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Rispetto al quadro evolutivo delineato, la situazione del Made in Italy sta notevol- mente cambiando. Attualmente le aziende italiane non sono in grado di competere con i costi del lavoro molto bassi dei paesi orientali o dell’Europa dell’Est. I pro- cessi di globalizzazione in corso hanno reso infatti i mercati più aperti e competi- tivi. Inoltre la crescente tendenza verso la concentrazione industriale tende a favo- rire i gruppi industriali di grandi dimensioni e con maggiori risorse a disposizione. Gruppi rispetto ai quali anche i nostri distretti, comunque meno potenti, eviden- ziano numerose difficoltà. Il Made in Italy si trova a dovere affrontare nuove im- portanti sfide. E la sua risposta non può che essere basata sulla costruzione di bar- riere simboliche in grado di attribuire valore ai prodotti, i quali sono in tal modo sottratti a un terreno di competizione sul prezzo che è estremamente rischioso. Per costruire tali barriere, fattori come la qualità e l’innovazione si collocano senz’al- tro al primissimo posto.

“La qualità è la prima arma del Made in Italy ma questa da sola non basta. Tutti ci copiano e migliorano il livello qualitativo, perciò l’obiettivo deve essere la conti- nua innovazione, una parola chiave ancora prima di creatività”.44

Da sottolineare comunque che se un prodotto può beneficiare dell’immagine posi- tiva di un paese, può certamente ricevere anche effetti negativi da un peggiora- mento dell’immagine di tale paese. E questo è senz’altro il caso dell’Italia, che da

diversi anni è entrata in una condizione di lento declino. Rispetto a questo pro- blema si può oggettivamente fare poco; troppo complesse sono le variabili che incidono sull’immagine di un paese, anche se diversi autori sostengono che persino entità molto grandi come le nazioni possono essere considerate marche e dunque gestite attivando apposite strategie.

È possibile però esercitare un’incisiva azione di tutela dei prodotti italiani, ad esempio contro la contraffazione di prodotti originali Made In Italy, contro la con- correnza sleale e quella sottocosto. Ma si può naturalmente anche intervenire cer- cando di affrontare quei rilievi critici che sono stati formulati nei confronti dei prodotti italiani; che certamente hanno aspetti di verità. Lo dimostra il fatto che le imprese straniere operanti nel nostro paese hanno mediamente una produttività del lavoro superiore del 50% rispetto alle aziende italiane.

Le imprese straniere operanti in Italia sono più efficienti principalmente perché investono di più e meglio sulla formazione dei loro dipendenti e sull’innovazione. Spesso le aziende italiane scelgono i dipendenti in base alla conoscenza personale e non in base alle competenze e non si preoccupano di curarne il talento. Ma, so- prattutto, si tratta generalmente di piccole aziende che non investono sull’innova- zione. Il risultato finale è che le aziende italiane offrono spesso sul mercato pro- dotti a basso contenuto tecnologico e d’immagine e non riescono pertanto a giusti- ficare e praticare prezzi elevati. Finiscono così per fare concorrenza alle aziende delle economie più povere, le quali però possono contare su un costo del lavoro notevolmente più basso e rendono quindi pressoché impossibile competere con i loro prodotti. Per poter uscire da questa situazione, è necessario, come detto, dare vita a potenti barriere simboliche che siano in grado di difendere i prodotti italiani e consentire alle imprese nazionali di praticare prezzi più alti. E tali barriere si possono costruire unendo le forze, facendo sì cioè che tutti, imprese e istituzioni, collaborino reciprocamente per raggiungere lo stesso obiettivo. Soprattutto inve- stendo in maniera significativa in ricerca e innovazione per consentire ai prodotti italiani di comunicare ancora quella creatività che tutti il mondo ci riconosce. Per- ché come ha ricordato Enzo Rullani (2009): “[…] in passato il Made in Italy è

investimenti in ricerca, sperimentazione, innovazione. Le imprese italiane, in molti campi, sono state beneficiarie di conoscenze altrui, ottenute comprando macchine e licenze a basso costo. Oppure, sono andate avanti usando l’ingegno personale dell’imprenditore, accoppiato alle conoscenze condivise/imitate nei distretti e a quelle ottenute come un sottoprodotto del fare. Insomma hanno fatto abbondante uso del “capitale sociale” (conoscenze e relazioni) disponibile sul territorio, senza necessariamente dover fare un investimento di qualche rilievo in capitale intellet- tuale. Lo stesso è successo per le reti di relazione con la fornitura e con i mercati di sbocco”.

Tutto ciò non è più sufficiente. Per ottenere risultati positivi è necessario investire maggiori risorse, ma soprattutto di deve avere una chiara visione strategica nei confronti di quella natura di tipo collaborativo e partecipativo che va sempre più assumendo il sistema economico mondiale. Natura rispetto alla quale la cultura italiana potrebbe essere in notevole sintonia grazie all’apertura relazionale che la caratterizza.

Eppure tale sintonia non sembra profilarsi all’orizzonte. È ancora Rullani a sotto- lineare che ciò avviene “non tanto per la piccola dimensione dell’impresa, ma per tutta una serie di altri fattori: estensione delle filiere e delle reti, natura tacita o informale (comunque poco replicabile) delle conoscenze possedute, scarsa ibrida- zione tra settori e luoghi diversi, livello ancora limitato delle professionalità interne all’azienda, a fianco dell’imprenditore”. Fattori che richiedono dunque al nostro paese un notevole sforzo individuale e collettivo. Vedremo se saremo in grado di compierlo.