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L’espressione Made in Italy negli ultimi anni è stata impiegata spesso sui giornali e nei dibattiti pubblici a indicare praticamente tutto quello che è prodotto in Italia. Per Made in Italy si intendono infatti cose diverse. Esso è comunque un concetto di difficile definizione perché si presenta estremamente articolato al suo interno. Letteralmente un prodotto è Made in Italy se viene costruito in Italia. Ma oggi in un’epoca dominata dalla globalizzazione e dalla delocalizzazione produttiva, esi- stono diverse percentuali possibili di realizzazione di un prodotto in un paese. E il difficile è riuscire a stabilire fino a quale percentuale è possibile considerare un prodotto effettivamente made in quel paese. Generalmente, comunque, si tende a ritenere un prodotto come appartenente al mondo del Made in Italy se è fatto in prevalenza in Italia. E per estensione possiamo considerare dunque il Made in Italy come l’insieme di prodotti il cui processo produttivo è realizzato per la maggior parte nel nostro paese. La questione è importante perché poter associare un pro- dotto a un certo paese ha effetti significativi sull’immagine di quel determinato prodotto. Ciascun paese infatti possiede una sua specifica identità che si riverbera su tutto ciò che è realizzato al suo interno, determinando quello che di solito viene definito country effect. Dall’Italia, ad es. ci si aspetta di avere buon gusto e creati- vità, dalla Germania affidabilità nelle prestazioni ecc. È ovvio che non tutti i pro- dotti di un paese sono in grado di sfruttare allo stesso modo i benefici di tale effetto, che agisce in maniera più incisiva sui prodotti maggiormente coerenti e sintonici con l’identità del paese. Ad esempio sui prodotti alimentari e sui capi d’abbiglia- mento per l’Italia. Ogni paese produce tante tipologie di prodotti, ma soltanto al- cuni sono considerati “Made in” e perciò in grado di stabilire un forte legame d’im- magine con un determinato paese. Per quanto riguarda l’Italia, i settori merceolo- gici chiave da questo punto di vista sono probabilmente tre:

 Tessile, abbigliamento, accessori

 Arredamento e design

Riteniamo opportuno volgere soprattutto uno sguardo d’insieme per analizzare l’evoluzione e le caratteristiche del Made in Italy nel suo complesso e cioè fonda- mentalmente come unione delle tre “F” (food, fashion, furniture). Così considerato il Made in Italy rappresenta la voce più importante di export del nostro paese, ma soprattutto costituisce la componente fondamentale del sistema produttivo italiano. Al suo interno la “F” di fashion è certamente più importante delle altre, e infatti nel nostro discorso vi attribuiremo maggiore rilevanza.

Probabilmente il Made in Italy è nato con la comparsa della prima forma di moda italiana; è noto però che alla fine degli anni ’40 del Novecento, le case di alta moda italiane producevano i loro abiti copiandoli dai bozzetti “rubati” o acquistati a caro prezzo dai più celebri atelier parigini e dalle riviste femminili. Tuttavia, con la fine della Seconda guerra mondiale, è cominciato un processo di emancipazione pro- gressiva dei sarti italiani di alta moda dal modello dominante parigino e tale pro- cesso si è sviluppato anche nel corso dei decenni successivi. Negli anni ’50, il processo di emancipazione della moda è stato affiancato dallo sviluppo del settore dell’arredamento e del design. Negli anni ’60 invece il processo di sviluppo del settore della moda è stato affiancato da quello del settore alimentare, che soltanto in quegli anni è stato in grado di ottenere una visibilità tale da farlo uscire dalla marginalità caratteristica della produzione artigianale.

Ma quali sono i fattori sociali e culturali che hanno consentito lo sviluppo dei tre primari settori del Made in Italy? Sicuramente c’è sempre stata nel nostro paese una forte spinta verso la creazione di imprese. Non a caso in Italia il tasso di im- prenditorialità è il più alto d’Europa: 8,8% di imprese manifatturiere per 1.000 abitanti. Secondo Nicola Squicciarino (1986), tra le cause di tipo culturale alla base dello sviluppo autonomo della moda italiana va principalmente sottolineata la grande ricchezza del patrimonio artistico del nostro paese. Il costante confronto con tale patrimonio, infatti, ha fortemente stimolato negli individui lo sviluppo di una notevole sensibilità estetica. Inoltre sempre secondo Squicciarino, va conside- rata anche la forte egemonia culturale esercitata nel corso dei secoli dal cattolice- simo, il quale ha saputo dare valori a elementi apparentemente in contraddizione

con la sua morale, ma centrali per il pieno manifestarsi della moda: la dimensione sensoriale del corpo, la ricerca della bellezza e del piacere.

Autorevoli commentatori stranieri sostengono che il gusto italiano si è formato nel tempo grazie al fatto di vivere nel mezzo a capolavori, in un museo all’aria aperta. L’idea del bello e di una dolce vita associata all’Italia nasce anzitutto da caratteri strutturali del territorio; pochissimi altri paesi hanno su un territorio così limitato una varietà di climi pari a quella italiana. Questa varietà di clima si accompagna poi alla varietà naturalistica e paesaggistica. Armonia e varietà sono dunque due concetti che, prima ancora di essere associati all’opera dell’uomo, appartengono sin dalle origini al territorio italiano. Già dalle origini le arti nella Roma antica attinsero alla sofisticata cultura greca. Nel Quattrocento l’Umanesimo, movimento nato in Italia, attraverso il recupero e l’interpretazione dei testi e i reperti delle civiltà greca e romana, diede la consapevolezza di un passato di splendore all’Italia e all’intera civiltà occidentale dopo il buio del Medioevo. E proprio l’Umanesimo, che aborriva l’aggressività militare propria dei popoli nord-europei, portò all’Eu- ropa la cultura dell’arte e della dolcezza di vivere. Successivamente il Rinasci- mento italiano prende avvio proprio come ricerca del bello, della libertà espressiva, proponendo una cultura e uno stile che si affermerà in tutte le corti di Europa. Un gusto che, rispetto alla moda francese o spagnola dell’epoca, richiama i valori di grazia, eleganza ed equilibrio che riportano alle chiese, alle sculture, alla pittura di maestri italiani. Ricerca della forma piuttosto che della sola decorazione. Non a caso oggi si parla di “effetto Rinascimento” proprio per qualificare la creatività del Made in Italy. Oltre al bello, il ben fatto: l’espressione “bello e ben fatto” esprime, oltre all’estetica, la capacità di lavorare e nobilitare la materia innanzitutto in senso progettuale.29 Da questo punto di vista il “saper fare” italico molto deve alle bot- teghe e alle corporazioni di arti e mestieri nate dall’Italia rinascimentale. “La bot-

tega è la cellula più importante del sistema creativo rinascimentale: il luogo dove si formavano gli artisti, nascevano le idee, si realizzavano i capolavori…”30; un incubatore di creatività collettiva che realizzava una sistematica formazione dei

giovani attraverso l’apprendistato e un continuo incentivo al miglioramento, al fine di potersi rendere autonomi e avviare una nuova bottega. Le corporazioni intro- dussero inoltre pratiche di miglioramento della qualità e di controllo delle misure, provvedimenti che resero il mercato più affidabile e trasparente.

Artigianato, mecenatismo e soprattutto il fiorire di un mercato di prodotti artistici, sostenuti inizialmente dalle corti poi dalla nuova borghesia italica, diedero impulso per tutto il Cinquecento a quell’attività che ha portato l’Italia ad essere detentrice di larga parte del patrimonio artistico mondiale. Talentuosi architetti, scultori, pit- tori, decoratori, mobilieri, sarti ecc. hanno espresso il loro talento negli edifici pub- blici e privati ma anche in abiti, ceramica, oggetti quotidiani che arricchiscono i musei di tutto il mondo. Proprio l’estetica del quotidiano, il bello innovativo e fun- zionale rappresenta il DNA del prodotto italiano. Questo secolare talento proget- tuale e creativo si è incanalato negli anni Settanta nella moda, che è diventata l’im- magine del Made in Italy nel mondo. Il Made in Italy non è solo moda ma è la moda a fare da bandiera. Quando la moda italiana va alla ricerca del costo più basso o del prodotto più furbo, o si esaurisce in una comunicazione dozzinale, strangola i piccoli fornitori, tradisce un’immagine e un’eredità di eccellenza nel fare, vecchia di secoli.

“Made in Italy, 'fatto in Italia', è il marchio più forte del mondo. Recenti ricerca lo dimostrano con chiarezza. Nei prodotti italiani il consumatore cerca un’emo- zione che gli consenta di condividere uno stile di vita, una visione estetica della qualità che è unica nel mondo, inimitabile… La nostra, la vostra sfida è di mante- nersi all’altezza di questa immagine”31.

Ulteriore tratto genetico dell’Italia è l’instabilità: in politica, in economia ecc. Que- sta condizione patologica del Paese ha fatto sì che non si avesse mai una situazione di sviluppo lineare e costante, originando al contrario momenti di grande splendore che si sono alternati a momenti di incredibile declino; tutto questo ha favorito ul- teriormente la crescita del genio creativo italico.

31 Intervento del Presidente della Repubblica Ciampi in occasione della consegna dei premi “Leonardo” e

La nascita del Made in Italy

Nel secondo dopoguerra non esisteva una moda né una vera industria dell’abbi- gliamento; gli unici prodotti che venivano creati su misura erano destinati alle bou- tique francesi o per soddisfare i capricci di signore facoltose con gusto francofilo. Vi era comunque un comparto particolarmente ampio di sarti e artigiani, tecnica- mente i migliori al mondo, trepidanti di lanciare una moda tutta italiana. Lo stesso Mussolini aveva tentato di lanciare una moda tutta italiana, ma la dipendenza psi- cologica da Parigi era troppo radicata. Sul mercato interno il gusto italiano non era di tendenza. Poi agli inizi degli anni ’50 furono organizzate alcune sfilate di una serie di modelli di case di moda italiane che riuscirono ad incontrare il favore del pubblico d’oltreoceano grazie ad una marcata distinzione d’innovazione rispetto alle passerelle parigine. L’obiettivo era mostrare abiti da giorno, tempo libero, con linee giovanili e tessuti più facilmente portabili, colori vivaci e un rapporto qualità- prezzo competitivo. Gli americani capirono subito la potenzialità di mercato del Made in Italy. La società americana era sicuramente molto più sviluppata di quella europea e i centri commerciali erano già orientati alla grande distribuzione. Le donne americane lavorano e avevano bisogno di un abbigliamento moderno e pra- tico rispetto ai vestiti dell’alta moda parigina; in più sognavano di acquistare un pezzo de “la dolce vita” italiana. Il Marchese Gian Battista Giorgini fu il primo ad intuire la grande opportunità di creare una moda italiana; sarebbe stato possibile lanciare oltre all’abbigliamento anche i tessuti, gli accessori, la pelletteria e altre originali creazioni della penisola. La realizzazione di una filiera integrata avrebbe così dato al Made in Italy un vantaggio inimitabile. Un’altra idea del Marchese Giorgini, poi mantenuta nel tempo, fu quella di sfilare in luoghi di particolare sug- gestione, per dare un’idea di continuità tra il patrimonio artistico e la moda, en- trambi risultato dello stesso genio e della stessa tradizione storico-culturale. L’industria del Made in Italy però si consolida solo a partire dagli anni Sessanta. È da quegli anni infatti che il settore dell’abbigliamento comincia la prima vera fase di industrializzazione tramite metodologie organizzative e produttive che con- sentissero la fabbricazione in linea dei capi. Era infatti necessaria un’alta produtti- vità vista la difficoltà nel soddisfare l’elevata domanda di prodotti. Le circostanze

però cambiarono di lì a poco. Mentre nel resto d’Europa le crisi petrolifere favori- scono la concentrazione industriale e un maggiore investimento in nuove tecnolo- gie, in Italia, a causa dell’aumento del costo del lavoro, e di una legislazione sui diritti dei lavoratori vincolante, si avvia nelle grandi imprese il decentramento pro- duttivo. Il venir meno del boom economico evidenzia la debolezza del grande ca- pitalismo privato italiano caratterizzato da una struttura proprietaria accentrata e familiare, dalla mancanza di managerialità, e da un intreccio dannoso tra potere politico e sistema economico sia pubblico che privato. A ciò si aggiunge una dif- ficoltà sul mercato dei capitali. A fatica le grandi imprese private riescono a ri- strutturarsi. Ma la sorpresa sta nella risposta delle piccole e medie imprese, dove la tradizione manifatturiera di qualità per prodotti diversificati e su misura, si uni- sce alle moderne tecnologie produttive, in un momento storico in cui il mercato si stava saturando dei prodotti di massa, e si chiedeva meno standardizzazione. La struttura delle unità produttive si modifica da una base sostanzialmente artigianale verso un’impresa specializzata in una o poche fasi del processo produttivo. Questo nuovo tipo di industria, guidata da imprenditori visionari e assistita da una nuova generazione di stilisti danno vita nella metà degli anni Settanta al fenomeno del “Made in Italy”. Si avvia così una domanda di capi vestiari nuovi e differenziati che possano essere il simbolo del successo della grande borghesia italiana. Il centro propulsore del Made in Italy è Milano, dove viene lanciata la moda del pret-a-

porter, cioè una moda pronta per il giorno e il tempo libero confezionata in serie,

ma realizzata con i migliori tessuti e le lavorazioni artigiane. Gli stilisti italiani iniziano a fare le prime timide comparse negli Stati Uniti, e da lì parte un successo travolgente.

L’industria del Made in Italy emerge come un sistema eclettico caratterizzato dalla convivenza di imprese medie e piccole, riunite in distretti. Queste imprese hanno costituito così reti di fornitura che le hanno rese flessibili e in grado di accedere al patrimonio di risorse presenti nel distretto. Tuttavia anche nei distretti e nelle rete

di imprese si pongono oggi problemi importanti di competitività, governance (più del 90% sono aziende familiari32), crescita e accesso al mercato dei capitali. Se si considerano le singole imprese la nostra potrebbe quindi essere una nazione “lillipuziana”; ma se cambiamo prospettiva e guardiamo il sistema nel suo com- plesso forse non è poi così insignificante. È ormai affermato che il modello della grande impresa non ci appartiene per storia e tradizione e trova grande difficoltà a espandersi. La formula distrettuale potrebbe continuare a rappresentare nel futuro la risposta più efficace al bisogno di crescita e progresso del territorio socio-eco- nomico italiano, ma a patto di sapersi evolvere nella direzione di un sistema in grado di integrare le piccole imprese in una rete di risorse e talenti, una filiera non solo industriale ma anche di conoscenza e di processi innovativi integrati.

Approfondimenti

Secondo lo storico Pascal Morand33, l’atteggiamento di grande apertura verso gli altri popoli che caratterizza da sempre la cultura italiana è influenzato probabil- mente da uno sviluppo storico basato su rapporti di costante relazione con il resto del mondo. Rapporti che vanno, da quelli di dominio dell’Impero Romano sino a quelli drammatici dell’ondata migratoria rivolta soprattutto verso gli Stati Uniti sviluppatasi a cavallo tra l’Ottocento e il primo Novecento, passando per le in- tense attività di scambio dei commercianti rinascimentali e le grandi scoperte di navigatori come Vespucci e Colombo. Probabilmente anche perché a casa propria non si sentivano troppo bene, dato che l’Italia era una realtà sociale estremamente

32All’interno del vasto panorama delle piccole e medie imprese italiane, l’azienda familiare in particolare

rappresenta la tipologia di azienda più diffusa e caratteristica. Se nella definizione di azienda familiare comprendiamo sia le unità la cui proprietà è rappresentata dai membri di una sola famiglia, sia le unità in cui è determinante il ruolo di una famiglia (o poche famiglie), le aziende a proprietà familiare rappresentano il 96,6% del capitale complessivo delle aziende. Da un rapporto di Banca d’Italia risulta che su un campione di circa mille aziende industriali, quasi il 50% è controllato direttamente da un imprenditore o da poche persone legate tra loro da relazioni di parentela. Per azienda familiare si fa riferimento generalmente a quelle unità economiche nelle quali “il capitale sociale e le decisioni fondamentali d’azienda risultano con- trollate da un’unica famiglia o da poche famiglie collegate tra loro da vincoli di parentela, di stretta affinità o da solide alleanze”32. L’azienda a conduzione familiare è caratterizzata dal fatto che è la famiglia ad apportare il capitale, le risorse manageriali, per cui si distinguono per l’interazione tra rapporto proprietario e la gestione diretta delle attività.

frammentata e conflittuale. Dunque tutto ciò ha sviluppato nelle imprese italiane in generale la propensione a guardare altrove, a cercare cioè senza timori di ven- dere i propri prodotti in mercati lontani. Morand sostiene inoltre34 che “l’indu- stria italiana non ha mai rinnegato le proprie origini artigianali e non le è stato difficile puntare su quello che oggi viene definito l’artigianato industriale. Il primo miracolo italiano, nel corso degli anni ’60, non ha comportato una tendenza verso un’adesione irreversibile al taylorismo. In un certo modo, l’Italia ha saltato questa fase per passare direttamente all’epoca della differenziazione del prodotto e della flessibilità.”

Tutto ciò ha avuto come conseguenza una sostanziale impossibilità del sistema economico italiano di far nascere, tranne rare eccezioni, gruppi industriali di con- sistenti dimensioni e operanti a livello internazionale; anche se i benefici sul piano della flessibilità per le piccole e medie aziende sono stati senz’altro molto elevati. Morand ha inoltre affermato che l’Italia è un paese estremamente disperso sul suo territorio e ciò ha stimolato, fin dall’epoca dell’affermazione delle città-Stato nel Quattrocento, la creazione di un’intensa specializzazione industriale su base re- gionale. Da ciò probabilmente è derivato quel ruolo fondamentale che i distretti hanno saputo svolgere nella storia del Made in Italy e che in seguito analizzeremo in riferimento al caso del Distretto del Cuoio in Toscana.

Il Made in Italy non è un’etichetta d’origine applicabile indistintamente a tutti i prodotti fatti in Italia; si tratta invece di un concetto astratto, un marchio, che è una firma d’autore e definisce quei prodotti per cui l’Italia esprime un’effettiva specia- lizzazione e dove esiste un reale vantaggio in termini di innovazione, stile, servi- zio, prezzo35.

Made in Italy è:

 La creatività che si combina con la funzionalità

 L’artigianalità e le produzioni su piccola scala che assicurano la qualità dei manufatti

34 Bucci, 2002, p.159 35 Fortis (1996)

 I distretti e le piccole imprese familiari che danno vita a un modello basato sulla flessibilità, la specializzazione e la continuità

 La padronanza dell’intera filiera produttiva

 L’effetto Rinascimento, conseguenza del vivere dentro al museo a cielo aperto più grande del mondo, che influenza la sensibilità estetica di tutti gli italiani. I consumatori italiani sono i più esigenti al mondo ma anche i primi disponibili a riconoscere un premium price alla qualità e al design36

Il Made in Italy è un modo di essere, di vedere le cose, per questo è, almeno in parte, inimitabile; rispetto ad altri “Made in”, è un concetto molto più complesso perché trova tante espressioni quanti sono i modi di interpretare il bello. Diversa- mente da quanto accade sui mercati internazionali, è un concetto che vale molto poco per gli stessi italiani. Uno scarso senso civico unito a secoli di localismi ha impedito una seria riflessione sugli elementi di forza del nostro sistema, a favore di una diffusa tendenza all’esterofilia e al vittimismo. Il baricentro del Made in Italy è fortemente spostato sulla manifattura: l’Italia controlla – dalla materia prima al prodotto finito – le filiere produttive della maggior parte dei beni. Oltre alla genialità imprenditoriale, l’eccellenza italiana rimane un’eccellenza di filiera. La tradizione artistica dell’Italia si unisce a una costante tensione verso la qualità, la creatività non è mai fine a sé stessa ma è sempre orientata al mercato, ciò grazie alla presenza di miriadi di piccole imprese terziste, organizzate in aree di specia- lizzazione produttiva dove prevalgono le relazioni di rete. Le imprese che operano nei distretti accompagnano alla specializzazione una grande flessibilità che si tra-