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I limiti alla ripetibilità delle spese giudiziali ex artt 91, comma 4°, c.p.c e

Stando al disposto degli artt. 91, comma 4°, c.p.c. e 152, seconda parte, disp. att. c.p.c., nelle cause – rispettivamente – dinanzi al giudice di pace il cui valore non eccede i 1.100 euro (e nei quali la parte può stare in giudizio personalmente) e in quelle per prestazioni previdenziali le spese, competenze e onorari liquidati dal giudice non possono superare – rispettivamente – il valore della domanda o della prestazione dedotta in giudizio.

Siffatte limitazioni alla ripetibilità delle spese processuali sarebbero giustificate dalla duplice necessità di deflazionare il contenzioso con riguardo al flusso delle cause cc.dd. «bagatellari» – più delle altre esposte all'esercizio abusivo del diritto di azione – e di tutelare le parti soccombenti dal rischio di subire, in tal genere di cause, un aggravio di spese legali di importo superiore al valore della controversia.

Taluni giudici di merito hanno tuttavia dubitato che l’art. 91, comma 4°, c.p.c. contrastasse con l’art. 24 Cost. per l'ostacolo che deriverebbe al diritto alla tutela giurisdizionale nelle cause in cui la parte, pur non avendone l'obbligo, scelga di farsi difendere da un avvocato e il valore della domanda, per la sua esiguità – nei giudizi a quibus, rispettivamente, di euro 29,31, euro 153,96 ed euro 88,00 –, finisca paradossalmente con il comportare una sostanziale soccombenza della parte vittoriosa che, per effetto del limite imposto dalla disposizione censurata, si troverebbe tenuta a corrispondere (in proprio) al suo

difensore il residuo importo delle spese legali in misura sicuramente maggiore del valore del diritto sostanziale giudizialmente accertato (462).

La Corte – dal canto suo –, pur ammettendo che «l'assistenza del difensore costituisce il normale presidio per l'esercizio effettivo del diritto di difesa garantito dall'art. 24 Cost.» (corsivi aggiunti), asserisce che «la tutela di tale diritto non esclude che (…) nel quadro dell'ampia discrezionalità di cui gode il legislatore nel dettare norme processuali» possa optarsi per la non obbligatorietà dell'assistenza tecnica «in relazione alla tenuità del valore della lite o alla natura della controversia» e per la deroga al regime di ripetibilità delle spese di lite in presenza di elementi giustificatori, «non essendo (…) indefettibilmente coessenziale alla tutela giurisdizionale la ripetizione di dette spese» (463).

Giustificherebbero, secondo la Consulta, tale opzione: a) il fatto che le cause cui si riferisce il limite alla ripetibilità sono esclusivamente quelle devolute alla giurisdizione equitativa del giudice di pace; b) la circostanza per cui la difficoltà cui potrebbe andare incontro la parte nel reperire – ove intenda avvalersene – un difensore che adegui l'importo del proprio onorario a quello del valore della lite si risolve – comunque – in un inconveniente di fatto, come tale non direttamente riferibile alla previsione della norma censurata ma ricollegabile – invece – a circostanze contingenti attinenti alla sua concreta applicazione e perciò non involgenti un problema di costituzionalità; c) il fatto che il margine di compromissione del principio di effettività della tutela giurisdizionale – che si vuole correlato a un effetto dissuasivo del ricorso alla difesa tecnica nelle controversie in discorso, cui darebbe luogo la normativa denunciata – riflette una legittima opzione del legislatore, nel quadro del bilanciamento del diritto di difesa ex art. 24 Cost. con l’esigenza di garantire – ex art. 111 Cost. – la ragionevole durata delle liti, la quale «trova innegabile ostacolo nella mole

(462) V. G.d.p. Pisa 22 giugno 2012; Trib. Padova, sez. dist. di Este, 28 febbraio 2013; G.d.p. Mercato San Severino 25 marzo 2013, tutte in www.gazzettaufficiale.it.

abnorme del contenzioso e che può trovare rimedio nella contrazione di quello bagatellare» (464).

In effetti, nonostante possa in astratto concepirsi l’eventualità che la lite presenti profili di complessità tali da rendere l’assistenza del difensore di fatto indispensabile – con costi che potrebbero superare il limite di ripetibilità e rimanere dunque a carico della parte vittoriosa –, il fatto che il limite di valore entro cui è ammessa la difesa personale e limitata la ripetibilità delle spese legali è lo stesso entro cui il giudice di pace decide la causa secondo equità rende una siffatta eventualità nella pratica piuttosto marginale, residuando perplessità solo per i casi in cui la decisione deve comunque aver luogo secondo diritto – ovverosia essenzialmente nei contratti conclusi mediante moduli o formulari ex art. 1342 c.c.

Lo stesso non può dirsi nel caso del contenzioso previdenziale, nel quale alla parte non è invece garantita la possibilità di accedere alla giustizia senza l’obbligo di ricorrere a una difesa tecnica con costi sopra una certa soglia irripetibili: in siffatto contenzioso – cui si applica l’art. 152 disp. att. c.p.c. – il limite di valore della causa, oltre il quale la difesa tecnica è obbligatoria, è di euro 129,11 (artt. 417 e 442 c.p.c.).

Come si evince dalle motivazioni della sentenza 4 giugno 2014, n. 157, cit., l’arresto della proliferazione di liti cc.dd. «bagatellari» non può infatti di per sé solo giustificare l’attuazione dell’irripetibilità a danno di chi tutela un diritto fondamentale.

PARTE II

CAPITOLO I

LE SPESE GIUDIZIALI CIVILI DAL PROCESSO ROMANO ALLA

LEGISLAZIONE MODERNA

INTRODUZIONE

Per comprendere appieno l’attuale assetto sistematico della disciplina delle «spese» processuali civili occorre far cenno, pur in guisa estremamente sintetica e necessariamente lacunosa, all’evoluzione storica di siffatta disciplina – che, attesa la vastità dell’indagine e la complessità delle questioni trattate, non può in questa sede dettagliatamente illustrarsi.

Prendendo le mosse dall’ancora attuale e fondamentale lavoro del Chiovenda sul tema (465) cercheremo di tratteggiare, per grandi linee, tale evoluzione storica: dal diritto romano alla legislazione moderna, passando per il diritto intermedio.

CAPO I – DIRITTO ROMANO

1. Dal principio dell’esperienza giuridica romana ad Ulpiano

Al principio dell’esperienza giuridica romana – id est: al tempo delle legis

actiones e agli albori del processo formulare – la questione delle spese di lite

nemmeno si pose: le forme primitive e l’ambito spazio-temporale assai ristretto dell’amministrazione della giustizia, l’assenza di burocrazia, la relativa semplicità delle questioni di diritto affrontate (la soluzione delle quali era strettamente vincolata al rigoroso formalismo), l’obbligo di comparizione personale e il conseguente divieto di rappresentanza in giudizio, l’oralità del processo e della sentenza escludevano, di fatto, la sussistenza di vere e proprie spese processuali, né occasionavano alcuna tassa.

In questa prima fase l’opera del legale era limitata all’assistenza in giudizio ed era prestata gratuitamente (466). Una legge Cincia de donis et muneribus (467), datata 204 a.C., proibiva, appunto, agli oratori di ricevere compensi. Questo divieto fu confermato da Augusto, che introdusse delle pene in caso di violazione della legge (468).

Col passare del tempo, però, il diritto e la procedura divennero più complessi e si rese necessaria anche la rappresentanza in causa, giacché sempre più spesso la parte trovavasi fuori Roma per ragioni di commercio. Il legale diventò così un vero e proprio mandatario e il suo ufficio cessò d’essere onorifico. Gli onorari d’avvocato furono, entro certi limiti, ufficialmente riconosciuti da Claudio (intorno alla metà del primo secolo dell’era volgare) (469), mentre Nerone obbligò le parti al pagamento dell’avvocato e a questi concesse, a tutela del suo diritto, una extraordinaria cognitio (470). Sino ai tempi di Ulpiano, tuttavia, le spese processuali furono irripetibili: l’istituto della condanna nelle spese è, infatti, posteriore a Gaio.

Considerazioni analoghe a quelle testé formulate per la figura dell’«avvocato» possono poi farsi con riguardo ai compensi di ufficiali giudiziari, ausiliari dei giudici e giudici medesimi.

Sino ai tempi di Ulpiano, comunque, il soccombente, nonostante la sua sconfitta non comportasse condanna in expensis, pativa una serie di conseguenze sul piano patrimoniale: a) nel periodo delle legis actiones, egli perdeva il sacramentum ed era perciò tenuto a pagare a titolo di pena la summa

sacramenti ai sacerdoti o all’erario; b) nel periodo formulare, sponsio e restipulatio, quali garanzie reciproche dell’attore e del convenuto – come pure

alcune altre pene, quali l’actio dupli adversus infitiantes, l’actio pluris quam

simpli e il contrarium iudicium –, assicuravano il pagamento da parte del

soccombente di una determinata somma che, analogamente alla summa

sacramenti, andava corrisposta a cagione della mera soccombenza ma che,

(466) F. Buonamici, La storia della procedura civile romana, Pisa 1886, 610. (467) Cicerone, De Oratore, II, 71; Cicerone, Epistulae ad Atticum, I, 20. (468) Cassio Dione, Storia romana, LIV, 18.

(469) Tacito, Annales, XIII, 42.

diversamente da quella, era pagata al vincitore. Vi erano, poi, il iudicium

calumniae (pena irrogata all’attore temerario) e il iusiurandum calumniae (che

era, piuttosto, un rimedio preventivo diretto ad escludere l’azione o l’eccezione di chi non vi si prestava). Tali pene processuali avevano un duplice scopo: punire la soccombenza e risarcire il danno derivato dal processo al vincitore. Col passare del tempo, a cagione del mutato «spirito giuridico» (471), esse, tuttavia, perdettero la connotazione punitiva, e parvero inadeguate al soddisfacimento delle istanze risarcitorie; perciò furono gradualmente rimpiazzate dalla condanna

in expensis. Giova però, sin d’ora, sottolineare che la condanna in discorso non

aveva i medesimi caratteri di quella operante nell’ultimo periodo del diritto romano: diversamente da quella, infatti, colpiva il solo improbus litigator; pare sarebbe dovuta essere, inoltre, pronunciata fuori del giudizio di merito (472).