Salvator Christus maximo nobis est argumento, quem haec omnia et contempsisse penitus et veris christianis prorsus esse
contemnenda manifestissime
docuisse minime dubitamus.
Sed neque gravissimi Senece in eandem sentenciam cultissima nobis carmina desunt; inquit enim:
«Venit ad pigros cana senectus. Humilique loco, sed certa, sedet sordida parve fortuna domus: alte virtus animosa cadit»526.
Videbimur profecto non tam
epistolam quam orationem
conscribere voluisse, si quecumque apud tantam eloquentiam, tantaque fecunditate virum, sacris consentanea litteris invenimus, in medium putabimus afferenda.
Vellem equidem, doctissime Petre, ea nostris ludi magistris ingenia
195 200 205 210 215 220 225
«Nessuno ebbe mai gli dèi tanto favorevoli Da poter promettere a se stesso il domani: Dio sconvolge e turba le nostre cose Con un impetuoso turbine».
E [Seneca] non pensava agli dèi in questo passo, bensì ritenne che Dio dovesse essere designato come vero creatore di tutte le cose (in modo tale che non si possa negare che egli fosse animato da un sentimento religioso). A ciò si aggiunga che le ricchezze non devono essere intensamente desiderate, nemmeno gli onori, né le cariche debbono essere ricercate per troppa sollecita ambizione; Cristo comune Salvatore di tutti ne è la più grande argomentazione, il quale, non dubitiamo, ci ha dimostrato in maniera chiarissima di avere completamente disprezzato tutte queste cose e di aver insegnato che debbono essere disprezzate dai veri cristiani.
Ma allo stesso proposito non mancano
versi per noi coltissimi
dell’autorevolissimo Seneca; dice infatti: «La bianca vecchiaia giunge agli inattivi, e siede in una posizione umile, ma sicura, la sorte modesta di una piccola casa. Al contrario, la virtù coraggiosa precipita dall’alto».
Sembrerà dunque che io abbia voluto scrivere non tanto una lettera, quanto un’orazione, se riterremo di dover addurre tutto ciò che troviamo di adatto alle Sacre Scritture in tanto grande eloquenza e in un uomo dotato di abbondanza d’ingegno. Da parte mia vorrei, dottissimo Pietro, che i nostri maestri di scuola fossero d’ingegno
531 L’“uomo cristiano” di cui si parla dovrebbe essere il lettore delle tragedie; tuttavia, ci siamo posti il
dubbio che non fosse lo stesso Seneca: in quell’epoca era ancora diffusa (e lo sarà fino a Cinquecento inoltrato) la leggenda della sua amicizia con l’apostolo Paolo, avvalorata dall’esistenza di un loro carteggio (oggi ritenuto apocrifo), nonché dall’auctoritas di Girolamo: «[Senecam] non ponerem in Catalogo Sanctorum, nisi me illae Epistolae provocarent, quae leguntur a plurimis, Pauli ad Senecam aut Senecae ad Paulum» (Girolamo, De viris illustribus, XII). Tuttavia, Girolamo non allude mai a una possibile conversione di Seneca al cristianesimo (cfr. Monti 2007, p. 252). Inoltre, è da considerare che il Seneca creduto vicino al cristianesimo era il filosofo, che dagli umanisti del Quattrocento veniva generalmente distinto dal tragediografo. Ritengo dunque che in questo passo, con l’espressione “uomo cristiano”, Fernand si stia riferendo all’ipotetico lettore devoto che potrebbe trovare sconvenienti questi testi tragici.
525 Sen, Thy., 619-622. Interessante notare che questi versi sono citati anche da Cristoforo Landino nel
suo commento alla Divina Commedia di Dante: cfr. f. f1v dell’ed. del 1487 stampata a Brescia da Bonino de’ Bonini.
141
forent, quibus in interpretandis tam divini auctoris tragediis versari locupletissime possent, suis nimirum scholasticis longe magis quam nescio quorum insipidorum voluminum expositione barbarissima profuturi. At dicet fortasse tetricus ac severus quispiam: quid animo religioso
(quali optimum quemque
christianum praeditum esse decet) cum fedissimis Clitemnestre adulteriis, quid cum Agamemnone ab
impudicissima coniuge quam
miserrime trucidato, quid cum Thieste qui proprios imprudens depastus filios atque eorundem recenti potus sanguine perhibetur? Ista, procul dubio, religiosissimus quisque nescire quam pernosse malle debet; quippe, ob id ipsum, Lactancio – non infima auctoritate viro – tragicorum poemata displicere videntur527. Inquit enim:
«Tragice hystorie subiiciunt oculis parricidia et incesta regum malorum
et cothurnata scelera
demonstrant»528. Video, o severe
morum castigator, quid obiicias, at te profecto intelligere decet ea potissimum ratione adductum esse Lactancium, quod numerosa carmina audientium animis soluto sermone tenacius adherescere minime dubitaret. Preterea, qui suapte natura nihil ab iniquis facinoribus abhorrescunt, que scelestos redolent mores memoria quam diligentissime tenent; que autem ad virtutum hortantur studia ea ne minimam