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1. Il panorama linguistico-filosofico dei Principi di Grammatica Generale

1.1. La fondazione di una grammatica “immanente”

1.1.4. Norma e grammatica

L’argomentazione di Hjelmslev circa il rifiuto della normatività grammaticale è dispersa in tre punti del testo: alle note 33 e 37, brevi riferimenti alla discussione della normatività logica, e in modo più consistente al § 58, riguardante le implicazioni legate all’assunzione dell’“esistenza necessaria di sistemi concreti” (PGG: 187), ovvero gli stati particolari di lingua. Ripercorriamo i passi di Hjelmslev.

Egli pone sullo stesso livello la logica e la grammatica normative in quanto entrambe imperative (PGG: 17) e distinte dall’esigenza puramente descrittiva di una grammatica

35

Cf. secondo Sapir, “il linguaggio è un particolare modo del pensiero” (cit. in PGG: 35).

36 In altri termini si tratterebbe di un insieme di “ortologie” particolari rispetto alla pretesa universale

scientifica. Tale grammatica deve poter includere l’articolazione saussuriana tra langue e parole, deve poter cioè compendiare da un unico punto di vista la dimensione individuale del soggetto parlante nonché la stabilità di tali sistemi, ovvero la condizione generale della loro reciproca integrazione:

se ogni individuo costituisce un sistema autonomamente, questi sistemi individuali non possono concordare quasi mai fino all’ultimo dettaglio. Le discordanze individuali sono minime, ma non sono inesistenti. Tuttavia esse appartengono alla

parole e non alla langue. Un gruppo però costituisce anche un sistema comune che

è come una proiezione complessiva di tutte le particolarità individuali; ed è questo il sistema che chiamiamo norma. Una norma si costituisce in qualunque comunità linguistica, in qualunque gruppo di soggetti parlanti in un dato momento, in un dato luogo e in un dato ambiente. Quando si parlerà di sistemi concreti faremo riferimento soprattutto a questa norma. È la norma a costituire la langue in quanto esterna all’individuo e differente dalla parole, e solo la norma può essere osservata con un metodo oggettivo (PGG: 188).

Questo passaggio costituisce il Grund fondamentale, la prima rielaborazione che Hjelmslev propone della coppia saussuriana (langue e parole) in vista della sua successiva, più compiuta articolazione in schema, norma, uso e atto. Ciò che ci preme sottolineare è che nonostante la sospetta affinità lessicale dei termini, Hjelmslev stesso premunirà contro l’interpretazione normativa del concetto stesso di “norma”, che dunque non andrebbe intesa come una realtà esterna al fenomeno linguistico, un artefatto sociale imposto dall’esterno, ma un prodotto moltiplicativo dei contributi linguistici dei singoli soggetti parlanti, che, una volta “sedimentatosi”, gode di una propria vitalità autonoma:

la sua natura non è sempre esattamente la stessa; la norma può essere più o meno fissa. Spesso accade che essa ammetta certe variazioni proprio perché è la proiezione complessiva delle particolarità individuali […]. Volendo, è possibile designare la norma come un ideale che s’impone a tutti i soggetti facenti parte di un medesimo gruppo sociale. Senza voler sottoscrivere tutte le espressioni di cui Vendryes si serve al riguardo, crediamo che la sua definizione di questo «ideale» come una «realtà potenziale» sia estremamente corretta (PGG: 188).

La consistenza potenziale e ideale della norma linguistica non sono affatto in contrasto con il suo costituire una realtà oggettiva. Attraverso le parole di Meillet, che

descrivono la norma come un elemento comune a tutte le lingue a cui i soggetti parlanti tendono a conformarsi, Hjelmslev sembra concepire la norma come espressione di un tipo di contrattualismo essenzialmente diverso da quello all’opera nelle leggi sociali: si tratta di un consensus generale o di “contratto sociale” di natura per così dire “endogena”, completamente implicita, riposante in ultima analisi sul substrato psicologico fondamentale dell’uomo, o – anticipando il termine chiave dell’argomentazione hjelmsleviana sul prelogismo – “subcosciente” (cf. infra § 1.1.5. sgg.; Rasmussen 1992: 100):

la norma, così come l’abbiamo considerata, non è necessariamente identica alla correttezza grammaticale (Sprachrichtigkeit) […]. La correttezza grammaticale può essere considerata come un qualcosa di artificiale, il privilegio di una minoranza di soggetti parlanti; lo stato di lingua che essa rappresenta è per definizione sempre diverso da quello della «massa parlante», per usare l’eccellente espressione coniata da Saussure. Questo genere di correttezza grammaticale non è di competenza della grammatica empirica e scientifica; essa compete alla grammatica normativa, che è estranea alla linguistica propriamente detta. D’altra parte, se si usa il termine correttezza grammaticale come sinonimo di uso, esso risulta una nozione empirica e dunque identica a quella di norma. In altre parole, se vogliamo rimanere nel campo dell’osservazione empirica, è necessario intendere la correttezza grammaticale nel senso di Johannson, e non in quello di A. Noreen. Sebbene una

norma si stabilisca sempre laddove c’è una comunità linguistica, sarebbe tuttavia

vantaggioso usare il termine correttezza per indicare la norma nei casi in cui diventi lingua ufficiale. Ed è precisamente ciò che ha fatto Johannson. Questa nozione va tuttavia considerata in senso empirico. È l’uso ufficiale ciò che ci interessa, non la correttezza arbitraria che alcuni teorici cercano di imporre alla

langue (PGG: 189-190).

Hjelmslev chiarisce qui la vicinanza tra l’idea di correttezza grammaticale e la normatività logica a cui aveva solo accennato in § 5: in entrambi i casi, si tratta di una sorta di raffinazione di elementi o categorie originariamente interni (al linguaggio nel caso della grammatica, al pensiero nel caso della logica) ma rielaborati artificialmente37 e assunti come leggi sulla base di valutazioni soggettive o “arbitrarie” aventi come risultato non una descrizione empirica ma piuttosto l’istituzione di una “ortoprassi”. In base a tale idea di correttezza, gli elementi non grammaticali (ovvero non conformi ad

un tale standard) vengono rubricati come errori ed esclusi dalla considerazione38: le stesse grammatiche pedagogiche sono un esempio di ciò, in quanto, esprimendo una normatività di fatto non linguistica, contribuiscono a perpetuare l’influsso di questa sulla langue stessa. L’influsso delle “regole artificiali occasionalmente create dai «grammatici»” (PGG: 192) è infatti solo di ostacolo alla descrizione linguistica, tanto più che Hjelmslev giungerà a postulare una condizione ideale per lo studio della lingua ufficiale, che coincide con uno stato di “spontaneità irriflessa” o non pienamente cosciente:

In alcune lingue di civiltà superiore si verifica uno stato di ipernormalizzazione che si impone agli individui attraverso l’insegnamento. In generale, è possibile affermare che lo studio è molto più agevole quando una lingua ufficiale, una correzione, nel senso che qui attribuiamo a questo termine, si è affermata senza che

i soggetti parlanti siano giunti a riflettere troppo sulla correzione (PGG: 192; c.vo

ns.).

D’altra parte, escludere l’approccio normativo dal dominio propriamente linguistico non significa abolire i rapporti reciproci che si istituiscono “pragmaticamente” tra le componenti imperativa e descrittiva della grammatica: ciò equivale ad ammettere che

la grammatica descrittiva della langue, così come quella della parole, può subire l’influenza da parte della grammatica imperativa; è noto l’influsso esercitato dall’ortografia sulla pronuncia […]. E, dato che la grammatica imperativa è fondata in parte sulla logica normativa (sia quella imperativa che quella descrittiva), risulterebbe azzardato negare anticipatamente qualsiasi relazione possibile fra la grammatica scientifica e la logica normativa. Ma questo fattore è da ritenersi secondario (PGG: 18, n. 37).

Il motivo per cui Hjelmslev non prevede una grammatica “mista” come controparte della logica mista è perché l’oggetto grammaticale stesso può declinarsi entro gli estremi costituiti dalla langue e dalla parole. Si può cioè concepire una forma di grammatica ibrida, parallela alla logica intesa come “etica del pensiero”, attraverso una proporzione: “il rapporto tra questa logica particolare e la logica propriamente descrittiva è comparabile al rapporto tra la grammatica della langue e quella della parole” (PGG: 17, n. 33). Abbiamo già visto come Hjelmslev escluda la logica e la

38 Questo vale anche per la descrizione che adotti una tale idea di norma: essa cesserà di descrivere gli

grammatica normativa dal dominio proprio della linguistica: entrambi gli approcci si configurano come

1. arbitrari (sottoposti a valutazione soggettiva o quantomeno “oligarchica”);

2. deontologici (postulanti sistemi di norme esogeni, artificiali, escludenti le irregolarità dall’ambito di considerazione);

3. aprioristici e universalizzanti (la griglia logico-grammaticale viene fatta valere a priori come imperativo assoluto).

Tale prospettiva si preclude la possibilità di sviluppare la distinzione stessa tra langue e parole39: postulando una perfetta corrispondenza tra realizzazione particolare e realizzazione universale si esclude automaticamente che le eventuali irregolarità o le possibili anomalie possano avere valore, ovvero essere significative ai fini di una descrizione generale. D’altra parte, la logica “mista”, descrittiva e imperativa insieme, costituisce un primo passo in direzione della descrittività pura (ovvero la costituzione epistemologica propria della psicologia e di una grammatica scientifica). Essa ha infatti la caratteristica di essere

1. non assoluta, ma relativa: la componente descrittiva (che traduce in definitiva il contributo – non sufficiente – di una prospettiva comparativista) permette di valorizzare l’esistenza di altre configurazioni possibili, altri criteri, altri sistemi di norme o “sistemi concreti”; ma anche qui si ripropone la necessità di una distinzione adeguata: infatti, “se la logica (descrittiva) constata mentalità diverse, questo non deve costringere anche la linguistica a constatarle” (PGG: 207);

2. ancora deontologica: valgono ancora i criteri di correttezza, esogeni rispetto alla struttura propria del pensiero e del linguaggio; nel caso della grammatica, i criteri di correttezza si costituiscono tramite selezione e “fissazione” di alcune realizzazioni individuali elette a standard da una minoranza privilegiata di soggetti parlanti; nel caso della logica, l’esistenza di più realizzazioni possibili in vista dell’idea di “verità” non toglie nulla al carattere impositivo che esse manifestano;

3. particolaristica: essa riproduce nel microcosmo le istanze della logica normativa; abbiamo già visto come la differenza tra particolare e universale sia solo quantitativa e riguardi solo l’estensione dei fatti: nel caso della linguistica, le grammatiche universali e

39 In effetti essa è stata introdotta storicamente nel momento in cui si ha abbandonato il quadro

quelle particolari condividono la caratteristica di fondarsi su regolarità reperite a livello di realizzati, dunque vanno entrambe abbandonate in vista del livello “generale”, che solo ha a che fare con realizzabili.

A questo punto, sulla base delle indicazioni di Hjelmslev, riteniamo possibile offrire un mappatura comprensiva delle corrispondenze tra le forme di logica e grammatica:

trascendenza immanenza

logica normativa logica normativa e

descrittiva logica descrittiva

pensiero linguaggio grammatica normativa grammatica della parole grammatica della langue

Il concetto stesso di Sprachricthigkeit si costituirebbe sulle discordanze entro i sistemi particolari. Ecco perché Hjelmslev parla di “artificiosità”: nel momento in cui alcuni realizzati vengono selezionati come corretti, lo standard prodotto assume un carattere rigido o coercitivo rispetto gli ulteriori (successivi) realizzati, operando cesure indebite (esogene) all’intero degli stati particolari. Dunque la norma come “correttezza” è qualcosa di meno rispetto all’insieme dei realizzati. Viceversa, intesa come proiezione o prodotto moltiplicativo, la norma si costituisce come condizione stabile di tutti i singoli contributi individuali: la norma è qualcosa di più rispetto all’insieme degli atti di parole40 in quanto rappresenta il limite delle variazioni individuali che i soggetti parlanti stessi determinano nella loro produzione linguistica. Come tale, essa è endogena.

Ma proprio laddove Hjelmslev sembra sancire il carattere inclusivo della norma empirica, troviamo invece affermazioni scoraggianti, o apparentemente contraddittorie: il linguista danese sostiene infatti che

la norma […] è esterna alle irregolarità che possono essere occasionate dai fatti di

parole. L’individuo è obbligato a conformarsi alla norma e le deviazioni ammesse

sono sempre relativamente minime. […] Nel dominio dei suoni si è soliti riconoscere una certa ampiezza delle articolazioni normali (Spielraum der

40 Questa considerazione ci sembra molto vicina a quanto suggestivamente rilevato da Sapir, per cui “la

lingua è di per se stessa un’arte di espressione collettiva, un compendio di migliaia e migliaia di intuizioni individuali. L’individuo si perde nella creazione collettiva, ma la sua espressione personale ha lasciato qualche traccia in quella sorta di spaziosità ed elasticità che sono intrinseche a tutte le opere collettive dello spirito umano” (Sapir 2007: 227).

normalen Artikulationen), e per analogia con questo fenomeno, è possibile stabilire

che ciascuna delle limitazioni vicine, oscillanti attorno ad una delimitazione media, può essere considerata come normale. La grammatica in quanto tale, intesa come teoria sincronica, fa astrazione da questa ampiezza e cerca di fissare la norma, che è il suo oggetto di studio. Sebbene la parole giochi un ruolo eminente per la teoria diacronica, la sua importanza è minima per la teoria sincronica. È solo a quest’ultima che la langue s’impone con tutta la sua forza (PGG: 189).

È impossibile leggere queste righe senza assaporare una sorta di residuo normativo: l’argomentazione è sottile e Hjelmslev sembra ricadere nella normatività da lui stesso rifiutata; eppure crediamo sia possibile e doveroso sforzarsi di comprendere questo passaggio alla luce della descrittività così fieramente propugnata fin dalle prime pagine dei PGG. Il linguista danese è impegnato nel fondare la possibilità stessa di una grammatica generale, in grado di garantire equa considerazione di tutti i fatti linguistici senza imporre loro sovrastrutture aprioristiche: la norma linguistica non è una media di tutte le variazioni individuali (l’ampiezza intesa come Spielraum), ma ne è lo stato, la base comune, a partire dal quale esse assumono senso. È solo la parole a poter essere valutata come regolare o irregolare, per di più rispetto ad un criterio di correttezza che di per sé non le appartiene; una volta guadagnato il livello di astrazione adeguato, invece, tutte le regolarità e le irregolarità cessano di essere tali: esse diventano pure variazioni, realizzazioni possibili ed equivalenti di un unico “stato”, la langue. Ciò significa anche che le variazioni non stravolgono mai il sistema (la norma) ma cadono sempre al suo interno, altrimenti sarebbe per definizione impossibile riconoscerle come tali. Ecco perché la grammatica scientifica può fare legittimamente astrazione dalle singole variazioni: non perché si costituisca al di qua o al di là da esse (come regolarità rispetto a irregolarità), ma perché si costituisce al di sopra di esse (o, se si vuole, al di sotto, in quanto soggiacente).

A insistere su questa linea teorica vi è anche il gioco prospettico tra sincronia e diacronia: la parole può senza dubbio condizionare il mutamento, la transizione da uno stato all’altro; ma anche la diacronia è esterna alla langue e alla massa parlante stessa:

l’esistenza necessaria di sistemi concreti è solo la conseguenza immediata della natura del linguaggio. È noto che la costituzione degli stati di lingua poggia sul bisogno che gli uomini hanno di capirsi tra loro. I soggetti parlanti sono incessantemente portati a stabilire un sistema fisso, un sistema che poggi

esclusivamente su una causalità interna. Se la stabilità di un tale sistema rimane sempre illusoria è perché, da un certo punto di vista, lo stato non permane nel corso del tempo; qualsiasi stato è transitorio. Ma questo non impedisce che un sistema sia in vigore in un qualsiasi momento dato. Inoltre, l’evoluzione diacronica si compie così lentamente che essa è inesistente per la coscienza del soggetto parlante. Nella lingua, dunque, vi è sempre una stabilità che, sebbene sia relativa dal punto di vista diacronico, è quasi assoluta per i parlanti (PGG: 187).

In altri termini, la parole condiziona in qualche modo il mutamento ma è sempre condizionata dallo stato in quanto è possibile solo a partire da un insieme di presupposti che costituiscono la “realtà potenziale” (PGG: 188) della norma linguistica. Dunque, quest’ultima non va intesa né come legge impositiva, né come media aritmetica, né come regolarità, ma solo come stabilità attiva fin all’interno dell’“attività verbale di ciascuno individuo” (PGG: 189). Essa è al contempo prodotto e condizione dell’attività linguistica, esattamente come la particolare natura psicologica dei fatti grammaticali li rende “contemporaneamente le condizioni e le conseguenze dei fatti di coscienza” (PGG: 20). La norma è endogena in quanto riposante non su un impianto di regole prestabilito, ma “sul bisogno degli uomini di intendersi tra di loro” (PGG: 190) ovvero su una caratteristica al contempo psicologica e linguistica; solo in quanto tale essa è empirica, ovvero ricavabile oggettivamente tramite un approccio descrittivo.

Ciò che segna davvero l’ulteriore (ultimo) gradino necessario per passare da questi tipi di “normatività mista” al livello puramente descrittivo è – come abbiamo già avuto modo di anticipare – la qualità implicita ed endogena del consenso su cui si fonda il linguaggio, per cogliere la quale la componente descrittiva della logica “mista” risulta insufficiente. Infatti, nonostante la sua natura più “comprensiva”

questo tipo di logica non è applicabile ai fatti della grammatica più di quanto non lo sia la logica aristotelica. Sia essa imperativa che descrittiva, qualunque logica normativa resta estranea alla grammatica […]. Escludiamo anticipatamente ogni genere di logica normativa che, per definizione, risulta estranea alla linguistica (PGG: 18).

Il motivo del rifiuto è dunque doppio: in quanto ancora normativa, la logica mista contiene ancora un’idea di correttezza esterna al linguaggio; in quanto descrittiva, essa appartiene al dominio della psicologia, ma ciò non significa ancora che essa appartenga

anche alla grammatica. I due tratti “descrittivo” e “normativo” rappresentano dunque delle grandezze variabili dotate di una proporzionalità inversa:

norma ti vit à descrittività

D’altra parte, una tale rappresentazione non è così neutrale come potrebbe apparire. La distinzione tra normatività e descrittività è “tendenziosa” in quanto le due componenti non sono equivalenti, non producono approcci indifferentemente validi, anzi: secondo Hjelmslev il linguaggio può essere propriamente colto solo laddove la componente normativa sia assente. Inoltre, questa istanza epistemologica non deriva da un giudizio soggettivo del teorico ma si impone di necessità per la natura stessa dei fatti considerati: in altre parole,

è l’oggetto stesso della logica normativa che ci permette di cogliere questa verità (PGG: 18).

Con questa affermazione, il linguista danese marca il passaggio da una prospettiva legata soprattutto a considerazioni di tipo teorico ad un punto di vista per così dire interno, relativo alla costituzione propria dell’oggetto (logico e grammaticale): si tratta di giustificare l’intera operazione di delimitazione delle scienze sulla base della differenza specifica che i rispettivi oggetti manifestano. Nei passaggi successivi dell’argomentazione hjelmsleviana, è l’oggetto a indicare i motivi dell’inadeguatezza di un approccio normativo, a mostrare se e in che misura il sistema del pensiero logico inerisca alla struttura stessa del linguaggio41. Qual è dunque l’“oggetto stesso” la cui

41 Il passaggio da teoria a oggetto è sottile. Wundt stesso ci sembra chiaro a riguardo: il carattere logico-

normativo non riguarda solo lo statuto epistemologico di una scienza ma si riflette sulla (o meglio, si “introduce nella”) struttura stessa dell’oggetto; cf. “for in its demand that everything which ‘is’ shall be subject to law, our logical thought is transferring its own normative character to its objects” (Wundt 1897: 9-10).

natura sarebbe i grado di catalizzare in modo definitivo – o quantomeno evidente – la distinzione tra normatività e descrittività? Si tratta del carattere insieme subcosciente (cf. § 1.1.5.) e prelogico (cf. § 1.1.8) del linguaggio (e, di conseguenza, delle lingue, intese come concretizzazioni particolari di esso).