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Logica normativa e logica “mista”

1. Il panorama linguistico-filosofico dei Principi di Grammatica Generale

1.1. La fondazione di una grammatica “immanente”

1.1.3. Logica normativa e logica “mista”

Hjelmslev esclude subito la logica normativa dalla pertinenza di linguistica e psicologia a causa della sua configurazione troppo rigida (ibid.):

com’è noto, la logica tradizionale, quella aristotelica, non ha affatto un carattere descrittivo; essa è per definizione normativa. Le leggi della logica aristotelica sono simili alle leggi sociali in quanto imperative, mentre le leggi di ordine scientifico

sono di solito puramente descrittive, i risultati o le enunciazioni di una constatazione pura e semplice. Senza voler qui avviare una discussione sul valore di un simile sistema di leggi imperative, ci sembra molto inverosimile il fatto che possa esistere una logica imperativa che abbia un valore reale e generale dal punto di vista scientifico. Dal momento che entra in un sistema scientifico, la logica deve, come tutte le altre discipline, assumere necessariamente un aspetto empirico […]. Le discipline strettamente normative o imperative non sono delle scienze pura, ma sono delle scienze applicate (ibid.).

Posto in relazione al linguaggio, l’aspetto della “normatività” richiede forse più di altri un approccio ricostruttivo, una lettura “tra le righe” in grado di cogliere non solo i riferimenti espliciti proposti da Hjelmslev (è il caso della logica aristotelica, valutata come strettamente normativa e dunque come inutilizzabile nell’ambito grammaticale tout court) ma anche i richiami impliciti che è possibile encatalizzare ad un testo altrimenti così sobrio e, talvolta, stringato. In particolare, nella scelta di Hjelmslev di distinguere i due aspetti “normativo” e “descrittivo” si potrebbe rintracciare l’influenza di Wundt che, secondo Kalinowski 1969, sarebbe stato il primo a introdurre il termine stesso di “Normwissenschaften” nel linguaggio scientifico di fine Ottocento.

Nel tentativo di enucleare i possibili elementi della “normatività” che potrebbero essere stati ripresi da Hjelmslev (abbiamo già visto come egli sia propenso a carpire gli “ingredienti teorici” di altri autori riconvertendoli ai propri scopi), non intendiamo affatto avanzare la pretesa filologica di rintracciare un’origine wundtiana in queste specifiche argomentazioni del linguista danese22: riteniamo tuttavia che un tale confronto sia possibile a posteriori, grazie alla vicinanza di alcuni snodi teorici nelle due teorie. Tale confronto permette, a nostro parere, di rilevare come, tramite i PGG, Hjelmslev prenda posizione all’interno del dibattito europeo tra Ottocento e Novecento23, ritagliandosi una prospettiva autonoma e originale rispetto alle sue stesse fonti, addirittura in controtendenza rispetto al mainstream sociologico degli Anni Trenta (cf. al riguardo Graffi 2002).

22 Non fosse altro che per il fatto che l’Ethik non è inclusa nella bibliografia dei PGG, sebbene le idee

espresse in essa abbiano trovato seguito anche nella Völkerpsychologie, opera che invece vi compare: dunque la possibilità di una sorta di “contaminazione” non è affatto da escludersi a priori.

23 Dibattito che verteva esattamente su tali questioni (per esempio: le scienze normative, la rifondazione

Wundt rubrica sotto la definizione comune di “scienze normative” le discipline di logica, grammatica, estetica, etica e, in parte, le scienze politiche e giuridiche, pur sottolineando come alle fonti della normatività si debbano propriamente collocare solo logica ed etica, connesse nell’atto del giudizio (Wundt 1897: 7); tali scienze normative sarebbero per questo in opposizione rispetto alle “explikativen Disziplinen”24, includenti le scienze naturali in generale, la psicologia e la storia (Id.: 1). Come rileva lo stesso Kalinowski, è opportuno notare che, nonostante l’apparente rigidità di tale ripartizione, Wundt non cessi mai di ripetere che nessuna scienza è puramente normativa (Kalinowksi 1969: 14): a tal riguardo, suggerisce Wundt, è utile distinguere l’idea di “norma” dal concetto di “legge naturale” che sarebbe stata introdotta nelle scienze naturali come “forma derivata” o “trasferita”.

La distinzione tra “normatività” e “normatività derivata” introduce una sorta di gradualità entro gli estremi del “puramente normativo” e del “puramente esplicativo”: una zona ibrida25 in cui troverebbero appropriata collocazione tanto la psicologia quanto la grammatica. Come per Hjelmslev, dunque, anche per Wundt non si tratta di ripartire le scienze in tipi, in classi di ordine superiore, ma di cogliere l’interna diversificazione degli approcci possibili. Si tratta cioè di punti di vista o di prospettive che le scienze possono adottare in misura diversa: “Wundt divise les sciences en explicative et normatives, c’est vrai. Mais le sens et la portée de cette division ne peuvent être adéquatement estimés que si l’on tient compte de la distinction qui al fonde entre deux manières de considérer les choses: la manière explicative (explikative Betrachtung) et la manière normative (normative Betrachtung)” (ibid.). Il punto di vista esplicativo “treats its subject-matter as a body of facts, which it seeks to make more comprehensible by bringing out some intter relationship or a community of certain external characteristics” (Wundt 1897: 1). Al contrario

the normative point of view considers objects with reference to definite rules, which find expression in them, and to which they are at the same time in every case required to conform. From the explicative point of view, therefore, all facts are in themselves of equal value; from the normative point of view, it is the purpose of the inquirer to estimate the relative values of facts. Facts which contradict

24 Definizione che può considerata coestensiva al termine “descrittivo” proposto da Hjelmslev: anche qui,

come nelle opere più tarde, per Hjelmslev descrivere è spiegare.

25 Cf. “the normative character does not by any means attach to all the special normative sciences in the

established rules are either thrown aside, or else explicitly contrasted, as abnormal, with other facts that confirm the rule (ibid.).

Entro questi due estremi si colloca il concetto di “norma derivata”, che avrebbe la caratteristica di organizzare l’osservazione in modo che le irregolarità vengano scartate come tali solo a condizione di ammettere o ipotizzare una loro conformità a norme ulteriori. Il doppio vantaggio derivante dall’adottare la versione “tradotta” di normatività consiste nel poter mantenere il valore generalizzante della norma (cf. “as the norms themselves possess the character of generalisations from facts”, Id.: 3) e nell’escludere al contempo il sistema di “valori” che la norma tout court implicava (cf. “the proviso that they too be conceived as conforming in some way to definite norms […] away at once with the scale of values which was originally involved in the introduction of the idea of the norm”, Id.: 2); la differenza si gioca evidentemente tra “esattezza nella generalizzazione” (propria delle scienze normative derivate) e “esattezza nella delimitazione” (propria delle scienze normative pure), così

an originally normative science, like logic, is exact in its limitation: it excludes everything that contradicts the norm. A science that was originally one of observation, and is now working with the transferred normative idea, is exact in its generalisation: it demands that, in principle, every item of fact shall be reconciled with determinate norms (Id.: 3).

Ponendo questa differenza, Wundt intende ribadire il ruolo primario della prospettiva esplicativa rispetto a quella normativa. È infatti in una relazione di presupposizione che si coglie a pieno il ruolo del “momento valutativo”: dal fatto che “the explicative standpoint is naturally the earlier, – or, at all events, the more obvious” (ibid.) segue che sia impossibile concepire le discipline normative se non come fondate anch’esse sui fatti, sebbene indirettamente, infatti “they can be established only by previous study and observation of the facts” (ibid.).

Secondo Kalinowski, nell’affermazione circa il diverso livello occupato dalle scienze normative rispetto ai fatti considerati dalle scienze esplicative si coglierebbe il germe della distinzione tra linguaggio e metalinguaggio, idea ancora in forma aurorale e non sviluppata a pieno, ma grazie alla quale si può concepire il livello normativo includente o presupponente il momento puramente descrittivo. A nostro avviso, tale distinzione entro i livelli descrittivo (incluso) e normativo (includente) permetterebbe inoltre di

comprendere l’altrimenti controversa affermazione di Hjelmslev circa il carattere puramente “applicativo” delle scienze normative. Il ruolo della “valutazione” riguarda la modalità di questa inclusione basata sulla mediatezza nell’osservazione dei fatti e si coglie nell’oggetto stesso delle scienze normative:

yet the subject-matter of the normative sciences retains this one marked characteristic, that certain facts within it are distinguished from others as being of especial value; so that facts which deviate from them either do not come into consideration at all, or do so only negatively, as contradicting the norm. The antithesis thus obtained between what is normal and what is abnormal leads to the discrimination of an ought and an is. The norm stands over against every fact in the guise of a command. If the fact agrees with it, it becomes a command that has been followed; if the fact disagrees, the same norm becomes a command that ought to have been followed (Id.: 3-4).

La valutazione o “apprezzamento” (o meglio ancora “estimazione”) risiederebbe dunque nella differenza “qualitativa” dei fatti colti e valutati, appunto, come appartenenti a due dimensioni diverse e definibili, tramite una terminologia che è successiva a Wundt ma che risulta particolarmente adeguata poiché in qualche modo suggerita dallo stesso lessico wundtiano, come “ontica” e “deontica”:

the explicative standpoint knows only an ‘is’. If in accepting the normative idea it accepts also the idea of an ‘ought’, this is always under circumstances where the ‘is’ and the ‘ought’ are absolutely identical. Thus natural science considers every fact both as something which is, and also, so far as it is dependent on a natural law, as something which ought to be. But as no permanent contradiction is possible here between the ‘is’ and the ‘ought’, the ‘ought’, in natural science, is always transformed at one into a must. When the judgment that some facts are more valuable than others is set aside, the difference between facts that follow the norm and facts that contradict it is also abolished (Id.: 4).

Come si può notare, per Wundt la distinzione tra “ought” e “is” nasconde una dialettica: nel momento in cui la prospettiva normativa valuta i fatti in base alla loro conformità a regole (non importa che siano ricavate dall’oggetto o imposte dall’esterno: ciò che importa riguarda il loro esercizio, ovvero la loro pretesa di costituire un criterio di pertinenza per i fatti osservati) essa riduce la dimensione ontica a quella deontica. In altri termini, solo i fatti che rispondono al “comando logico” – ricadendo così nella

dimensione deontica – vengono assunti propriamente come pertinenti; gli altri non vengono semplicemente collocati nel dominio “ontico” (ovvero trascurati o “narcotizzati”, in attesa di altri trattamenti o di altre descrizioni26

) ma vengono scartati in quanto eccezioni o comportamenti devianti (in senso letterale) rispetto allo standard così assunto. In altri termini, nel momento stesso in cui la scienza normativa “istituisce” la distinzione tra un “essere” e un “dovere”27, essa non concepisce queste due dimensioni sullo stesso piano (come invece accade per le scienze naturali che, pur operando all’interno dei due domini, li assumono come equivalenti), ma all’interno di una gerarchia di tipo riduttivista.

A causa di questo “collasso” di un piano sull’altro, la dimensione ontica cesserebbe di essere percepita come il “substrato” necessario alle scienze normative stesse (cf. “it has been forgotten that empirical science, whose progress knows no halt, is constantly supplying the normative disciplines with new material for the understanding of the nature and significance, and even of the contents of their rules”, Id.: 4), diventandone il semplice converso residuo, uno spazio entro cui relegare i fatti non “corretti”. Non solo: le scienze normative tendono a trascurare il fatto che lo stesso momento valutativo al centro della “normatività” può essere concepito a sua volta come “fatto ontico”; in altre parole, “the estimate of the value of facts is also itself a fact, and a fact which must not be overlooked when it is there to see” (Id.: 5)28. Nella prospettiva wundtiana, questo segnerebbe la necessità di porre in connessione la normatività con la volizione umana intesa come capacità empirica di scelta tra diverse azioni possibili.

Da tale connessione tra norma e volizione seguirà che “the idea of law made use of by the explicative sciences becomes more and more estranged from the normative idea out of which it sprang, the less the facts themselves have the character of voluntary actions, or the fewer the voluntary actions comprised among them” (ibid.).

Per quanto riguarda le scienze esplicative, invece, esse operano sulla base di una prospettiva più ampia che corrisponde al diverso grado di “normatività” presente in esse: in generale, esse combinano le due dimensioni “ontica” e deontica” in una terza

26

Potrebbe essere il caso del trattamento statistico, che nel quadro della Glossematica è previsto ed ammesso, seppur accuratamente limitato a momenti e oggetti specifici dell’analisi (cf. § 3.2.3.).

27 È evidente che non si tratta semplicemente di “modalizzazione”. 28

A questo riguardo potrebbe essere interessante esplorare i punti in comune tra la prospettiva di Wundt, l’impostazione di Windelband (1907) e la cosiddetta sociologia comprendente di Weber (cf. Weber 2003).

dimensione (quella descritta tramite il termine “must”) che coincide con il bisogno stesso di postulare una razionalità minima entro i sistemi considerati. È su questo che si fonda, per Wundt, il complesso statuto epistemologico della grammatica:

thus grammar unites certain regular phenomena of language under grammatical rules or linguistic laws. Originating under definite physiological and psychological conditions, these rules, when met by other conditions of similar origin, may cease to apply, without the exceptions which thus arise being regarded as wrong or ungrammatical. There is only one set of laws which stand, as norms, above all grammatical rules: the logical laws of thought, which are common to all languages, and which can find expression in the most diverse forms of speech. Strictly speaking, therefore, only the logical elements of grammar are normative, – elements that in grammar itself, of course, shrink almost to the vanishing point, as compared with the consideration of the structure of language, which is mainly the result of varying psychological conditions (Id.: 6).

Wundt concepisce la grammatica come basata su un tipo di “normatività derivata” per così dire “di grado minimo”, concentrato solo in quella parte del linguaggio che è sottomessa alle leggi del pensiero logico. In questo caso, se Hjelmslev da un lato avrebbe potuto condividere il ruolo inclusivo del “must”, denotante un tipo di legge diversa da quella puramente normativa, dall’altro avrebbe rifiutato la concezione della grammatica come ancora in parte (seppur in minimo grado) normativa: come si vedrà, l’elemento normativo va infatti rigettato in toto. In altri termini, Hjelmslev postulerà come grammaticalmente pertinente quel concetto di legge che per Wundt ha il carattere di “norma derivata”, ma escluderà la componente normativa derivante dalla presenza di elementi logici nel linguaggio. Questa apparente contraddizione si risolve tenendo presente l’obiettivo di Hjelmslev nei PGG: un concetto di legge puramente descrittiva, traducibile in termini di pura constatazione di un rapporto, formulabile epistemologicamente solo a titolo ipotetico e in grado di cogliere adeguatamente la peculiare natura dell’oggetto grammaticale stesso.

Nel passare dall’analisi del punto di vista di Wundt alla prospettiva hjelmsleviana circa il significato di “normatività”, ci si potrebbe chiedere se Hjelmslev intenda davvero individuare le implicazioni epistemologiche generali dell’approccio normativo tout court. Come già detto, proponendo tale distinzione e concentrandosi sul lato normativo della logica, Hjelmslev intende esplorarne soprattutto i motivi di

incompatibilità rispetto alla grammatica, e non stabilire una tipologia valida per il sistema delle scienze. Eppure, implicitamente, Hjelmslev fa proprio questo: in questo senso le sue considerazioni non sono affatto caute e sembrano estendersi ben al di là del solo ambito logico, arrivando a caratterizzare la “scientificità” in quanto tale; in più, avvicinando esplicitamente la logica normativa alla grammatica normativa, egli dimostra come sia la componente comune di queste due varianti a dover essere rifiutata. Questo ci pare decisivo proprio per quanto riguarda la possibilità di identificare i due momenti, quello epistemologico relativo alla pura teoresi e quello “ontologico” (o realista) relativo all’oggetto, come inscindibilmente intrecciati: dal punto di vista del linguista danese, tanto la logica quanto la grammatica concepite come teorie (ovvero come discipline, come metalinguaggi) devono essere rifiutate qualora assumano una configurazione normativa.

La nostra ipotesi è che, come per Wundt, anche per Hjelmslev l’approccio normativo comporti una selezione arbitraria fondata su un giudizio di valore in merito a fatti che di per sé sono sullo stesso piano e che vengono pertanto esclusi dalla considerazione teorica solo al prezzo di una maggior adeguatezza empirica: tale approccio escluderebbe un possibile “effetto di ritorno” proveniente dall’oggetto in grado di ricalibrare le esigenze teoriche e di restituire pari “valore” e pertinenza ai fatti devianti. Su queste basi, il concetto di norma intesa come “correttezza” o “corrispondenza” viene completamente scartato dall’ambito propriamente linguistico-grammaticale, il quale ha bisogno di uno sguardo più comprensivo, di “una logica più ampia e tollerante, ciò che Jespersen chiama «una logica dalle vedute più larghe» che non si scontri frequentemente con i capricci della vita fluttuante” (PGG: 19) nel tentativo di ridurli entro i propri schemi.

Per Hjelmslev questa esigenza si manifesta nel momento stesso in cui si confrontano gli oggetti propri di logica e grammatica: si tratterà dunque di individuare e rispettare i diritti che l’oggetto impone allo sguardo arbitrario del teorico. Va inoltre notato come un certo componente “realista” nell’approccio teorico non venga mai meno nella riflessione successiva di Hjelmslev, pur venendo in qualche modo compensato dalle istanze proprie dell’astrazione: Hjelmslev stesso, per esempio, tornerà più volte a ribadire il ruolo delle

“esperienze pregresse”29

o “induttive” nella fondazione e nella conduzione della procedura teorica. Non solo, egli arriva a sostenere la necessità di un accumulo di dati di partenza più eterogenei possibile (cf. FTL: 21) poiché

solo attuando deliberatamente il maggior numero possibile di ‘descrizioni scorrette’ di lingue e di altre semiotiche saremo capaci di verificare pienamente e dettagliatamente i principi su cui poggia la glossematica. A questo riguardo, la ricerca fin qui fatta in linguistica offre un utilissimo (ma ovviamente incompleto, proprio da questo punto di vista) corpus di materiale (TLR: 137, N 53).

Inoltre, lo stesso impianto propriamente deduttivo, formulato in FTL e in TLR, richiede la presenza di un principio di generalizzazione che permetta alla teoria di tenere continuamente sotto controllo le caratteristiche formali con le quali l’oggetto viene costruito, ed eventualmente di ampliare o modificare l’iniziale delimitazione operata sul materiale stesso. Anche e soprattutto nella fase posteriore della riflessione hjelmsleviana, dunque, si tratterà sempre di un continuo “lavorìo di riformulazione” entro induzione e deduzione, ovvero entro la considerazione dei fatti, la formulazione di ipotesi, la loro sistematizzazione deduttiva, la loro applicazione; entro teoria e oggetto, tra arbitrarietà e adeguatezza: la loro reciproca interdipendenza è infatti la condizione stessa dell’immanenza.

Nel chiarire i motivi dell’incompatibilità tra logica normativa e grammatica, Hjelmslev fa esplicito riferimento alla logica aristotelica, “normativa per definizione” (PGG: 17): è infatti sempre stata “quest’ultima che abbiamo preteso [probabilmente “noi linguisti”, N.d.R.] di mettere in rapporto con la grammatica” (ibid.). In effetti, nei §§ 2-3 dei PGG, Hjelmslev traccia una breve cronistoria della “concezione grammaticale”, sviluppata approfonditamente (almeno) dalle quattro scuole greco- latina, indù, cinese e giapponese (PGG: 11). Ma è solo la prima scuola ad aver voluto “applicare i suoi principi a tutte le lingue umane” (ibid.), sfruttando il sistema categoriale aristotelico, e dunque ad avere sviluppato una tendenza universalistica pur restando idiosincronica nei fatti. Le grammatiche moderne non avrebbero fatto altro che riattualizzare (e dunque implicitamente condividere) questo “progetto «omnibus»” (Id.: 12): le categorie dell’antichità e della scolastica si sono così stratificate in un corpus di

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Hjelmslev si esprime così: “a priori sembrerebbe generalmente valida la tesi che per ogni processo c’è un sistema corrispondente […]” (FTL: 11-12); “pare a priori che la lingua sia un oggetto su cui si può mettere ala prova questa tesi con probabilità di ottenere un risultato positivo” (Id.: 12).

dottrine “più aprioristiche che empiriche” (Id.: 11). Non crediamo di divergere troppo