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L’economia italiana si trova oggi di fronte ad un notevole numero di problemi concomitanti di carattere macroeconomico che possono seriamente pregiudicare le sue prospettive di stabilità e crescita. Sono all’evidenza di tutti i temi cruciali ed indilazionabili della riduzione del debito pubblico, del rilancio del Mezzogiorno e degli investimenti infrastrutturali, del completamento del processo di liberalizza- zione dei servizi a rete. In questo contesto, il rilancio del Made in Italy manifattu- riero nella competizione internazionale dipenderà in modo cruciale da come il “si- stema-Italia” saprà far fronte a due grandi sfide, che si collocano accanto a quelle precedentemente citate per importanza avendo con alcune di esse anche molte in- terconnessioni per ciò che concerne gli aspetti della competitività: la prima sfida è il rapporto con la Cina, la nuova potenza mondiale che allo stesso tempo costituisce una minaccia e un’opportunità per l’industria italiana; la seconda sfida è quella della conoscenza, che richiede un rilancio della ricerca e dell’innovazione nel no- stro Paese43.

In Italia il dibattito sul tema Cina ha visto sinora contrapposte due posizioni estreme: una nettamente “pessimistica” che individua nella Cina un concorrente talmente pericoloso da richiedere addirittura l’adozione di misure protezionistiche; e una “ottimistica” che invece scommette sulla Cina quale grande mercato poten- ziale per le imprese manifatturiere italiane e confida che lo stesso settore turistico potrà ricavarne enormi benefici dal futuro arrivo in Italia di milioni di turisti cinesi benestanti. L’autore Marco Fortis nel libro Le due sfide del Made in Italy: globa-

lizzazione e innovazione, individua una terza via che definisce “razionale” ovvero,

pur non negando l’esistenza di importanti opportunità future per le aziende italiane in Cina, ha anche posto l’attenzione sui danni a breve-medio termine che la con- correnza asimmetrica dei Paesi emergenti dell’Asia, e della Cina in particolare, può produrre sul sistema economico italiano, attraverso forme di dumping sociale, ambientale, valutario e attività di contraffazione di marchi e prodotti del Made in Italy “assolutamente inaccettabili”.

43 Marco Fortis, Le due sfide del Made in Italy: globalizzazione e innovazione, Cap..III, Il Mulino, Bologna,

In termini generali, dal punto di vista economico italiano il “problema Cina” può essere analizzato sotto 4 profili maggiori:

1. Quello della concorrenza asimmetrica

2. Quello della contraffazione dei prodotti e dei marchi delle aziende italiane 3. Quello dell’impatto della crescita dell’economia cinese sulla domanda

mondiale e sui prezzi delle materie prime energetiche e industriali

4. Quello delle opportunità offerte agli operatori italiani dalla forte crescita del reddito in Cina e quindi dalla crescita del numero di cinesi benestanti po- tenzialmente in grado di acquistare prodotti italiani o di venire per turismo in Italia

La Concorrenza Asimmetrica e il Dumping Sociale

Il primo aspetto da considerare è certamente quello della concorrenza asimmetrica cinese, che possiamo analizzare sotto due profili maggiori: a) quello dei fattori di sistema (basso costo del lavoro, regolamenti ambientali deboli o inesistenti, sussidi alle imprese ecc.) che originano un forte dumping sociale ed ambientale; b) quello dell’ancoraggio artificioso del cambio dello yuan al dollaro che genera un altret- tanto forte dumping valutario. Il tema del dumping sociale ed ambientale si collega con quello della delocalizzazione. E questo riguardo va osservato che sempre più cruciale, e non da tutti condiviso, è il ruolo assunto dai grandi gruppi multinazio- nali della produzione e distribuzione nel favorire sempre più la Cina come “fab- brica del mondo”. Prima dell’esplosione del “fenomeno Cina”, era universalmente abbastanza accettato il fatto che i Paesi in via di sviluppo potessero sfruttare la carta del loro basso costo del lavoro per attrarre investimenti e produzioni prece- dentemente realizzate in paesi più ricchi. Ma con la prepotente apparizione della Cina sul mercato mondiale tutto sembra essere cambiato. La Cina, infatti, non può più essere definita un paese in via di sviluppo. Stiamo parlando di una potenza mondiale che riunisce in una singolare miscela di comunismo, mercato, autoritari- smo e liberalizzazioni e che può contemporaneamente disporre a suo vantaggio sia di un costo eccezionalmente basso sia di infrastrutture fisiche e sostegni all’eco- nomia tali da renderla un caso unico nel panorama internazionale.

Dunque il dibattito sul “pericolo Cina” è apertissimo con punti di vista difficil- mente conciliabili: da un lato, i grandi gruppi multinazionali dell’industria e del commercio spostando le loro attività produttive e i loro acquisti in Cina riescono ad avvantaggiarsi, oltre che di un cambio nettamente favorevole rispetto all’Euro, di condizioni del mercato del lavoro che riportano indietro di almeno due secoli le lancette dell’orologio dei diritti sociali e sindacali dei lavoratori, con l’obiettivo di massimizzare il profitto; dall’altro lato, la concorrenza asimmetria cinese mette in difficoltà tutti i paesi in via di sviluppo, che rischiano di essere abbandonati in massa dagli investitori attratti dal miraggio della Cina vista sia come piattaforma produttiva sia come enorme mercato in espansione.

Al dumping sociale, ambientale e valutario cinese si aggiunge la piaga della con- traffazione sistematica dei marchi e dei prodotti delle aziende europee, in partico- lare italiane. Sono infatti gravi le conseguenze che la contraffazione cinese sta ar- recando al Made in Italy sia in termini di quote di mercato sottratte illegalmente alle nostre imprese sui mercati mondiali, sia in termini di perdita di immagine per le nostre stesse aziende. I “falsi” cinesi pur essendo imitazioni quasi perfette dei prodotti italiani (con tanto di marchi aziendali, certificazioni ed imballaggi copiati ad arte) sono in genere di qualità scadente e talvolta addirittura pericolosi per la sicurezza e la salute dei consumatori. L’inganno nei confronti di questi ultimi, che in buona fede ritengono di avere comprato un prodotto italiano, si traduce in tal caso in pubblicità negativa per il Made in Italy a livello internazionale nel mo- mento in cui il prodotto “falso” si rivela di qualità inferiore o pericoloso. L’Italia è uno dei paesi più colpiti dalla contraffazione asiatica, e i sequestri di partite di “falsi” cinesi operati dalla Guardia di Finanza sono sempre più frequenti e riguar- dano quantitativi enormi di merci contraffatte, lo dimostra pienamente.

L’Impatto della Crescita Cinese

Un’altra implicazione della forte crescita dell’economia cinese degli ultimi anni è costituita dalla formidabile pressione che essa sta esercitando sulla domanda mon- diale di energia e materie prime, aspetto che tocca nuovamente il Made in Italy molto da vicino, essendo l’Italia un paese “trasformatore” di prodotti di base indu- striali per i quali, come per il petrolio e il gas naturale, dipende in modo pressoché totale dall’estero. La domanda cinese di materie prime energetiche ed industriali sta contribuendo a determinare forti squilibri sui mercati internazionali delle com- modities e anche del petrolio, con effetti dirompenti sui prezzi di questi beni. Dun- que la dinamica del grande paese asiatico pone difficoltà crescenti alle imprese trasformatrici italiane non solo dal lato della concorrenza mondiale sui beni finiti, ma anche dal lato degli acquisti delle materie prime e dei loro costi.

Per le imprese italiane il mercato cinese può indubbiamente rappresentare una im- portante opportunità, sia sotto il profilo delle esportazioni sia per quanto riguarda le vendite dirette effettuate da stabilimenti produttivi italiani insediati in Cina. È comunque da notare che la strutturazione dell’industria italiana in PMI e Distretti così come avuto in passato, ha anche oggi notevoli implicazioni sotto il profilo della competitività del nostro sistema manifatturiero. Infatti, sin verso la fine degli anni ’90 il modello PMI-Distretti ha operato con notevole successo, le PMI appa- rivano più dinamiche, agili e veloci nelle decisioni rispetto alle Grandi Imprese. L’aggregazione territoriale nei Distretti conferiva loro, inoltre, economie locali ri- levanti come la concentrazione di manodopera specializzata, la possibilità di ope- rare in un contesto socio-economico territoriale ricco di conoscenze, stimolante, sempre all’avanguardia nell’innovazione di processo e di prodotto. Tuttavia la con- correnza asiatica, cinese in particolare, ha parzialmente modificato questa situa- zione di vantaggio competitivo goduto dalle PMI e dai Distretti italiani. La piccola dimensione delle imprese italiane costituisce oggi un parziale limite in relazione ad alcuni aspetti:

 Le difficoltà delle PMI nello sviluppare marchi aziendali forti e sufficien- temente conosciuti, che possano consentire di realizzare strategie commer- ciali vincenti in categorie di prodotti di valore più elevato a fronte della crescente competizione asiatica basata sul prezzo

 La difficoltà nel perseguire un processo di internazionalizzazione, che con- senta di penetrare mercati in crescita e potenzialmente di grande rilievo ma difficili e complessi

 La difficoltà di dedicare risorse aggiuntive alla R&S e quindi di produrre salti radicali sotto il profilo dell’innovazione, che possano consentire lo svi- luppo di nuovi prodotti fortemente innovativi e, se necessario, la riconver- sione delle PMI da attività in declino verso nuovi settori a più alta tecnolo- gia.

Tutti questi elementi preoccupano e devono indurre a porre tra le priorità delle azioni di politica economica il problema della “questione dimensionale”. La cre- scita dimensionale delle imprese italiane è fondamentale in funzione dell’otteni- mento della massa critica necessaria per la crescita degli investimenti in R&S delle aziende e soprattutto per l’internazionalizzazione delle stesse.

Porre l’accento sull’obiettivo di internazionalizzazione delle imprese italiane non significa auspicare la delocalizzazione in massa delle nostre imprese in Cina o in altri paesi emergenti; né significa prefigurare l’abbandono da parte dell’Italia dei suoi settori tradizionali in tempi più o meno brevi. L’internazionalizzazione delle imprese italiane deve essere un processo graduale; deve riguardare in primo luogo le grandi imprese e le medie imprese di maggiori dimensioni e non deve necessa- riamente avere come meta obbligata la Cina ma anche altre aree, tra cui l’Europa Centro Orientale. Nel frattempo non bisogna dimenticare che in Italia esistono de- cine di migliaia di piccole imprese manifatturiere esposte alla concorrenza asim- metrica e sleale asiatica e che i settori che alcuni ritengono “maturi” e da abban- donare rapidamente rappresentano ancora una parte rilevante del sistema produt- tivo italiano e un fattori di sostegno per l’occupazione, la generazione di reddito e l’equilibrio della bilancia commerciale. Osserviamo infatti che i settori manifattu- rieri italiani più minacciati dalla concorrenza asiatica, in particolare cinese, sono il

tessile-abbigliamento e la filiera pelli-calzature. Ma forse non tutti sanno che il fatturato generato dal tessile-abbigliamento e dalle pelli-calzature dall’Italia rag- giunge una cifra sostanzialmente pari al valore generato dall’intera industria ma- nifatturiera della Danimarca o dell’industria britannica dei computer, degli appa- recchi elettronici e per telecomunicazioni. Questo dovrebbe far capire perché l’Ita- lia dovrebbe battersi con tutte le sue forze in Europa e a livello internazionale, prima di arrendersi alla concorrenza asiatica in questi settori.