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Analisi degli script originali e localizzati dei principali titoli della saga di Tomb Raider

Capitolo 4: Il videogioco come sistema culturale e il ruolo del traduttore

4.1 Videogiochi e cultura

4.1.2 Localizzazione o censura?

L’esempio più immediato per concepire il “salto” di un videogioco da una cultura a un'altra è quello della localizzazione di videogiochi dal giapponese. Se è vero che i videogiochi sono nati negli Stati Uniti, non è un caso che la cosiddetta golden age of videogames3 venga solitamente fatta iniziare con la pubblicazione di Space Invaders da parte di Taito, una compagnia giapponese, nel 1979. Il Giappone si è immesso nella corsa all’oro dello sviluppo dei videogiochi molto presto, ed è rimasto per decenni il secondo produttore al mondo, superato dagli Stati Uniti. Oggi è in ogni caso terzo, a causa della preponderante intrusione della Cina nella corsa.4 Al di là di ciò, i videogiochi giapponesi giocano un ruolo molto importante all’interno della game culture stessa, e sono quindi spesso oggetto di

3https://en.wikipedia.org/wiki/Golden_age_of_arcade_video_games

localizzazione. Se è più difficile, per una persona che vive in Europa, notare uno stacco culturale giocando a un videogioco realizzato negli Stati Uniti (e viceversa), ben più facile è notare le differenze non solo visive, ma anche narrative e più in generale di sensibilità artistiche e a livello di gameplay di un videogioco giapponese. È facilmente intuibile come il processo di localizzazione di un videogioco giapponese sia più complesso nell’aspetto di trasposizione culturale. La necessità di proporre una domestication di un titolo, rendendolo più appetibile a un pubblico occidentale ha portato a ibridi interessanti come la saga Ace Attorney (Capcom, 2001), che hanno mantenuto l’ambientazione giapponese ma i riferimenti culturali, i cosiddetti realia, vengono adattati alla cultura americana, creando un clash di culture che risulta però funzionante. D’altro canto, i propositori della “purezza” del videogioco giapponese approvano un approccio che punti maggiormente alla foreignization, e quindi a mantenere ogni singolo elemento culturale appartenente al Giappone, portando a un impatto ben più straniante.

Relativamente allo scopo del presente lavoro, il problema si pone nel momento in cui un elemento della cultura di partenza risulterebbe discriminatorio o offensivo nella cultura di arrivo. La cultura giapponese, ad esempio, si basa su una concezione della figura femminile all’interno della società che possiede ancora le caratteristiche di una società fortemente patriarcale. Non è quindi raro riscontrare in un videogioco giapponese, ben più spesso che in un videogioco occidentale, che i personaggi femminili siano relegati a ruoli secondari, sessualizzati e in ogni caso in posizione subalterna rispetto ai protagonisti maschili. In Persona 5 (Atlus, 2016) il giocatore si troverà a stringere amicizia con una delle sue insegnanti di scuola che, di notte, per arrotondare il magro stipendio da insegnante, fa la maid, ovvero una cameriera vestita in divisa con gonna corta e grembiule che, una volta chiamata, pulirà la stanza del protagonista e lo apostroferà come “master”. Va sottolineato che nella storyline in questione emergono presto sottotesti a carattere sessuale; si implica infatti che il personaggio in questione possa offrire anche favori sessuali al protagonista. Nella cultura giapponese i maid cafè sono una realtà esistente e ben delineata all’interno della cultura. Una rappresentazione del genere per un personaggio

femminile non farebbe storcere il naso a un giocatore giapponese quanto a uno occidentale.

Tuttavia, si potrebbe sostenere che ricevere questo tipo di informazioni sia un modo di capire come funziona una cultura straniera ed eventualmente rispettarne la diversità e lontananza. D’altro canto, la trasmissione di un messaggio di questo tipo a un pubblico occidentale potrebbe esacerbare problemi di rappresentazione femminile già presenti. In ogni caso, a livello tecnico, si tratta di un personaggio che si muove e agisce all’interno del gioco. Non è possibile semplicemente “tagliarlo” dal videogioco anche se questa fosse la volontà del publisher occidentale del titolo, a meno di un rework completo. Il localizzatore potrebbe in questo caso agire sul linguaggio del personaggio, riducendo per esempio le istanze di “master” nei suoi dialoghi. Non è però detto che il localizzatore abbia questa libertà, per via di imposizioni del publisher, oppure non abbia la volontà di farlo, in quanto vuole preservare l’elemento culturale del titolo.

Vi sono numerosi esempi in cui la localizzazione di un titolo dal giapponese all’inglese ha eliminato elementi discriminatori. In Snatcher (Konami, 1998) sono stati rimossi numerosi dialoghi piuttosto espliciti nei confronti di una delle protagoniste, una ragazza quattordicenne, età che peraltro viene alzata a 16 nell’edizione occidentale del titolo. In Fire Emblem Fates (Nintendo, 2015) sono stati eliminati alcuni dialoghi che facevano supporre un possibile stupro da parte di un personaggio contro un altro, ed è stato completamente eliminato un minigioco nel quale si potevano “accarezzare” i personaggi del gioco utilizzando il touch screen della console Nintendo 3DS.

A parte quest’ultimo caso, che è comunque possibile effettivamente considerare come localizzazione, vediamo come in effetti il traduttore può intervenire linguisticamente su un titolo, alzando ad esempio l’età di un personaggio o eliminando dialoghi inappropriati. Rimane però il fatto che un intervento del genere potrebbe essere considerato come una forma di censura o di mancata fedeltà al testo di partenza. Tuttavia, se si considera la questione da un punto di vista di etica della traduzione, il traduttore potrebbe considerare come più etico il non voler trasporre questi elementi nella cultura di arrivo.