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Segue: l’art 152, prima parte, disp att c.p.c

A confortare una siffatta asserzione potrebbe anche giovare il raffronto della disciplina sul patrocinio col disposto dell’art. 152, prima parte, disp. att. c.p.c., che nella sua attuale versione recita: «Nei giudizi promossi per ottenere prestazioni previdenziali o assistenziali la parte soccombente, salvo comunque quanto previsto dall’articolo 96, primo comma, del codice di procedura civile, non può essere condannata al pagamento delle spese, competenze ed onorari quando risulti titolare, nell’anno precedente a quello della pronuncia, di un reddito imponibile ai fini IRPEF, risultante dall’ultima dichiarazione, pari o inferiore a due volte l’importo del reddito stabilito ai sensi degli articoli 76, commi da 1 a 3, e 77 del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia di cui al decreto del Presidente della repubblica 30 maggio 2002, n. 115».

Saremmo qui di fronte, peraltro, ad una ipotesi di irripetibilità, pur condizionata, delle spese dalla parte soccombente.

La disposizione in commento è stata, negli anni, più volte modificata dal legislatore (441); nelle versioni via via alternatesi, è stata altresì oggetto di

(440) Mentre, invece, appare sin troppo ovvio che lo Stato non può sollevare la parte dalla responsabilità derivante da condotte illecite.

(441) Nella sua versione originaria, in essa non ci si occupava nemmeno di spese, competenze e onorari nei giudizi per prestazioni previdenziali ma di riassunzione del processo; si statuiva, infatti, che «la riassunzione della causa davanti al giudice, per la pronuncia della decadenza e la prosecuzione del giudizio nel caso previsto nell'articolo 457 del codice, è fatta con ricorso al giudice istruttore. Il giudice fissa con decreto un'udienza per la comparizione delle parti, e quindi provvede al compimento dell'istruzione».

L’esenzione poi preveduta nell’art. 152 era stata introdotta dall’art. 57 l. 30 aprile 1969, n. 153 – con il quale si era aggiunto un comma all'art. 128 r.d.l. 4 ottobre 1935, n. 1827, convertito in l. 6 aprile 1936, n. 1155 (c.d. legge istitutiva dell’Inps) – che, limitatamente alle controversie promosse dal lavoratore avverso l’Inps, così recitava: «Il lavoratore soccombente nei giudizi

diverse questioni di legittimità costituzionale poiché ritenuta in potenziale contrasto, tra gli altri, con gli artt. 3 e 24 Cost.

In principio fu il pretore di Avezzano (442) a sollevare, in relazione all'art. 24, commi 1° e 3°, Cost., questione di legittimità costituzionale dell'art. 152 – come modificato dalla l. 11 agosto 1973, n. 533 (443) –, limitatamente alla parte in cui non prevedeva che l'assicurato abbiente potesse essere condannato al pagamento delle spese processuali, in caso di soccombenza, anche quando la sua pretesa non fosse riconosciuta manifestamente infondata e temeraria. Egli sostenne, infatti, che la disposizione in commento, sancendo un indiscriminato esonero dal pagamento delle spese in favore di tutti gli assicurati (senza alcun riguardo alle loro condizioni economiche), si ponesse in contrasto con l’art. 24, comma 3°, Cost., il quale garantisce solo ai non abbienti i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione. Tale paventata illegittimità assumeva – a detta del rimettente – una ancor più marcata evidenza in relazione all'esercizio del diritto di difesa da parte dell'ente previdenziale: venendo (invero) a mancare, nella instaurazione dei giudizi, ogni freno per i lavoratori, implicitamente esonerati per disposizione di legge dal benché minimo apprezzamento delle proprie azioni, gli Istituti stessi avrebbero potuto formare oggetto di continui e

promossi per ottenere prestazioni previdenziali non è assoggettato al pagamento di spese, competenze ed onorari a favore degli istituti di assistenza e previdenza, a meno che il giudizio intentato verso gli stessi non sia manifestatamente infondato e temerario».

La disposizione in parola fu dichiarata costituzionalmente illegittima (per contrasto con l’art. 3 Cost.) dalla Corte – con sentenza 1 marzo 1973, n. 23 (in www.giurcost.org) – nella parte in cui escludeva dal beneficio in esso previsto le controversie del lavoratore nei confronti dell'Inail, giacché «la disparità di trattamento, quanto all'esonero dal pagamento delle spese di lite, tra assicurato presso l'INPS e istituti che gestiscono forme obbligatorie di previdenza e assistenza sostitutive ed assicurati dell'INAIL non (era) sorretta da alcuna giustificazione apprezzabile sotto l'aspetto della ragionevolezza».

L’art. 57 è stato poi abrogato per mezzo dell'art. 4 d.l. 19 settembre 1992, n. 384.

(442) Con ordinanza emessa il 23 marzo 1978 e pubblicata in Gazz. uff. n. 285 dell'11 ottobre 1978.

(443) Mercé il cui art. 9 si è statuito che «il lavoratore soccombente nei giudizi promossi per ottenere prestazioni previdenziali non è assoggettato al pagamento di spese, competenze ed onorari a favore degli istituti di assistenza e previdenza, a meno che la pretesa non sia manifestamente infondata e temeraria».

generalizzati attacchi "processuali"; con l'inevitabile conseguenza, per questi ultimi, di non poter approntare una efficace difesa di fronte alla miriade di ricorsi.

La Corte (444), dal canto suo, nell’asserire l’infondatezza della questione, affermò che nell'ordinanza, per sostenere il contrasto della norma in commento con l'art. 24, comma 3°, Cost., si considerava il beneficio accordato al lavoratore quale forma, pur atipica, di patrocinio gratuito, garantito dalla menzionata norma costituzionale solo ai non abbienti.

Per la Consulta, tuttavia, l’assunto non poteva essere condiviso, dacché il patrocinio a spese dello Stato, diretto a consentire a tutti la facoltà di agire e difendersi in giudizio, differiva nettamente dal beneficio in parola, il quale prescindeva dalle condizioni economiche del soggetto interessato: presupposta la rilevanza sociale della materia previdenziale e assistenziale, mercé il suddetto beneficio, infatti, prevedendosi la compensazione delle spese del giudizio in caso di soccombenza del lavoratore, lo si è voluto porre al riparo dal rischio processuale, al fine di consentirgli di far valere le sue pretese non temerarie nei confronti degli istituti di previdenza e assistenza (445).

Il rischio processuale di cui discorre la Corte, crediamo, è dato dalla circostanza che, come essa stessa afferma, «il costo del processo può essere

gravoso anche per chi non sia povero nei limiti richiesti per ottenere il patrocinio a spese dello Stato e può costituire, anche in tal caso, una remora a far valere le proprie (…) ragioni. A tale inconveniente ha voluto porre rimedio la norma

denunziata, prescindendo dalle condizioni economiche del lavoratore

(444) Con sentenza 4 luglio 1979, n. 60, in www.giurcost.org.

(445) Considerazioni, queste ultime, richiamate poi dalla stessa Corte – nella sentenza 26 luglio 1979, n. 85 (in www.giurcost.org) – per rigettare il rilievo che per i destinatari di assistenza pubblica – sino a quel momento esclusi dal beneficio di cui all’art. 152 disp. att. c.p.c. – fosse sufficiente la possibilità di ricorrere al patrocinio a spese dello Stato e (conseguentemente, preliminarmente verificate l’omogeneità, nei giudizi promossi per ottenere prestazioni previdenziali, tra la situazione degli assistiti e quella dei lavoratori e l’irrazionalità del diverso trattamento ad esse riservato dall’ordinamento) per dichiarare l’illegittimità costituzionale (in relazione all’art. 3, comma 1°, Cost.) dell'art. 152 disp. att. c.p.c. – nel testo sostituito dall'art. 9 l. 11 agosto 1973, n. 533 – nella parte in cui non includeva, tra coloro che potessero beneficiare del particolare trattamento riguardante le spese giudiziali, i destinatari di assistenza pubblica.

interessato, al fine di neutralizzare la sua notoria minore resistenza di fronte al rischio processuale» (corsivi aggiunti).

Quanto all’altro dubbio di costituzionalità sottoposto alla Consulta – ovverosia che la norma di favore potesse determinare un notevole incremento del contenzioso in materia previdenziale e gli istituti di assistenza e previdenza potessero trovarsi in difficoltà per affrontare difese efficaci, da ciò derivandone (per essi) un reale affievolimento della tutela giurisdizionale dei diritti –, essa lo ritenne del pari infondato, ritenendo di dover confermare l’orientamento già espresso nella sentenza 1 marzo 1973, n. 23 (446), a mente del quale «la mancata ripetibilità delle spese di lite, pur in caso di vittoria, certamente non rappresenta, nei confronti dell'istituto assicuratore (attesa la sua peculiare struttura e connotazione, anche sotto il profilo finanziario), una remora alla difesa avverso pretese di prestazione del lavoratore che si ritengano infondate e, quindi, una violazione del diritto dell'istituto medesimo alla tutela giurisdizionale».

Nella sentenza 16 aprile 1987, n. 135 (447) la Corte – nel dichiarare infondate e inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 152 disp. att. c.p.c. (nel testo sostituito dall'art. 9 l. 11 agosto 1973, n. 533) sollevate da diversi remittenti (448) in rapporto agli artt. 3, 23, 24 e 53 Cost. –, ribadita la

ratio della disposizione in commento (ovverosia «evitare che il lavoratore possa

essere distolto dalla necessità di far valere in giudizio le sue pretese previdenziali o assistenziali per il rischio di subire le conseguenze economiche della soccombenza»), affermò tuttavia che, in relazione alla diversità tra l’istituto del patrocinio (per la cui fruizione è previsto un limite reddituale) e l’esonero ex art. 152 (che trovava applicazione senza alcun limite reddituale), «non sembra (…) possano ancora valere tutte le ragioni che hanno determinato l'attuale disciplina normativa (e) che non si possa continuare a non tenere conto delle condizioni economiche del lavoratore e in specie della sua possibile condizione di "abbiente"». Posto che «la determinazione concreta delle condizioni e degli

(446) Cit. supra, in nota 441. (447) In www.giurcost.org.

estremi della situazione di "abbiente", per i fini che interessano specificamente la materia, importa scelte affidate alla discrezione del legislatore e che questa Corte non può compiere», essa formulò quindi il seguente auspicio: «Proprio le possibili elevate condizioni economiche dei "lavoratori" (il termine è comprensivo di varie categorie anche molto differenziate tra loro), che hanno a volte raggiunto retribuzioni di entità notevole e pensioni anche elevate, fondano l'opportunità di una revisione della norma censurata e una sua più restrittiva previsione».

Anche in questo caso, come in altri occasioni (449), perché la Corte sia passata dall’affermare che «il costo del processo può essere gravoso anche per chi non sia povero nei limiti richiesti per ottenere il patrocinio a spese dello Stato e può costituire, anche in tal caso, una remora a far valere le proprie (…) ragioni» all’affermare che «non sembra (…) possano ancora valere tutte le ragioni che hanno determinato l'attuale disciplina normativa» non è dato saperlo. Essa, infatti, nella sentenza in commento, nulla argomenta circa le ragioni logico- giuridiche che l’avrebbero portata – se non si prende abbaglio – a smentire sé stessa. Un conto è infatti dire – come ha detto la Corte e come, crediamo, chiunque sottoscriverebbe, trattandosi di affermazione alquanto intuitiva – che il «lavoratore» (il termine è comprensivo di varie categorie anche molto differenziate tra loro) «ricco» avrebbe sicuramente meno remore a far valere le proprie ragioni in giudizio sapendo di dover fronteggiare, in caso di soccombenza, una condanna in expensis. Un altro conto è non considerare che, in ipotesi, un «lavoratore» che al momento della domanda versi in una condizione reddituale tale da consentirgli di accedere al beneficio in commento potrebbe essere condizionato dalla prospettiva di subire la condanna alle spese qualora il suo reddito superi la soglia prevista dall’art. 152 nell’anno precedente la condanna medesima (450) per poi ritornare sotto soglia, ad es., nell’anno in

(449) V. retro, par. 1 di questo capitolo.

(450) A mente dell’art. 152, secondo periodo, disp. att. c.p.c., infatti, «l'interessato che, con riferimento all'anno precedente a quello di instaurazione del giudizio, si trova nelle condizioni indicate nel presente articolo formula apposita dichiarazione sostitutiva di certificazione nelle conclusioni dell'atto introduttivo e si impegna a comunicare, fino a che il

cui la condanna è pronunciata; e il tutto, magari, per qualche centinaio di euro di differenza! Senza, peraltro, potersi tacere il dato storico dei limiti di reddito che il legislatore ha nel tempo fissato per poter accedere al patrocinio (451) e, dal 2003 (452), al beneficio ex art. 152: limiti di reddito – oggi pari, rispettivamente, a 960,70 e 1921,40 euro lordi mensili (453) – sulla scorta dei quali proprio non si comprende come possano smentirsi le affermazioni della Corte secondo cui «il costo del processo può essere gravoso (…) e può costituire (…) una remora a far valere le proprie (…) ragioni» anche per chi abbia un reddito superiore a quelli testé menzionati. Tanto più che – come visto (454) – dal 2009 per i giudizi di Cassazione e dal 2011 per tutti gli altri (455) anche le controversie individuali di lavoro o concernenti rapporti di pubblico impiego nonché quelle di previdenza e assistenza obbligatorie, in passato oggetto di esenzioni più o meno ampie (456), sono ora soggette – sia pure alle condizioni e nei termini stabiliti dagli artt. 9, comma 1°-bis e 13, commi 1°, 1°-bis e 3°, d.p.r. 30 maggio 2002, n. 115 – al contributo unificato di iscrizione a ruolo.

Tuttavia, come si suole dire, al peggio non vi è mai fine. Il legislatore, difatti, «forte» di questo auspicio della Consulta, anziché modulare la concessione dell’esonero in ragione delle condizioni economiche dei beneficiari,

processo non sia definito, le variazioni rilevanti dei limiti di reddito verificatesi nell'anno precedente».

(451) Il limite è attualmente dato dal reddito imponibile ai fini dell'imposta personale sul reddito, risultante dall'ultima dichiarazione, non superiore a euro 11.528,41 (art. 76, comma 1°, d.p.r. 30 maggio 2002, n. 115. V. supra, par. 2.2, sub lett. b).

(452) Per mezzo dell’art. 42, comma 11°, d.l. 30 settembre 2003, n. 269 (convertito con modificazioni in l. 24 novembre 2003, n. 326) si è infatti disposta la modifica dell’art. 152 limitando l’ammissione al beneficio ai soli soggetti «titolar(i), nell'anno precedente a quello della pronuncia, di un reddito imponibile ai fini IRPEF, risultante dall'ultima dichiarazione, pari o inferiore a due volte l'importo del reddito stabilito ai sensi degli articoli 76, commi da 1 a 3, e 77 del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia di cui al decreto del Presidente della repubblica 30 maggio 2002, n. 115».

(453) V. retro, note precedenti. (454) Supra, cap. II, par. 4.1. (455) V. supra, cap. II, par. 4.1. (456) V. supra, cap. II, par. 4.1.

tagliò la testa al toro e nel 1992 (457) abrogò gli artt. 57 l. 30 aprile 1969, n. 153 e 152 disp. att. c.p.c.

Che l’avesse fatta grossa lo si intuì piuttosto rapidamente; il 15 luglio 1993, infatti, il Pretore di Parma (458) sollevò dinanzi alla Corte questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 2°, d.l. 19 settembre 1992, n. 384 (convertito in l. 14 novembre 1992, n. 438), deducendone il contrasto con gli artt. 3, 24 e 38 Cost. e contestando, per quanto qui interessa, l’abrogazione «generalizzata e indiscriminata» delle precedenti disposizioni esonerative, pretermettendo irrazionalmente qualunque distinzione fra abbienti e non abbienti.

La Consulta (459) – che nella «storia costituzionale» di questo istituto non si era mai (comprensibilmente) spinta sino a tal punto –, rimproverando al legislatore di aver disatteso le «precise indicazioni sui limiti di una possibile revisione riduttiva della disciplina dell'esonero» e soprattutto obliterato «la valenza, più volte ribadita, di quel meccanismo ai fini dell'eliminazione del rischio processuale per la generalità degli assicurati cui non sia riferibile una ipotetica condizione di abbienza», ritenne naturalmente una siffatta abrogazione «in insanabile contrasto – nella sua interezza – con i precetti costituzionali evocati: risultandone, per l'effetto, indiscriminatamente (e irragionevolmente, quindi) ripristinata la situazione di disparità sostanziale nel processo (rispetto all'istituto assicuratore) cui avevano posto rimedio le disposizioni abrogate (art. 3); limitata di fatto la possibilità di agire a tutela dei propri diritti (art. 24); non tutelata a sufficienza la condizione di inabile al lavoro (art. 38 Cost.)». Per tali – intuitive e, aggiungeremmo, ovvie! – ragioni, l’art. 4, comma 2°, d.l. 19 settembre 1992, n. 384 fu dichiarato illegittimo.

Il legislatore, allora, memore della lezione impartitagli dalla Corte, nel 2003 modificò l’art. 152 nel senso di limitare l’esonero dal pagamento di spese, competenze ed onorari alla parte soccombente nei giudizi promossi per ottenere

(457) Mercé l’art. 4, comma 2°, d.l. 19 settembre 1992, n. 384, convertito in l. 14 novembre 1992, n. 438.

(458) Con la relativa ordinanza, pubblicata in Gazz. Uff. 1993, n. 46, 1a serie speciale. (459) Con sentenza 13 aprile 1994, n. 134, in www.giurcost.org. Al riguardo v., in dottrina, G. Ferraù, Esonero dal pagamento delle spese processuali del lavoratore soccombente, in Lav. nella giur. 1994, 885 ss.

prestazioni previdenziali o assistenziali risultata «titolare, nell'anno precedente a quello della pronuncia, di un reddito imponibile ai fini IRPEF, risultante dall'ultima dichiarazione, pari o inferiore a due volte l'importo del reddito stabilito ai sensi degli articoli 76, commi da 1 a 3, e 77 del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia di cui al decreto del Presidente della repubblica 30 maggio 2002, n. 115».

E così si è pervenuti all’attuale formulazione della norma in commento, la cui storia riteniamo fondamentale per cogliere lo spirito dei tempi che ha condotto il legislatore a introdurre limiti di reddito anche per l’accesso al beneficio ivi previsto, sì smentendo la più volte citata affermazione della Corte circa la remora cagionata dal gravoso costo del giudizio (anche) al lavoratore «abbiente» – per la verità, come visto, da essa stessa parzialmente ritrattata – e conseguentemente suffragando, pur implicitamente, la tesi che ritiene tale beneficio una forma atipica di patrocinio – tesi, invece, come pure visto, contestata dalla Corte proprio sulla scorta dell’assenza di limiti reddituali al suo accesso. Ci viene allora in mente quanto precedentemente asserito, richiamando le intuizioni degli inizi del secolo scorso di Giovanni Vignali e l’analisi economica del processo, in relazione a quell’istituto: per le classi medie, infatti, l’impossibilità del ricorso all’istituto del patrocinio e la mera aspettativa di un ricupero in conseguenza dell’avversaria soccombenza concorrono ad ostacolare il ricorso alla giustizia civile (460); tale intuizione è oggi suffragata dall’analisi economica del processo, la quale ha dimostrato che «le spese giudiziali fanno diminuire il valore atteso per l’attore, riducendo l’incentivo all’avvio dell’azione (…), e fanno diminuire il valore del giudizio (ovvero ne aumentano i costi) (…)» (461).

Aldilà, dunque, delle perplessità già affacciate con riguardo alla parziale ritrattazione della Corte e all’ultima novella legislativa (figlia, riteniamo, di quella parziale ritrattazione) vi è da dire che per effetto del combinato disposto della norma in commento e delle disposizioni in tema di patrocinio (per come interpretate da dottrina e giurisprudenza) vi sono, nel nostro ordinamento, casi

(460) V. G. Vignali, op. loc. cit.

nei quali la parte soccombente non abbiente è esonerata dal pagamento delle spese sostenute dalla controparte vittoriosa e casi nei quali, invece, non lo è.

Quanto questa disparità di trattamento possa essere foriera di dubbi di legittimità costituzionale in punto di compatibilità col combinato disposto degli artt. 3 e 24 Cost. è, dunque, di pronta intuizione.

5. I limiti alla ripetibilità delle spese giudiziali ex artt. 91, comma 4°,