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Il subcosciente espresso: un paradosso?

1. Il panorama linguistico-filosofico dei Principi di Grammatica Generale

1.1. La fondazione di una grammatica “immanente”

1.1.5. Logica, psicologia e grammatica descrittive: il ruolo del “subcosciente”

1.1.5.1. Il subcosciente espresso: un paradosso?

Abbiamo visto come il problema della delimitazione tra le discipline sia da impostarsi in relazione alla definizione del loro oggetto teorico. Una volta entrati nel dominio delle scienze descrittive, si pone la questione di caratterizzare il substrato psicologico comune ai fatti “cognitivi” e a quelli linguistici, e di distinguere successivamente il proprium grammaticale: il “genere prossimo” e la “differenza specifica” costituiscono infatti i due aspetti che devono necessariamente essere tenuti presenti dalla scienza linguistica. Come prima mossa teorica, Hjelmslev si richiama alla funzione comunicativa del linguaggio:

È possibile definire il linguaggio come un’attività il cui fine è quello di comunicare il contenuto di coscienza da un individuo all’altro. Di conseguenza, la linguistica è la scienza che studia quest’attività. D’altra parte, la psicologia, compresa la logica descrittiva, si preoccupa di esaminare il contenuto stesso della coscienza umana. In entrambi i casi, l’esame in questione non può attuarsi senza che, nello stesso tempo, si metta in evidenza una certa serie di fatti subcoscienti che sono

contemporaneamente le condizioni e le conseguenze dei fatti di coscienza (PGG:

20; c.vo ns.).

In questo passo, Hjelmslev compie – quasi en passant – un’interessante considerazione: le operazioni mentali in generale, e linguistiche in particolare, hanno origine e luogo all’interno di una dimensione che rimane completamente al di sotto della soglia della coscienza. Il rilievo circa la natura dialettica del rapporto tra coscienza e subconscio, che nelle parole del linguista danese assume i connotati (anti-freudiani) di una codeterminazione reciproca, merita attenzione: Hjelmslev sembra suggerire qui

a. che per “coscienza” in generale si possa intendere una struttura psichica costituita da una parte “cosciente” e da una “coscienza subcosciente”, che include la prima (per lo meno dal punto di vista del linguaggio); nonché

b. che nella comunicazione, il linguaggio abbia la possibilità di formulare e di esprimere strutture latenti secondo modalità intrinseche, senza che tale emersione avvenga in modo “artificiale” e che i contenuti impliciti così plasmati ne risultino in qualche modo snaturati.

Quest’ultima caratteristica in particolare pone l’oggetto linguistico in una posizione metodologica privilegiata: infatti, “Il fatto che la struttura grammaticale sia subcosciente e si riveli nello stesso tempo in una forma immediatamente tangibile, la rende particolarmente preziosa per gli studi psicologici” (PGG: 37). Ma sostenere allo stesso tempo che nel linguaggio trovino espressione “tangibile” contenuti impliciti o subcoscienti e che “nel linguaggio tutto è subcosciente” (PGG: 130) non significa cadere in contraddizione? Sul piano della definizione hjelmsleviana del segno, nei PGG, questo problema si traduce in una concezione della forma grammaticale che potrebbe apparire paradossale o, quantomeno, coniata ad hoc: per Hjelmslev, infatti, la forma grammaticale è al contempo

1. “equidistante” tanto dal sistema fonico quanto dal sistema semantico47; e 2. appartenente al significante.

Così intesa, la forma grammaticale risulta essere foggiata in modo da “tenere un piede in due staffe”, in quanto rappresenterebbe allo stesso tempo due istanze diverse, rispettivamente:

1. la necessità di distinguere l’unione dei sistemi concettuali o fonici – e l’organizzazione categoriale grammaticale che ne deriva – con la somma dei sistemi presi isolatamente, che possono di per sé dare luogo a classificazioni diverse (foniche, psicologiche, logiche, ecc.); l’adagio “gestaltista” soggiacente a questa istanza si coglie benissimo: la forma grammaticale non è un calco unidirezionale di un sistema A (poniamo: concettuale) su un sistema B (poniamo: fonico) o viceversa, ma sorge come un tertium dalla reazione reciproca di questi due sistemi48;

47

“Vi è differenza assoluta tra forma e fonema, così come tra forma e significato” (PGG: 93).

48 “In linea generale, la grammatica è indipendente dalla fonologia tanto quanto lo è dalla semantica. Ciò

2. la possibilità che tramite la forma grammaticale (ovvero: attraverso di essa e grazie ad essa) i contenuti di coscienza – quali essi siano – diventino significanti, possano cioè venire manifestati o “riflessi” in modo concreto e tangibile grazie a 1., ovvero all’associazione con un sistema di immagini foniche adeguato.

In realtà, la contraddittorietà dei “contenuti subcoscienti espressi” deriverebbe soprattutto da quest’ultimo punto, ovvero dalla scelta di Hjelmslev di collocare la forma nel significante:

segno =

concetto (immagine fonica + immagine grammaticale)

= significato = significante

Tale scelta è, a sua volta, una conseguenza della concezione per cui il significato (sic!)49 può anche non ricevere forma e può rimanere del tutto celato, indisponibile ad una descrizione basata su un metodo diretto. Rispetto al significato, il significante è già un’entità complessa, basata sull’unione di immagine grammaticale e immagine fonica, e – ci viene detto – è “direttamente tangibile o sensibile” (PGG: 92). Il ragionamento di Hjelmslev è, per così dire, di “sintesi sottrattiva”: posta la definizione di “significante”, 1. per forma egli intende tutto ciò che è tangibile meno tutto ciò che è convenzionale (cf. PGG: 92);

2. in quanto convenzionali, i fonemi non entrano nella forma50, la quale tuttavia non cessa per questo di essere meno tangibile;

3. le categorie (subcoscienti) di cui è costituita la forma si ritrovano unicamente e immediatamente nell’immagine verbale;

49

Notiamo, in chiosa, una difficoltà interpretativa: a rigore di termini, il significato è già qualcosa di

linguistico, quindi non avrebbe senso postulare un significato (formato linguisticamente) intangibile (cioè

non formato). Evidentemente, Hjelmslev si sta riferendo all’idea psicologica pura, ovvero al “concetto”; ma questo tuttavia vizierebbe l’inclusione della forma nel solo significante. Teoricamente, infatti, Hjelmslev potrebbe dedurre solo la coappartenenza della forma al significante e al significato.

50 Tralasciamo la questione della convenzionalità dei fonemi, che fa problema a sé: propriamente, ad

essere convenzionale sarebbe infatti l’aspetto fonico (ovvero i foni) mentre la relativa articolazione sistemica (la loro struttura) è già compresa nella forma e come tale è sottratta all’arbitrio delle convenzioni (per esempio: le variazioni individuali o collettive, cioè gli usi che riguardano piuttosto la realizzazione della forma grammaticale).

4. il significato è individuabile solo quando assume una forma;

5. se la forma non fosse direttamente tangibile nel segno […] la si potrebbe studiare solo con un metodo puramente psicologico (PGG: 93);

6. la grammatica rientra nella linguistica e non nella filosofia perché la forma non coincide con il concetto e rientra nell’espressione.

Si badi: non si tratta di ragionamento ex post, ma di un’argomentazione di carattere “empirico” nel senso che tale parola ha all’interno dei PGG: qualcosa per la cui osservazione e descrizione è richiesto il metodo induttivo51. Tale argomentazione è fondata – letteralmente – sull’evidenza dell’esistenza (anche) concreta della forma grammaticale: Hjelmslev fa riferimento ai fatti di morfosintassi (come l’accordo, la concordanza, la flessione), che emergono direttamente alla sensibilità (per esempio tramite l’ordine delle parole, o negli stessi morfemi), per così dire sotto gli occhi di tutti52, pur rimanendo subcoscienti. I fatti grammaticali verrebbero cioè applicati immediatamente senza riflessione, senza essere registrati dalla coscienza del parlante come significativi in sé, in quanto condizioni di significazione o di comprensione del senso complessivo del messaggio comunicato, ma pur sempre dotati – come vedremo – di significato (astratto o generale).

Vale la pena, d’altra parte, sottolineare come il segno non cessi di essere “interamente psichico” per il fatto di essere composto da una parte significante “tangibile” (PGG: 173): l’esistenza concreta e tangibile è legata all’osservabilità (ovvero alla possibilità di osservazione – o percezione) da parte del parlante o del linguista; in fondo, è lo stesso Hjelmslev ad affermare che “la forma è direttamente tangibile, vale a dire accessibile con un metodo che non è puramente psicologico” (PGG: 93). Ma sostenere che la forma può essere tangibile, ovvero osservabile, anche se subcosciente, significa – e questo è un primo punto importante ai fini della nostra discussione – che in questo caso il carattere subcosciente dei fatti grammaticali non riguarda loro disponibilità o indisponibilità all’osservazione, ma è legato piuttosto al loro impiego spontaneo, automatico, non (necessariamente) intenzionale, all’interno di qualsiasi atto linguistico. Che poi i fatti grammaticali nella prassi comunicativa concreta possano anche superare la soglia della coscienza, questo rappresenta

51

Cf. PGG: 32.

52 L’associazione a La lettera rubata di E.A. Poe è immediata: i fatti grammaticali sono disponibili

semplicemente un’evenienza fortunata per il linguista, notevolmente facilitato nel proprio lavoro sul campo, e non un’obiezione alla loro costituzione subcosciente: istanza comunicativa e “coscienza” non coincidono necessariamente53

. L’espressione dei fatti subcoscienti ha a che fare con una grammaticalizzazione dei contenuti di coscienza (concettuali, acustici, fonetici che siano), ovvero con la loro formazione segnica, in funzione di una loro comunicazione54: in questo senso, gli aspetti della “comunicazione”, dell’“espressione” e della “formazione” sono reciprocamente solidali. È in questo senso – crediamo – che vanno intese le affermazioni di Hjelmslev:

Ciò che costituisce la particolarità della grammatica, in rapporto alla psicologia pura, è che l’oggetto delle ricerche grammaticali non è affatto, e non potrà mai essere, la coscienza stessa, ma i mezzi esterni per comunicare il contenuto della coscienza, vale a dire l’espressione (PGG: 22).

Non è possibile studiare, in modo strettamente scientifico, il contenuto della coscienza umana se non studiando la forma d’espressione della coscienza (PGG: 37).

L’espressione è un processo di rielaborazione linguistica (segnica) tramite cui i contenuti latenti vengono “concretizzati”, e coincide con ciò che a partire dai Fondamenti Hjelmslev chiamerà “manifestazione”55, ovvero la possibilità di una forma di farsi sostanza, anche psichica. La “traduzione nel materiale fonico” di un contenuto di coscienza, dunque, è solo una parte di un’operazione più ampia e complessa che la include: la formazione grammaticale, a cui Hjelmslev talvolta si riferisce definendola costruzione (cf. PGG: 96-97), conformemente alle definizioni proposte da Van Ginneken56 e da Misteli57.

53 “Dopo Hobbes e Max Müller, nessuno ha preteso di contestare che lo scopo del linguaggio risieda nella

comunicazione. E, d’altra parte, nessun linguista sarà tentato di seguire Wundt quando sostiene che ogni fatto linguistico dipende esclusivamente dalla coscienza” (PGG: 21, n. 47).

54 In questo senso, dunque, gli aspetti della “comunicazione”, dell’“espressione” e della “formazione”

sono reciprocamente solidali.

55 Si noti che, a rigor di termini glossematici, anche la manifestazione è interna al segno.

56 Cf. “groupe de mots, se succédant ou non, reliés ou non par l’écriture et séparés ou non par la ponctuation, mais qui se tiennent ce pendant et le montrent avec évidence par l’influence de forme ou de

signification qu’ils exercent les uns sur les autres” (Van Ginneken 1907: 274; c.vo ns.). La definizione ci sembra importante in quanto sottolinea l’indipendenza della forma dai procedimenti di manifestazione (in

casu: la successione delle parole, la scrittura, la punteggiatura). 57

Cf. “l’essenza formale della lingua risiede sempre più nella costruzione, pura attività, sintesi in sé, espressione della predicazione; nell’attribuzione e nell’oggettivazione, quale rappresentazione linguistica della funzione spirituale” (Misteli 1893: 328, cit. in PGG: 96, n. 28, N. XXI).

Un ulteriore indizio sembra giustificare la distinzione tra il farsi tangibile della forma grammaticale e il suo farsi cosciente: ovvero il fatto che il carattere subcosciente non sia affatto appannaggio della sola immagine grammaticale, ma anche del materiale che essa è chiamata ad organizzare. È necessario ricordare che il tratto accomunante delle discipline descrittive è costituito dall’analisi del substrato psichico dei fatti di coscienza (non solo grammaticali), e che “la forma non è affatto l’unico fattore che possa essere subcosciente: lo è anche il pensiero stesso e, in egual misura, l’aspetto fonico (cf. PGG: 95), ovvero i due aspetti che a priori, cioè prima di una loro associazione segnica, non sono linguistici di per sé. A questo riguardo, il linguista danese spiega che

l’aspetto fonico può avere una sua propria struttura senza che vada assolutamente confusa con la forma. Sainéan, giustamente, distingue «l’espressione delle categorie grammaticali» dalle categorie grammaticali stesse. Ma sono le categorie grammaticali stesse che costituiscono l’oggetto della grammatica, e non la loro «espressione» così intesa (PGG: 91-92).

Se si coglie qui una contraddizione con quanto affermato più sopra, è perché l’uso del termine “espressione” oscilla infelicemente tra i due significati: da un lato, l’“espressione” come ciò che abbiamo chiamato “costruzione”, l’intero processo segnico tramite cui un significato diventa significante nella forma grammaticale che funge così da “intermediario tra il pensiero e la parole” (cf. PGG: 95); dall’altro l’espressione come il solo lato del “materiale fonico” (cf. PGG: 91) del segno. Se Hjelmslev propende generalmente per il primo senso, è invece in quest’ultimo senso che va spiegata l’adesione di Hjelmslev alla succitata prospettiva di Sainéan: il materializzarsi, tramite i cosiddetti “procedimenti” (cf. PGG: 91) convenzionali (ovvero, di nuovo, la “manifestazione”), di categorie formative, già intervenute a garantire l’esprimibilità dei contenuti.

La grammatica deve certamente dotarsi degli strumenti descrittivi necessari a interpretare i procedimenti di manifestazione (particolari) delle categorie, ma non può affatto limitarsi alla considerazione di tali procedimenti: sono le categorie formali a costituire il vero obiettivo generale.

1.1.5.2. Subcosciente gestaltico

D’altra parte, che per Hjelmslev la “manifestazione” non implichi necessariamente il superamento della soglia di coscienza, lo dimostra anche il breve resoconto, redatto dalla Fischer-Jørgensen, del decimo incontro del Glossematic Committee, un sottogruppo del Circolo Linguistico di Copenhagen il cui compito era di discutere problemi linguistici ben definiti e circoscritti (cf. BCLC VIII-XXXI: 136). Alla seduta del 27 febbraio 1951, dedicata nello specifico ai problemi di enfasi e catalisi, Diderichsen “touched upon the problem of the psychological manifestation of content. It is a difficult matter to determine whether (or to what degree) the smaller entities are “manifested” or latent. Presumably only the manifestation of meaningful wholes is really “conscious” (BCLC VIII-XXXI: 159-160); su questo si esprime anche Hjelmslev, ribadendo che anche secondo lui

only wholes reach the level of consciousness, but this does not mean that the smaller entities have no manifestation (BCLC VIII-XIII: 160).

Il passo è importante perché dimostra che, dal momento che vi possono essere entità manifestate e subcoscienti, la manifestazione, ovvero il farsi sostanza di una forma grammaticale, e il superamento della soglia di coscienza sono due concetti che vanno tenuti distinti; anzi, si potrebbe dire che anche la manifestazione, in quanto processo linguistico, rimane in gran parte subcosciente, specie per quello che concerne le parti di un tutto comunicabile; da un punto di vista di storia delle idee, invece, questo estratto dimostra che i problemi legati al gestaltismo psicologico costituiscono per Hjelmslev un continuo termine di confronto: dopo quasi trent’anni dalla formulazione originaria del carattere subcosciente degli elementi linguistici, nonché dall’abbandono dei cosiddetti “psicologismi”, Hjelmslev torna a indulgere su questi problemi, e nei termini propri del 192858. Qual è l’idea costante soggiacente a posizioni così cronologicamente distanti? Si tratta del problema del contenuto significativo delle categorie grammaticali (cf. qui § 1.2.1), legato a doppio filo con la “partecipazione” soprattutto a partire dallo studio specifico di Hjelmslev sulle correlazioni linguistiche (cf. Hjelmslev 1933) e sulla

58 Sarebbe errato credere che per questo la Glossematica si fondi su spiegazioni psicologiche e che,

dunque, essa non sia affatto immanente: ciò che intendiamo dire è che a fronte di una spiegazione linguistica (id est: immanente) dei fatti del linguaggio, una loro interpretazione psicologica rimane sempre possibile.

categoria dei casi (cf. CdC). Proprio riguardo al problema del significato dei morfemi e delle relative categorie, infatti, il linguista danese rimarca che

nel linguaggio tutto è subcosciente. Se, in una certa misura, i soggetti parlanti possono rendersi conto dei fatti di ordine semantico, l’ordine significativo sfugge quasi sempre alla loro coscienza. È come dire che un significato di parola è

relativamente facile da definirsi, mentre un significato di morfema (o di semantema) è invece estremamente difficile (PGG: 130; c.vo ns).

In quanto parti di un tutto più ampio (per esempio, una parola o un enunciato), i morfemi – come del resto anche i loro componenti più piccoli, cioè i tassemi e i glossemi – rimangono per lo più impercettibili alla coscienza del parlante e agiscono come condizioni invisibili dell’atto di parola. Abbiamo qui una doppia indicazione: da un lato, si afferma la dimensione “compositiva” del segno, e dunque il carattere relativo di ciò che è “totalità” e “parte” in rapporto alla soglia di coscienza; dall’altro, possiamo cogliere l’identificazione di una specifica classe di entità linguistiche che sarebbero subcoscienti in quanto tali.

La prima indicazione riguarda il fatto che l’esatta identificazione di ciò che costituisce una “totalità” e di ciò che invece ne è una “parte” non può essere stabilita una volta per tutte: sembra esistere cioè una gradualità in ciò che è più o meno coglibile dalla coscienza, relativa al contesto strutturale in cui totalità e parti sono inserite. Ciò significa che in presenza di una totalità più ampia (per esempio: un enunciato come stringa di segni rispetto al singolo segno che lo compone; la parola intesa come unità sintagmatica rispetto alle sotto-unità morfologiche da cui è composta), la coscienza si rifarà ad essa, per prima, attribuendole un senso determinato: per il parlante, il significato lessicologico (o semantico) ha sempre priorità rispetto al valore significativo dei fatti morfologici.

La seconda indicazione ci dice tuttavia che questa “relatività” non è affatto valida per tutte le totalità: esistono delle “entità-limite” costituite dai fatti morfologici che sono subcoscienti a prescindere dal contesto strutturale in cui si collocano: anche qualora le si prenda isolatamente e le si analizzi come “totalità” costituite da parti ancora più piccole, infatti, il parlante non saprà attribuire loro un significato o un valore grammaticale specifico, e questo in virtù del fatto che i costituenti morfologici (le parti del segno) non

hanno esistenza indipendente59. In ogni caso, collocare lo spartiacque a livello morfologico non significa affatto contraddire il carattere relativo di “totalità” e “parte”: entro certi limiti, infatti, anche la scelta di una singola parola in vista della costruzione dell’enunciato può essere subcosciente. Ma conviene tenere presente, tuttavia, che l’obiettivo di Hjelmslev non tanto è quello di stabilire il grado di coscienza delle entità concrete, ma quello di identificare il “meccanismo grammaticale”, inteso come l’insieme delle leggi formali (ovvero morfologiche) che costituisce la langue e che è in grado di assicurare l’esecuzione di un qualsiasi atto linguistico: la rection ne è valido esempio. La grammatica generale non si pone a livello delle singole occorrenze segniche, ma a livello delle categorie e delle dipendenze che esse contraggono tra loro.

È dunque il meccanismo morfologico inteso come classe di operazioni tramite cui i segni vengono costruiti ad essere originariamente subcosciente (si prescinde qui dal fatto che anche i sistemi specificamente fonico e semantico possano esserlo). L’ipotesi forte di Hjelmslev si coglie proprio in relazione a questo problema: nonostante si pensi alle “parti di segno” come sprovviste di significato, in quanto “pezzi” costituitivi di una totalità che sola è in grado di esserne portatrice, esse non ne sono affatto prive; il loro significato è per così dire “invisibile”, “nascosto” alla normale coscienza linguistica in quanto distribuito nell’intera struttura grammaticale (sia essa sintagmatica che paradigmatica) e non concentrato nei singoli elementi che la compongono (come per esempio le partes orationis più evidenti e concretamente isolabili: a questo riguardo rimandiamo alla nota analisi di Hjelmslev circa i contenuti dotati di “espressione 0” presenti nella una frase nominale60).

Torniamo a questo punto sui nostri passi. Abbiamo visto come per Hjelmslev la forma grammaticale sia subcosciente e al contempo tangibile in virtù del fatto che le

59

Cf. PGG: 98. Ma si veda anche il problema dei “composti” in Sapir 2007: 65.

60 Cf. Hjelmslev 1948a. Questo rimando di consente di considerare come, una volta chiarito il senso di

termini come “espressione” (processo di formazione segnica), “comunicazione” (scambio di contenuti non necessariamente coscienti) e “subcosciente” (il Grund psichico dei fatti grammaticali, tratto accomunante grammatica e psicologia), quest’ultimo non possa più essere confuso con il fenomeno del “sottointeso” o dell’“implicito enunciazionale”: come dimostra il saggio di Hjelmslev sulla frase nominale, la latenza dei fatti grammaticali non consiste nel grado di intenzionalità del mittente nella scelta dei contenuti di un messaggio, né nella loro possibile “tacita registrazione” da parte di un “destinatario”, ma nel fatto che per poter veicolare (intenzionalmente o meno) certi contenuti a livello di comunicazione, il parlante deve potersi basare su operazioni “automatiche”, “predisponibili”, che garantiscano non solo un minimum di correttezza grammaticale ma anche un minimum di senso ad ogni realizzazione linguistica a livello di parole. Insomma, la langue in quanto tale non ha contesto enunciazionale: se lo costruisce realizzandosi. Curioso notare che per Hjelmslev, così come già per Humboldt, “le nozioni grammaticali risiedono piuttosto nello spirito di colui che parla, che in ciò che si può chiamare materiale del linguaggio” (PGG: 69; c.vo ns. Cf. anche nota 216).