La presenza nei mercati esteri, come detto, soprattutto i quelli emergenti, dall’in- dagine analizzata da Rullani, risulta ancora ridotta e leggera (in termini di modalità di entrata), può per questo essere potenziata con politiche ad hoc. I principali punti di forza e di debolezza di internazionalizzazione delle imprese distrettuali possono così essere sintetizzati in:
Le imprese distrettuali conservano una spiccata vocazione internazionale di natura essenzialmente commerciale. Le strategie di entrata attraverso ac- cordi o investimenti diretti esteri sono ancora poco praticate. Tuttavia, ini- zia ad affermarsi la consapevolezza della loro necessità e molte imprese distrettuali si stanno attrezzando per farne uso, soprattutto di accordi, lad- dove gli investimenti all’estero richiedono invece condizioni strutturali (fi- nanziarie ed organizzative) spesso al di fuori della loro portata. Prevale quindi un tipo di posizionamento internazionale fondato su esportazioni di- rette.
La strategia di differenziazione, anche attraverso il presidio di specifiche nicchie, è la strategia vincente nei mercati internazionali. Risulta evidente, infatti, che competere sul costo non è più possibile, e probabilmente non lo
sarà per diverso tempo, a pena di finire schiacciati dalla maggiore competi- tività su questo fronte dai paesi emergenti e in via di sviluppo. Occorre quindi investire su qualità, per valorizzare il prodotto tendendo all’eccel- lenza, e ricerca e innovazione di prodotti e processi, per restare sempre “un passo avanti” ai concorrenti.
Occorre puntare sulla formazione di specifiche competenze, che in base al know-how di distretto ormai radicato sul territorio, e integrate con il country
effect (alla base delle conoscenze e delle ispirazioni autoctone), siano diffi-
cilmente replicabili
In conclusione dopo aver visto con questo studio Unioncamere, quali possono es- sere le principali aree di intervento per potenziare la forza delle nostre imprese sui mercati esteri, possiamo affermare che il modello distrettuale, che caratterizza il panorama economico-produttivo italiano da tempo ormai, è ancora valido, tuttavia non è possibile affermare politiche generali applicabili a tutti i casi distrettuali, ogni situazione necessita di particolari cambiamenti; vedremo quindi se le nostre imprese saranno in grado di reagire come hanno già dimostrato in passato di saper fare.
1.6. LE SPECIALIZZAZIONI NEI DISTRETTI
Un altro elemento caratteristico dell’industria manifatturiera italiana, per lungo tempo rivelatosi vincente, ancorché oggi percepito come non più sufficiente per affrontare le nuove sfide della globalizzazione, è la sua specializzazione nei settori cosiddetti tradizionali (tessile-abbigliamento, pelli-calzature, legno-mobilio ecc.) e nella meccanica leggera. Sin dagli anni ’80 abbiamo definito sinteticamente tali specializzazioni come Made in Italy, includendo in tale definizione i seguenti set- tori: a) i beni per la persona, cioè tessile-abbigliamento, pelli-calzature, oreficeria- gioielleria, occhialeria; b) i beni per la casa, cioè legno-mobilio, piastrelle cerami- che e altri prodotti ceramici, pietre ornamentali, lampade ed illuminotecnica; c) gli apparecchi meccanici (tra cui molti destinati alla casa, come rubinetteria, casalin- ghi, elettrodomestici, caldaie, impianti per il condizionamento, manigliame e fer- ramenta) e le macchine specializzate derivate da tutte le specializzazioni manifat- turiere prima ricordate (macchine tessili, per l’industria alimentare, per l’imballag- gio, per la lavorazione del legno, delle materie plastiche, delle pelli e del cuoio ecc.), nonché biciclette, moto, auto di lusso e imbarcazioni.
A questi comparti va poi aggiunto anche il comparto agro-alimentare, molte bran- che del quale riguardano prodotti tipici. Come risulta da alcune ricerche più del 66% degli addetti manifatturieri sono occupati in settori specializzati del Made in Italy.
L’elevato numero di “distretti” sul territorio costituisce la terza peculiare caratte- ristica del sistema manifatturiero italiano, che si riconnette alle prime due: infatti i Distretti Industriali si compongono prevalentemente di PMI e le specializzazioni manifatturiere del Made in Italy trovano nel contempo la loro massima espressione nei Distretti Industriali di PMI. Tuttavia il numero di Distretti Industriali varia enormemente a seconda degli autori e delle definizioni adottate, da un minimo di poco più di 50 a poco meno di 200.
Abbiamo già parlato di cosa s’intende per “Distretto Industriale”; man mano che è cresciuta l’attenzione per questo fenomeno e per le sue connessioni con la specia- lizzazione italiana nell’industria leggera, grazie in particolare alle opere di Becat-
tini, Fuà, sono state coniate varie definizioni e varianti di “distretto”, talvolta ge- nerando confusione: abbiamo visto che si è parlato di “cluster”, di “sistemi locali”, di “sistemi locali del lavoro distrettuali”, di “sistemi produttivi locali”.
Ricordiamo la classica definizione di Becattini:
Un distretto è un’entità socio-territoriale caratterizzata dalla compresenza attiva, in un’area territoriale circoscritta, naturalisticamente e storicamente determi- nata, di una comunità di persone e di una popolazione di imprese industriali. Nel distretto, a differenza di quanto accade in altri ambienti (es. la città manifattu- riera), la comunità e le imprese tendono, per così dire, ad interpenetrarsi a vi- cenda.
La definizione di Becattini si applica perfettamente alle realtà distrettuali italiane, sviluppatesi soprattutto nelle aree lontane dai grandi centri metropolitani, nelle province del paese durante gli ultimi quattro decenni del XX secolo. È una defini- zione che sottolinea i profili non solo economici, ma anche sociali dei Distretti Industriali. Per Becattini i Distretti Industriali sono soprattutto delle comunità lo- cali, già piuttosto caratterizzate, in cui l’emergere di alcune produzioni manifattu- riere di eccellenza finisce con il rafforzare lo spirito d’identità dei propri abitanti e il loro attaccamento al territorio in cui vivono. Le produzioni industriali distrettuali traggono origine in molti casi da radicate tradizioni artigiane, ma non sempre. A volte i distretti si sviluppano storicamente grazie all’accumulazione di capitale di alcune aree agricole dotate anche di abbondante disponibilità di manodopera che trova poi uno sbocco occupazionale significativo nelle nuove attività manifattu- riere emergenti. Gli imprenditori dei Distretti Industriali sono particolarmente or- gogliosi del successo delle loro aziende e di quello del loro territorio, a cui tutti sono consapevoli di aver contribuito, in modo più o meno determinante: anche le imprese più piccole e quelle dell’indotto si sentono partecipi di tale successo. All’interno del “distretto” essere un imprenditore capace conta ancor di più che in altri contesti e lo status di imprenditore nel settore industriale d’elezione del di- stretto rappresenta un obiettivo ampiamente condiviso e perseguito: il che genera
una spinta motivazionale assai forte per la crescita individuale dei membri della comunità. Fondamentale è lo slancio imprenditoriale delle popolazioni e la loro volontà di affermarsi nel campo della produzione. Nei distretti industriali italiani si respira come esposto precedentemente una spiccata “atmosfera industriale” di memoria marshalliana. Vi operano prevalentemente PMI, ma spesso emergono anche alcune imprese leader di maggiori dimensioni, come avvenuto es. nel di- stretto bellunese dell’occhialeria, ma anche altrove. Da queste imprese leader fre- quentemente nascono nuove imprese, attraverso un processo definito di “gemma- zione”, allorché alcuni dipendenti lasciano l’azienda di origine per avviare in pro- prio nuove iniziative imprenditoriali. Nei distretti industriali, in effetti, tanti tecnici ed operai diventano imprenditori. La manodopera è inoltre altamente specializzata. La comunità locale accumula nei “mestieri” di eccellenza know-how sempre più importante e caratterizzante la comunità stessa.
Un altro aspetto peculiare dei distretti industriali è la combinazione tra competi- zione e collaborazione tra le imprese. All’interno del distretto la competizione tra le imprese è assai forte e seleziona le aziende migliori e più efficienti. Ma, nello stesso tempo, le imprese dei distretti industriali spesso collaborano tra di loro a progetti comuni come iniziative per la promozione all’estero dei prodotti del “Di- stretto”, consorzi per gestire i problemi ambientali, informatici o l’acquisto di ener- gia elettrica ecc.
Sul piano storico, nell’esperienza italiana i Distretti Industriali rappresentano la risposta “spontanea” di un sistema economico periferico ricco di grandi potenzia- lità ma sostanzialmente ignorato da una politica industriale centralista e dirigista, per decenni sbilanciata verso i settori “protetti” dell’industria di Stato, mentre si assiste in parallelo ad un declino delle grandi aziende delle famiglie storiche del capitalismo italiano. Così il capitalismo delle PMI distrettuali individua un sentiero di sviluppo autonomo, scegliendo la via della modernizzazione delle industrie leg- gere e delle nicchie manifatturiere; si abitua a lavorare senza “protezioni” o “aiuti” e sin dagli anni ’60 privilegia come suo principale riferimento il mercato mondiale, mentre la grande impresa continua a operare essenzialmente sul mercato interno in condizioni spesso monopolistiche o quasi-monopolistiche. Quella dei mercati
esteri è una palestra fondamentale in cui i Distretti Industriali e le PMI irrobusti- scono la loro capacità competitiva. Comincia proprio nella seconda metà degli anni ’60 la crescita impetuosa, durata sino a oggi, dell’export dei settori del made in Italy e i Distretti Industriali diventano presto, nei loro comparti di specializzazione, delle realtà leader a livello mondiale ed uno straordinario punto di forza dell’eco- nomia italiana16.
Ma quanti sono oggi i Distretti Industriali? Non è facile rispondere con esattezza a questa domanda e forse nemmeno è possibile perché come abbiamo visto tanti sono gli schemi di classificazione che si possono adottare. Tuttavia l’Istat ha pub- blicato recentemente i dati riferiti all’anno 2011, identificando 141 distretti indu- striali, 40 unità in meno rispetto all’indagine del 2001. Da questa indagine emerge, come detto, che i distretti industriali costituiscono circa ¼ del sistema produttivo del Paese, sia in termini di Sistemi Locali del Lavoro (SLL)17, il 23,1% del totale,
16 Definizioni, classificazioni e mappe dei distretti industriali – Marco Fortis, Alberto Quadro Curzio “In-
dustria e distretti” – il Mulino
17 I Sistemi Locali del Lavoro (SLL) rappresentano una griglia territoriale i cui confini, indipendentemente
dall’articolazione amministrativa del territorio, sono definiti utilizzando i flussi degli spostamenti giorna- lieri casa/lavoro (pendolarismo) rilevati in occasione dei Censimenti generali della popolazione e delle abi- tazioni. Poiché ogni sistema locale è il luogo in cui la popolazione risiede e lavora e dove quindi esercita la maggior parte delle relazioni sociali ed economiche, gli spostamenti casa/lavoro sono utilizzati come proxy delle relazioni esistenti sul territorio.
I Sistemi Locali del Lavoro (SLL), nell’accezione proposta dall’Istat fin dal 1981, rappresentano dei luoghi (precisamente identificati e simultaneamente delimitati su tutto il territorio nazionale) dove la popolazione risiede e lavora e dove quindi indirettamente tende a esercitare la maggior parte delle proprie relazioni sociali ed economiche. Da un punto di vista tecnico e metodologico i SLL sono costruiti come aggregazione di due o più comuni cercando di massimizzare il livello di interazione tra comuni appartenenti allo stesso SLL, espressa dai flussi di pendolarismo giornaliero tra luogo di residenza e luogo di lavoro.
La necessità di individuare aree territoriali che esulino dalle tradizionali suddivisioni amministrative del territorio è legata all’obiettivo di identificare e analizzare caratteristiche economiche e sociali di aree spe- cifiche che dipendono dai processi di auto-organizzazione della popolazione attiva, misurati mediante i movimenti giornalieri che i singoli individui operano per conciliare l’attività lavorativa con quella sociale. I temi legati alla definizione di “sistemi locali del lavoro” sono stati anche affrontati all’interno di una specifica task force promossa e coordinata da Eurostat, a cui l’Istat ha partecipato attivamente, con il man- dato di esplorare la possibilità di definire “labour market areas” armonizzate a livello europeo, utilizzando principi e metodi comuni. I principi comuni da seguire per la costruzione di SLL riguardano:
Scopo: ciascuna zona rappresenta un mercato del lavoro
Rilevanza: le zone permettono di diffondere informazione statistica affidabile e confrontabile
Completezza: le zone sono una partizione dell’intero territorio dello Stato
Unitarietà: ciascun comune può appartenere a una sola zona
Contiguità: ciascuna zona è costituita da un insieme di comuni non frazionati
Conformità: le zone possono non rispettare i confini amministrativi
Omogeneità: le zone non sono troppo estese territorialmente o troppo numerose in termini di oc- cupati
L’importanza dei SLL è legata alla possibilità di creare una geografia confrontabile e coerente dell’intero territorio italiano che possa essere d’ausilio all’analisi d’importanti fenomeni socio-economici quali quelli
sia di addetti (il 24,5% del totale), sia di unità locali produttive (il 24,4% del totale). L’occupazione manifatturiera distrettuale rappresenta oltre 1/3 di quella comples- siva italiana, in linea con quanto osservato nel 2001. All’interno dei distretti indu- striali risiede circa il 22% della popolazione italiana. Aumenta l’estensione e la dimensione demografica ed economica dei distretti. Ogni distretto, in media, è co- stituito da 15 comuni, abitato da 94.513 persone e presidiato da 8.173 unità locali che assorbono 34.663 addetti. Nonostante la diminuzione della quota di occupa- zione manifatturiera assorbita dai distretti industriali (65,8% nel 2011), il settore manifatturiero italiano si conferma caratterizzato dal modello distrettuale. I di- stretti industriali costituiscono infatti il 64,1% dei SLL prevalentemente manifat- turieri, e assorbono il 65,8% degli addetti dell’industria manifatturiera. Il maggior numero dei distretti (45) è localizzato al Nord-Est, tradizionalmente l’area territo- riale di riferimento del modello distrettuale italiano. Nel Nord-Est oltre 2/3 dei SLL corrispondono a distretti industriali. Il Nord-Ovest presenta 37 distretti (il 58,7% dei propri SLL), il Centro 38 (il 71,7%) e il Sud 17.
I distretti del Made in Italy sono 130, ben il 92,2% dei distretti industriali del paese; sono maggiormente presenti nei settori della meccanica (il 27%), tessile-abbiglia- mento (22,7%), beni per la casa (17%) e pelli, cuoio e calzature (12,1%).
Lombardia e Veneto insieme assorbono il 60,4% dell’occupazione manifatturiera distrettuale (rispettivamente il 33,7% e il 26,7%); seguono Toscana (9,9%), Emi- lia-Romagna (9,4%) e Marche (8,7%). Insieme queste cinque regioni assorbono l’88,3% dell’occupazione manifatturiera dei distretti industriali del paese18.
del mercato del lavoro. A tal proposito i SLL possono costituire un’entità geografica su cui misurare e analizzare l’andamento del mercato del lavoro a un livello di dettaglio territoriale adeguato a quelle che è la reale struttura del territorio, definita in modo funzionale attraverso le interazioni tra i cittadini.
L’Istat rende disponibile l’elenco dei distretti industriali identificati a partire dai Sistemi Locali del Lavoro (SLL). Questi ultimi sono stati definiti utilizzando gli spostamenti luogo di residenza/luogo di lavoro rilevati in occasione del 15° Cen- simento generale della popolazione e delle abitazioni. Per giungere alla definizione dei 141 distretti industriali, l’Istat ha applicato a ciascuno dei 611 SLL i dati rela- tivi alle unità locali, alle attività economiche e agli addetti desunti dal 9° Censi- mento generale dell’industria e dei servizi.
I distretti industriali sono entità socio-territoriali costituite da una comunità di im- prese e di persone unite, oltre che da relazioni territoriali, anche dai legami socio- economici che tale compresenza genera. Queste imprese appartengono prevalen- temente a uno stesso settore di attività economica, che ne definisce l’industria prin- cipale, e sono caratterizzate da piccole e medie dimensioni.
La metodologia di individuazione dei distretti industriali dell’Istat seleziona i SLL caratterizzati dalla presenza di micro, piccola e media impresa, con una elevata concentrazione territoriale di occupazione manifatturiera focalizzata in un’indu- stria principale, essendo le altre industrie secondarie complementari (dal lato dell’occupazione) o ausiliarie (dal lato della produzione). Ciascuna impresa è spe- cializzata in prodotti, parti del prodotto o fasi del processo produttivo tipico del distretto.
Le imprese del distretto si caratterizzano per essere numerose e di modesta dimen- sione. Ciò non implica che non vi possano essere anche imprese abbastanza grandi ma la loro crescita “fuori scala” può causare una modifica nella struttura “classica” di distretto. Per la definizione di piccola e media impresa, in accordo con la disci- plina comunitaria, si è fatto riferimento alle unità produttive con meno di 250 ad- detti.
I distretti industriali del 2011 sono 141 e rappresentano circa un quarto del sistema produttivo del Paese, in termini sia di numerosità (i distretti sono pari al 23,1% del totale dei SLL) sia di addetti (assorbono il 24,5% dell’occupazione nazionale) sia di unità produttive (il 24,4% delle unità locali rilevate al Censimento è localizzato nei distretti).
Bergamo è il distretto più ampio sia come numero di comuni (123) sia come unità locali e addetti. Dopo Bergamo, nelle prime dieci posizioni per numerosità di im- pianti produttivi e occupati si collocano i distretti di Padova, Busto Arsizio, Como, Brescia, Prato, Reggio nell'Emilia, Treviso, Lecco e Vicenza. Quasi tutti sono spe- cializzati in due industrie principali: cinque nella meccanica e quattro nel tessile e abbigliamento, con la sola eccezione di Vicenza dove invece le produzioni sono quelle di oreficeria, gioielleria e strumenti musicali e altre. In questi dieci distretti sono presenti poco più di un terzo delle unità locali, degli addetti complessivi e degli addetti manifatturieri dei distretti italiani.
I dieci distretti più piccoli per numerosità di impianti produttivi e occupati sono: Fonni (il più piccolo), Vilminore di Scalve, Firenzuola, San Marco dei Cavoti, Minervino Murge, Thiesi, Storo, Piancastagnaio, Urbania, Pieve di Cadore; non presentano significative particolarità, appartenendo a nove differenti regioni ed es- sendo caratterizzati da cinque diverse specializzazioni.
In dieci anni scende il numero di distretti ma cresce la loro dimensione. Il decennio intercensuario 2001/2011 ha risentito della crisi che, a partire dal 2008, ha investito i sistemi produttivi dei paesi europei e dell’Italia in particolare, e i cui effetti si sono fatti sentire soprattutto sulla riduzione di posti di lavoro. Nella manifattura il calo di occupazione è stato rilevante, 919 mila addetti in meno (pari al -19%). I dati dei censimenti del 2001 e del 2011 mettono in luce l’effetto congiunto della crisi e dello storico processo di terziarizzazione dell’economia italiana. Entrambi i fenomeni hanno contribuito ad influenzare la configurazione territoriale del mo- dello distrettuale italiano, che, accanto al ridimensionamento del numero di di- stretti mostra una maggiore concentrazione nelle aree del Paese in cui i distretti erano presenti storicamente.
Il numero dei distretti è passato da 181 nel 20012 a 141 nel 2011, con una diminu- zione sia in termini assoluti (-40) che di peso specifico (rappresentano il 23,1% dei sistemi locali complessivi, contro il 26,5% del 2001); a ciò corrisponde, tuttavia, una maggiore estensione e caratterizzazione socio-demografica ed economica (Prospetto 5). Ogni distretto, in media, è costituito da 15 comuni (13 nel 2001), è abitato da 94.513 persone (67.828 nel 2001) ed è presidiato da 8.173 unità locali (6.103 nel 2001) che danno lavoro a 34.663 addetti (26.531 nel 2001). Pur for- nendo, in media, maggiori opportunità di lavoro per i residenti - nei distretti sono occupati 37 addetti ogni 100 abitanti, a fronte dei 33 nei SLL non distrettuali - la
Figura 6 Fonte Istat – Occupazione nei distretti
loro capacità di creare lavoro si è ridotta (nei distretti del 2001 erano occupati 39 addetti ogni 100 abitanti).
Fra il 2001 e il 2011 si è ridotto il peso percentuale dei distretti sui sistemi locali manifatturieri, passando dal 67,3% al 64,1%, così come l’occupazione comples- siva, dal 69,5% al 65,3%, e il livello dell’occupazione manifatturiera, dal 70,9% al 65,8% (Prospetto 1). Questi andamenti sono confermati anche dal fatto che gli ad- detti manifatturieri dei distretti sono diminuiti più di quanto siano diminuiti nelle altre aree del Paese (Prospetto 2). D'altronde, le migliori performance sul piano occupazionale sono state registrate dai sistemi locali del lavoro manifatturieri non distrettuali, che meglio hanno assorbito gli effetti della crisi e della ristrutturazione produttiva; in questi sistemi locali, contraddistinti da unità produttive maggiori di 250 addetti, l’occupazione complessiva è aumentata del 22,8% tra il 2011 e il 2001 mentre gli addetti manifatturieri sono rimasti inalterati.
Al contempo resta invariato il peso specifico distrettuale nell’economia italiana (Prospetto 1). Infatti, la diminuzione del numero di distretti e addetti si inserisce nel più generale andamento occupazionale e nella ristrutturazione avvenuta nel Paese nel decennio considerato. Di conseguenza, rispetto al 2001, a fronte della diminuzione nel loro numero, i distretti mantengono la stessa quota di unità locali che vi operano (24%), di addetti che vi lavorano (25%) e di residenti (22%) e ve- dono diminuita di poco la loro connotazione manifatturiera: le unità locali manifatturiere rappresentano il 34% nel 2011 contro il 36% nel 2001 e gli addetti alle unità locali manifatturiere rappresentano il 38% contro il 39% nel 2001.
Complessivamente, sono 15 le regioni dove i distretti industriali sono presenti. Lombardia (29 distretti) e Veneto (28) insieme contano il 40,4% dei distretti ita- liani. Seguono le Marche con 19 distretti (13,5%), la Toscana con 15 (10,6%) e l’Emilia-Romagna con 13 (9,2%). Per contro, il modello distrettuale è meno dif- fuso in Liguria e nel Lazio (con 1 distretto in ciascuna regione) e del tutto assente in sei regioni o province autonome (Valle d'Aosta, Bolzano, Molise, Basilicata, Calabria e Sicilia).
Il “triangolo industriale distrettuale” formato da Lombardia, Veneto ed Emilia- Romagna contiene 70 distretti, pari al 49,6% del totale. Le storiche regioni distret- tuali dell’Italia centrale (Toscana e Marche) registrano la presenza di 34 distretti, pari al 24,1%; in queste cinque regioni è presente il 73,8% dei distretti italiani (Prospetto 4).
Il Nord-est, storicamente considerata l’area territoriale di riferimento del modello distrettuale italiano, conta 45 distretti industriali (pari al 67,2% dei sistemi locali manifatturieri della ripartizione), mentre il Centro Italia ne ha 38 (71,7%). Nel Nord-ovest, l’area di più antica industrializzazione del Paese, un tempo dominata