Dall'inizio di questo lavoro sul campo, ho dovuto affrontare numerose difficoltà e ostacoli. Per cominciare, la compilazione di un numero significativo di questionari è stata un compito difficile. All'inizio dell'inchiesta, era prevista una collaborazione con alcuni omda locali al fine di potergli delegare la redazione dei questionari. Questa strategia si è però rilevata una scelta sbagliata. Gli omda sono i rappresentanti delle autorità nel quartiere, e durante il regime erano utilizzati dal governo per mantenere il controllo sulla popolazione a livello locale. Era dunque problematico per gli intervistati rispondere alle domande relative alla propria esperienza migratoria di fronte a queste persone, in quanto considerate come spie del governo. Ho dovuto dunque completare tutti i questionari in prima persona. Essendo una studentessa straniera, e quindi probabilmente poco legata al regime, gli abitanti di Ghardimaou nutrivano verso di me una maggiore fiducia. Inoltre, grazie ai contatti stabiliti con MdM, ero stata categorizzata come "medico", o comunque come qualcuno che era lì per aiutarli.
Altre difficoltà nella compilazione del questionario sorgevano in relazione ad alcune domande molto private, ad esempio il livello di stipendio o l'entrata e il soggiorno irregolare nel paese d'accoglienza. Spesso gli intervistati non volevano rispondere o mostravano imbarazzo. Tutto questo ha ribadito la necessità di colloqui e di osservazioni più approfondite per affrontare tutto ciò che non era stato detto durante la compilazione del questionario iniziale, ma che presuppone un certo livello di fiducia. È stato interessante per me imparare, durante le interviste, i codici del linguaggio non verbale, e comprendere quanto e come porre le domande più problematiche e che tipo di reazione avere. Anche l’utilizzo di un registratore è stato scartato. Dopo averlo sperimentato nelle prime interviste e aver notato una certa resistenza a parlare liberamente da parte dei migranti, ho deciso di limitarmi a prendere delle note su un quaderno, che completavo e rielaboravo in seguito all’intervista, cercando di ricavarmi dei momenti di tranquillità appena finita l’intervista.
Per quanto riguarda l'osservazione diretta, se questa mi ha permesso di superare i limiti delle mie interviste semi-‐direttive, essa è stata ostacolata dalla barriera linguistica, che mi ha impedito di sfruttare pienamente questo metodo. Benché io abbia seguito dei corsi di arabo tunisino, il mio livello non mi permetteva di andare oltre la fase dei semplici saluti e degli scambi di informazioni fondamentali, non riuscendo poi a realizzare delle vere e proprie conversazioni. Il fatto di ricorrere a
un interprete esterno o interno alla famiglia6 ha sottolineato, in effetti, la mia non
appartenenza al gruppo. Nonostante questo, il fatto di vivere in Tunisia e di essere immersa nella realtà di questo paese mi ha molto aiutato. Ad esempio, anche se la mia comprensione delle conversazioni era insufficiente, mi era comunque facile individuare nelle relazioni sociali molti elementi non verbali, e interpretare meglio la traduzione che mi veniva fatta.
In occasione dei colloqui semi-‐direttivi, che per la maggior parte si sono svolti in francese, il rapporto di forza che si crea naturalmente tra intervistatore e intervistato (S. Beaud, 1996) è stato facilmente indebolito da gesti di comprensione
6 Anche in assenza dei migranti, la conoscenza del francese è comune anche tra le famiglie più
e da parole d'incoraggiamento. Questa tecnica è stata anche utile per andare oltre i discorsi di facciata causati dalla necessità, per l'intervistato, di farsi accettare o di giustificare un comportamento considerato come illegale. In particolare, quando si comincia a parlare di migrazione “clandestina”, bisogna fare attenzione a quella che Tripier chiama "l'arte di presentarsi agli altri" (P. Tripier, 1998, p. 25): l'obiettivo è di provocare reazioni favorevoli nell'altra persona utilizzando argomentazioni seducenti, spesso per legittimare comportamenti controversi. In effetti, questo tipo di discorso "ufficiale" è stato abbandonato dall'intervistato quando, alla fine del colloquio, io cessavo di essere “l'intervistatrice” e partecipavo personalmente alla conversazione. Mi mettevo allora in una posizione adatta ad uno scambio caratterizzato da una maggiore fiducia e confidenza.
Impegnarmi in relazioni di amicizia con alcuni intervistati, mi ha anche permesso di partecipare alla vita quotidiana della popolazione dello studio e di osservarne le dinamiche sociali.
All'inizio, gli ostacoli principali al mio lavoro sono stati il fatto di essere una donna e le mie origini. Queste due caratteristiche hanno fatto spesso pensare ai miei interlocutori che io potessi essere loro d'aiuto: un'aspettativa comprensibile se si considera che gli Europei presenti in Tunisia, se non sono imprenditori o turisti, offrono servizi umanitari. È stato quindi difficile spiegare e far capire il mio ruolo di ricercatrice alle prime armi. Il secondo rischio era di essere considerata come un mezzo, tramite il matrimonio en blanc, per ottenere un accesso privilegiato all'Europa. Se queste difficoltà hanno inizialmente falsato la mia relazione con gli interlocutori, impedendomi di raccogliere testimonianze non influenzate da interessi secondari, mi hanno anche spinto a trovare un approccio diverso che, oltre ad aggirare gli ostacoli, mi hanno molto avvicinato alla realtà quotidiana della popolazione studiata. Ad esempio, il fatto di presentarmi come sposata, ha permesso di modificare il modo in cui ero guardata. Se una giovane donna celibe che viaggia da sola, lontano dalla sua famiglia, avrebbe provocato perplessità, il fatto di essere sposata mi assicurava un giudizio più positivo. Inoltre, ho avuto l'occasione di instaurare relazioni più confidenziali con alcune persone, in particolar modo con
alcune donne, cosa che mi ha permesso di condividere informazioni personali. Questa condivisione ha facilitato il processo di avvicinamento e di conquista della fiducia. La relazione non si basava più sull'attesa di un aiuto, ma piuttosto su un sentimento di aiuto reciproco: gli intervistati contribuivano al mio lavoro e al mio percorso accademico, e in cambio io trasmettevo messaggi e piccoli regali ai loro parenti in Francia. Se il mio status continuava in parte a influenzare il loro comportamento, la mia presenza costante e la fiducia conquistata mi hanno permesso di giudicare meglio l'autenticità delle testimonianze e delle azioni dei miei interlocutori.