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Ma con gli anni ’90, dopo tre decenni di crescita tumultuosa ed ininterrotta, i di- stretti industriali si trovano anche a dover affrontare alcuni nuovi problemi. In al- cuni comparti a minor valore aggiunto, specie della moda, comincia a farsi sentire la concorrenza dei paesi asiatici, tra i quali Taiwan, Corea del Sud, Turchia, India e soprattutto la Cina. Dopo il 2001, anno in cui avviene l’ingresso della Cina nell’Organizzazione mondiale del Commercio (WTO), la situazione si aggrava perché appare subito evidente che il gigante asiatico, per le sue dimensioni e per il forte apparato statal-comunista di sostegno alle proprie imprese di sostegno alle proprie imprese, è un concorrente senza precedenti storici, in grado di sviluppare una competizione fortemente asimmetrica su scala globale che colpisce sia i paesi più avanzati sia quelli in via di sviluppo (emblematico è il crollo dell’export tessile di paesi come il Bangladesh).

I settori tradizionali del Made in Italy e i loro distretti sono tra i più danneggiati dalla concorrenza asimmetrica asiatica, a cui si assomma il sempre più diffuso fe- nomeno della contraffazione ampiamente praticato dalle aziende cinesi. Per ridurre i costi di produzione nei settori a più alta intensità di manodopera alcuni distretti industriali sperimentano già negli anni ’90 la strada della delocalizzazione. Il fe- nomeno della delocalizzazione, pur non assumendo, almeno finora, dimensioni di- rompenti, pone per la prima volta al distretto industriale il problema del rischio della perdita della propria unitarietà, di una dispersione pericolosa delle proprie conoscenze accumulate nel tempo e di una crisi strutturale delle proprie attività indotte20.

20 È bene considerare che la delocalizzazione può essere essenzialmente di due tipi: a) prevalentemente

“difensiva”, quando viene effettuata per poter beneficiare dei più bassi costi di produzione in alcune fasi del processo produttivo esistenti in altri paesi (generalmente in via di sviluppo o emergenti); b) prevalente- mente “offensiva”, quando si aprono nuove unità produttive in altri paesi non solo per godere degli even- tuali più bassi costi di produzione ivi esistenti, ma soprattutto per avvicinarsi “fisicamente” ai mercati di consumo locali (generalmente in forte crescita) e vendervi più facilmente i propri prodotti. Quest’ultimo tipo di delocalizzazione è indubbiamente una forma di internazionalizzazione sana, che va incoraggiata, pur consapevoli che nei settori tipici del Made in Italy distrettuale le imprese sono prevalentemente PMI e solo poche tra esse hanno le dimensioni sufficienti per avviare progetti di nuovi insediamenti produttivi all’estero, soprattutto in paesi lontani come quelli asiatici. L’esperienza della delocalizzazione di alcune aree distrettuali italiane, soprattutto del Nord-Est, negli anni ’90 è stata principalmente di tipo “difensivo”, con insediamenti in paesi come la Romania e altri dell’Est europeo caratterizzati da più bassi costi di pro-

Parallelamente, l’isolamento, all’inizio fattore di coesione per il distretto e per la sua comunità di persone, diventa con il tempo un fattore fortemente penalizzante a seguito della crescita del numero delle imprese e delle dimensioni fisiche dell’at- tività manifatturiera. Aumentano, anche a causa dei cattivi collegamenti stradali e ferroviari, i costi e i tempi per il trasporto delle merci per arrivare ai porti e ai grandi centri metropolitani. Col passare degli anni i confini territoriali dei distretti industriali diventano più angusti man mano che crescono i volumi di produzione. Nei distretti industriali si producono ormai ogni anno milioni di metri quadrati di tessuti, legname lavorato, pelli conciate, piastrelle, scarpe, rubinetti, valvole, ma- niglie, oggetti di ferramenta ecc. Aumentano i problemi ambientali, la cui solu- zione richiede investimenti e costi aggiuntivi. Emerge negli ultimi anni anche una carenza di manodopera specializzata, mentre gli immigrati vengono sempre più impiegati nei lavori meno graditi. Nello stesso tempo, le comunità di immigrati extracomunitari pongono ai distretti problemi di ordine sociale in precedenza sco- nosciuti. Secondo alcuni studiosi anche la voglia di intraprendere caratteristica de- gli abitanti dei distretti sarebbe in parte scemata con la diffusione del benessere e con l’avvento delle nuove generazioni, meno motivate ed interessate rispetto a quelle dei nonni e dei padri alla vita di impresa. A tutti questi fattori si è aggiunta negli ultimi anni la crisi dei molti “terzisti” che tradizionalmente lavoravano nei distretti per quei clienti esteri che oggi si approvvigionano invece sempre più fre- quentemente nell’Est europeo o in Cina. Inoltre, alla fine degli anni ’90 il prezzo del petrolio (cruciale per un paese come il nostro, la cui produzione di energia

duzione in settori come il tessile-abbigliamento o le calzature. In questi settori, tuttavia, a distanza di po- chissimi anni i vantaggi competitivi inizialmente offerti dai paesi dell’Est europeo appaiono già oggi non più sufficienti se paragonati con i più bassi costi di produzione della Cina, per cui c’è chi si interroga sulla possibilità di reindirizzare verso questo paese le delocalizzazioni stesse. È del tutto evidente, peraltro, che per le PMI distrettuali del Nord Est la delocalizzazione in paesi come la Romania, la Slovenia o la Slovac- chia non presentato, a causa della prossimità geografica di tali paesi, difficoltà insormontabili. La deloca- lizzazione in un paese lontano come la Cina presenterebbe invece certamente maggiori rischi ed incognite. In generale è possibile dire che una equilibrata e moderata delocalizzazione possa assumere nei distretti italiani una valenza positiva, consentendo di ridurre, almeno nel breve termine, i costi delle imprese nelle produzioni di minor valore aggiunto. Sono tuttavia da valutare, in una prospettiva di più lungo periodo, anche i possibili svantaggi per i distretti, tra cui: un progressivo impoverimento dell’indotto locale (che, essendo composto in genere di PMI strutturalmente impossibilitate a seguire le imprese più grandi che delocalizzano, può entrare fortemente in crisi); una perdita progressiva di conoscenze e di personale quali- ficato del distretto; il rischio di trasferire il know-how produttivo ai nuovi paesi emergenti, che diventano quindi concorrenti ancor più pericolosi.

elettrica dipende per oltre i 2/3 dagli idrocarburi), dopo una lunga fase in cui era rimasto stabilmente sotto i 20 dollari al barile, ha cominciato a crescere in misura notevole (con un effetto di trascinamento anche sui prezzi del gas naturale), fa- cendo lievitare i costi di produzione delle imprese italiane, sempre più svantaggiate rispetto a quelle dei paesi concorrenti meno dipendenti di noi da petrolio e gas (grazie al nucleare e al carbone). Da ultimo l’entrata dell’Italia nell’Euro ha se- gnato la fine delle periodiche svalutazioni della lira, che nei decenni precedenti avevano rappresentato per le imprese una sorta di parziale forma di compensazione a fronte delle numerose inefficienze del “sistema paese”, dette in precedenza. In questo nuovo contesto, dominato dall’avvento della globalizzazione e dall’esplo- sione della concorrenza asimmetrica cinese, è stata avanzata da più parti la tesi che i fattori un tempo punti di forza dei distretti industriali italiani (la piccola dimen- sione delle imprese, l’ancoraggio al territorio e la vocazione essenzialmente espor- tatrice piuttosto che quella verso l’investimento produttivo negli altri paesi) pos- sano trasformarsi oggi in fattori strutturali di debolezza per il nostro sistema ma- nifatturiero. Nel corso della perdurante crisi dell’economia mondiale, ma soprat- tutto europea ed italiana, si è anche argomentato che i problemi attuali dell’Italia dipenderebbero soprattutto dal suo modello di specializzazione a cui si rimprove- rano essenzialmente due limiti: il non possedere un significativo numero di grandi imprese e il non essere presenti nei settori ad alta tecnologia a più rapida crescita. Tuttavia non può essere imputata particolare colpa al modello dei distretti e dei Made in Italy, se l’Italia ha vissuto negli anni recenti una profonda crisi della grande impresa e se ciò ha acuito la già marginale presenza del nostro paese nei settori ad alta tecnologia. Alla base di questi due elementi di debolezza del sistema produttivo italiano vi sono radici storiche e motivazioni per la cui trattazione non è questa la sede più adatta. Piuttosto sarebbe ragionevole riconoscere che a fronte di fallimenti in altri campi e settori, il nostro paese sia riuscito ad esprimere il miracolo del Made in Italy, che ha generato la maggior parte di quella ricchezza e di quelle risorse umane di cui dispone.

Detto ciò è innegabile, come la Confindustria ha più volte sottolineato negli ultimi anni, che l’Italia si trovi oggi a dover affrontare un serio problema di rallentamento

della crescita. Ed è assai probabile che i distretti italiani, le PMI e i settori classici del Made in Italy, pur costituendo una irrinunciabile e preziosa risorsa, possano in futuro non bastare più da soli per consentire al nostro paese di accrescere, o perlo- meno mantenere, il proprio livello di produzione e di benessere nel nuovo contesto competitivo mondiale. Occorre un maggiore sforzo per sostenere lo sviluppi di nuove attività produttive e terziarie dell’Italia nei settori a più alta intensità di tec- nologia e di conoscenza. Nello stesso tempo, come hanno sostenuto alcuni studiosi, sono necessarie politiche di accompagnamento dei distretti nel quadro dei processi di adattamento imposti dalla globalizzazione21.