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46 Alla mamma

Nel documento Lettere di suor Maria Troncatti (pagine 132-139)

Chiede notizie dei parenti e ricorda a tutti la fedeltà al precetto pasquale.

Invia fotografie di sei kivaretti suoi “figliocci”. Fra questi segnala José María, il “salvato”, di cui si prenderà cura, in qualità di madrina, per tutta la vita, a costo di sacrifici e preoccupazioni. Allega pure la foto della capanna che serve ogni domenica per la catechesi e quella della casa delle suore, che descrive

“bellina e comoda”.

Orig. aut. in AGFMA 28.6/122 (29)

[Macas], 24 febbraio 1940 Mia carissima mamma

Il vostro silenzio mi preoccupa assai. Siete forse ammalata?...

non so che pensare. Io grazie al buon Dio sto benissimo: ora mi affretto a inviarle i miei auguri delle Feste Pasquali. Imploro Gesù Risorto che la colmi di tutti i santi carismi.

Non voglio neanche dubitare che della mia famiglia lascino di compiere il Santo precetto Pasquale. Scrivetemi [e] ditemi come state della vostra salute. La mia cara mamma, tu mia caris-sima Catterina, il mio caro Giacomo, i suoi figli [e] la sua sposa, come se la passano; voglio sperare che i miei cari nipotini siano tutti il conforto del loro papà e mamma, nonna e zia nevvero!...

E la mia sempre ricordata Lucia come sta, poverina? Sempre la

penso; come stanno i suoi figli: Giovanni sta a Corteno... o a Brescia?

Datemi qualche notizia: se sapessero come mi fanno piacere le vostre notizie.

Ora vengo a farvi una visita con 6 miei jivaretti, sono tutti miei figliocci: vedete quel piccino che è col vestitino bianco con tre righe di fettucce nelle maniche e due nel colletto;147 a quel povero piccino hanno dato il veleno alla sua mamma, aveva pochi mesi il piccino e lo regalarono a me, è mio figlioccio:

molto vivace; già sa tutte le orazioni in castigliano, sa tutta l’Ave Maris Stella, è ben intonato. Tutte le volte che esco di casa mi dice: “Madrina mia, andrai adagio, vedrai di non scivolare”; è in un continuo bisticcio, non vuole che nessuno si avvicini. Dice:

“Io sono orfanello e mia Madrina è tutta mia!”. Che le sembra?

Ne abbiamo in casa 58 jivaretti e si educano bene.

Si ricorda, mamma, del suo figlioccio Giacomino? È già ben grandicello. Sempre mi dice: “Faccio sempre la Comunione per la mia mamma di Italia, vorrei che mi mandasse una giubba”; già ha 14 anni ed è alto. Quando possono potrebbero mandargli una giubba; potrebbero mandarla a Torino colla mia Direzione [indirizzo], alla prima occasione che vengono in Equatore qual-cuno me la manderebbero.

Buona Pasqua a tutti colla speranza di avere presto una vostra letterina.

Saluti cari alla mia cara mamma.

Vi mando una fotografia: una capanna dove andiamo tutte le domeniche a insegnare la Dottrina e a catechizzare i selvaggi, l’altra domenica è andato anche il Vescovo che è venuto a visita-re la Missione, Monsignor Domingo Comin.148 Un’altra è un gruppo di selvaggi della scuola che fanno ginnastica davanti alle autorità civili e a Monsignor Domingo Comin.

147Si tratta di José María Espédito (cf GRASSIANO, Selva 251; PENNA, Maria Troncatti 36), di cui si presenta anche la foto da adulto (cf GRASSIANO, Selva 293).

148Probabilmente si tratta di una delle fotografie pubblicate in GRASSIANO, Selva 171, oppure 190.

Quella casa che vedete è la nostra casa e il cortile interno della casa: la casa è bellina e comoda.

Saluti alla mamma e a tutti

sempre vostra figlia affez. Sr. Troncatti Maria

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Ai lettori della rivista Gioventù Missionaria

L’articolo intitolato: Le mie prime esperienze tra i Kivari si riferisce alla mis-sione di Macas, ed è scritto da suor Maria Troncatti. Ad esso sono allegate due significative fotografie.149

Non è escluso che il contenuto provenga da una lettera scritta alle superiore ma, come nei casi precedenti, non avendo la sicurezza, si indica: «Ai lettori della rivista Gioventù Missionaria».

Gioventù Missionaria 21 (1943) 1, 4-5. Le mie prime esperienze tra i Kivari

Ricordo: eravamo da pochi mesi a Macas, nella piccola e po -vera Casa-Missione che, non molto dissimile dalle altre capanne, si profilava al limitare della sconfinata foresta oscura e misterio-sa, presso il grande fiume Upano, di fronte alla mole gigantesca di Sangay, il vulcano più alto del mondo, col suo cratere a 5300 metri sul livello del mare. Ci sentivamo come sperdute in quel-le solitudini: lontane un mese di cammino dal centro ispettoria-le, circondate da ogni parte da indigeni fieri e nerboruti, ignare ancora della loro lingua e dei loro costumi, sprovviste di tutto,

149Foto 1: “La Missione tra i Kivari in marcia: frutti e speranze di domani”, presenta due missionari e due FMA in mezzo ad un gruppetto di fanciulle e ragaz-zi vestiti in abito di festa (in totale circa 30 persone) forse in occasione del Battesimo o della prima Comunione (cf Inserto fotografico, p 294). Foto 2:

“L’educa zione cristiana impartita dalle FMA alle fanciulle della foresta”, presenta una FMA seduta, con un libro aperto tra le mani, circondata da sei bambine in piedi che rivolgono i loro sguardi verso il libro.

oppresse dalla visione d’un lavoro immane, nuovo e difficile...

Ma in casa avevamo già due kivarette: le prime provenienti proprio dall’interno della selva, e affidate a noi dal missionario.

Erano le speranze e le promesse del nostro apostolato, il premio dei nostri sacrifici che ci avevano costato per intenerirle, vincere la nativa ritrosia e caparbietà, e assuefarle a poco a poco agli inizi della vita civile. Ogni loro progresso, benché minimo, segnava una conquista, un sorriso di luce per noi... Già incominciavano ad affezionarsi, e ci seguivano anche al mattino alla Messa, osser-vandoci con crescente curiosità mentre ci accostavamo alla S.

Comunione. Un giorno, all’uscire di chiesa, una di esse, la più intelligente, avvicinandosi mi disse: «Suora, anch’io voglio ricevere il tuo Dio nel “papiro” come l’hai ricevuto tu... Le Suore so -no sempre contente perché ricevo-no Dio nel “papiro”... anch’io voglio essere contenta come le Suore...». Vedendo l’ostia bianca immaginavano che fosse un pezzo di carta, ma sapevano, per averlo sentito da noi, che lì c’era il nostro Dio... Oh, il conforto di quella prima domanda; confermata via via dalla supplichevo-le insistenza: «Insegnami tutto, perché voglio conoscere il tuo Dio... non voglio morire Kivara...». Già le vedevamo cristiane, le nostre Kivarette, ferventi alla preghiera e alla Comu nione, dive-nire il nostro aiuto, le apostole dei loro fratelli... Quanti sogni su quelle testine brune e vivaci; e quante cure pazienti, amorevoli, instancabili...

* * *

Passò un anno; fra poco le due fanciulle sarebbero state pronte per il Battesimo; il sogno si sta realizzando...

Ma ecco una sera – una ben triste sera – mentre dormivamo nell’unico stambugio riservato per noi, fummo svegliate dal pianto d’una piccina, una nuova ospite che si era unita alle altre, nella stanzetta attigua. Accorremmo e trovammo con stupore i due lettini vuoti... La bimba ce li additava piangendo forte...

Dov’erano le nostre Kivarette?... Più coi gesti, che con l’incerto balbettare, alla fine la piccina riuscì a farci intendere che le due erano scappate dalla finestra lasciandola sola...

In un batter d’occhio, uscite fuori nella notte oscura

inco-minciammo le ricerche alla tremula luce d’una lanterna, che proiettava ombre lunghe e sinistre all’intorno. Col cuore in sus-sulto, girammo a destra e a sinistra. Nulla. Dalla foresta giunge-vano ululati paurosi, echi profondi e cupi ad accrescere il terro-re e l’angoscia di quell’ora. Cercammo da ogni lato fissando gli occhi nell’oscurità, protendendo l’orecchio per cogliere ogni fru-scio, quasi ogni respiro; e alla fine rinvenimmo le loro vestine, che indossavano con tanta gioia, buttate a terra come un inutile ingombro. Che cosa ne era mai dalle fanciulle? Cadute forse nelle mani di qualche Kivaro?... Maria Ausiliatrice, salvatele voi!

Oh, perché non avevamo avvertito la loro fuga?... Come ci rim-proveravamo il sonno pesante, causato dall’opprimente stan-chezza della giornata, e con quale ansietà avremmo voluto cor-rere a rintracciarle: ma dove?... Era troppo pericoloso avventu-rarsi così nella notte; e quindi, chiesto l’aiuto ad uno dei civiliz-zati, un buon cristiano assai pratico dei luoghi, e che abitava poco lontano da noi, ci ritirammo attendendo in preghiera l’au-rora... Venne alfine; e con la luce il conforto del ritrovamento...

Le due fuggitive erano state rinvenute addormentate in una specie di spelonca, alquanto discosta dall’abitato; ed ora erano lì, spaurite, scontrose, con uno sguardo senza luce di sorriso, come se anche il cuore se ne fosse andato lontano... Sgridarle?... No;

sarebbe stato peggio: del resto avevano già detto che era stato il fratello d’una di loro a indurle con mille promesse a fuggire; ma una sola domanda accorata e perfino tenera... «Perché scappate così?... Non vi abbiamo sempre voluto bene, trattate con ogni cura; non eravate voi stesse tanto contente di star qui con noi?...». «Sì, – rispose una freddamente – ma anche laggiù – e indicò lontano – si sta bene!... La foresta è tanto bella!...». Le guardammo con immensa pietà: erano svestite, scarmigliate, quasi nelle stesse condizioni di quando ce le avevano condotte un anno prima... Sentimmo un nodo di pianto salirci dal cuore;

ma alzati gli occhi al Crocifisso trovammo la forza di ripetere:

«Ebbene, ricominciamo!...».

Una Figlia di Maria Ausiliatrice Missionaria tra i Kivari

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Ai lettori della rivista Gioventù Missionaria

Siamo di fronte ad un altro articolo intitolato: Il diavolo e... l’acqua santa fir-mato da “Una Figlia di Maria Ausilitrice, Missionaria in Equatore” che è senza dubbio suor Maria Troncatti. L’autrice narra due episodi della vita mis-sionaria, in cui un ruolo decisivo ha la fede delle missionarie e l’uso dell’ac-qua benedetta nella realtà della foresta. Il primo caso attesta la fede consoli-data di una donna kivara, il secondo la fede ancora impaurita dalle antiche credenze nel potere della stregoneria. All’articolo è allegata una fotografia.150

Gioventù Missionaria 21 (1943) 7, 52.

Il diavolo e... l’acqua santa

Un giorno ci vennero ad avvertire che una donna cristiana, madre di sei figliuoli, e tra le più affezionate alla Missione, era ammalata e desiderava vederci. Accorremmo subito, e dopo parecchie ore di cammino, giungemmo alla capanna, ma la poveretta, senza moto e senza parola, dava appena qualche segno di vita per un lieve respiro quasi rantolante. Cercammo di riani-marla, prestandole i soccorsi del caso; tutto però fu inutile; per-sisteva sempre nel suo stato pietoso, immobile, con gli occhi chiusi e i denti inchiodati...

Davvero per noi c’era ormai ben poco da fare se non man-dar in fretta a chiamare il Missionario, perché potesse almeno darle un’ultima assoluzione prima di spirare. Ma che pena veder morire così, senza sacramenti, una delle nostre cristiane più fer-vorose... Continuammo perciò a pregare, sperando di poter cogliere su quel povero volto irrigidito una luce di conoscenza;

ma non vi si scorgeva che un pallore sempre più accentuato, sin-tomo certo della morte imminente. Intanto ci avvertirono che il Padre stava per giungere. Ancora in tempo, quindi: oh, se l’infe-lice avesse potuto confessarsi!

150La fotografia è intitolata: “Mons. Comin scagliona i suoi Missionari sulle rive di fiumi sconosciuti per la salvezza dei poveri selvaggi dell’Oriente Ecuado -riano”.

Seguendo un’intima ispirazione, una di noi prese l’acqua benedetta, di cui siamo sempre provviste nei nostri giri missio-nari, e ne versò goccia a goccia un cucchiaio fra i denti stretti della morente, che, con nostra sorpresa, la inghiottì. Poi, subito, come rianimata da una nuova vita, si scosse, aperse gli occhi, si pose a sedere sulla stuoia, e vedendo avanzarsi il sacerdote all’en-trata della capanna, esclamò con una voce sicura: «Oh, il Padre, il Padre!... Voglio confessarmi!...». Si confessò infatti senza diffi-coltà, ricevette l’assoluzione e tutta lieta, quasi non avesse avuto più alcun male, disse alla figlia maggiore: «Su presto, offri al Padre almeno un uovo e un po’ di arepita (zucchero greggio)...».

Ma in così dire, ricadde supina e spirò, mentre il Sacerdote le tracciava in fronte l’unzione con l’Olio santo.

Un’altra volta l’acqua benedetta ci venne in aiuto in un mo -do davvero singolare.

Un giovane cristiano, ritornato disgraziatamente alle antiche superstizioni idolatre, si trovava in fin di vita, senza che il Mis -sionario fosse riuscito, dopo ripetuti tentativi, ad avvicinarlo.

Cercammo di andarvi noi, pensando che fosse col pretesto di portargli qualche medicina, potevamo avere maggior fortuna, ma l’impresa era ben più difficile di quanto potevamo immagi-nare. Il disgraziato era in cura dallo stregone, uno dei più famo-si, il quale aveva già disposto tutti i suoi preparativi, drizzando le tende proprio all’entrata della capanna dell’infermo. Con aria spavalda, egli ci disse che nella notte aveva sognato la cura da farsi; e ci indicò, fra l’altro, un serpe vivo, di color verde, attor-cigliato a spirale, con cui avrebbe strofinato il corpo dell’infelice:

l’effetto sarebbe stato infallibile... E lo stregone ci fissava soddi-sfatto con occhi lampeggianti di vincitore, ma visto che passo passo tentavamo di entrare nell’interno presso l’ammalato, vi si oppose con forza, gridando che avremmo fatto andar a male la sua cura, e facendo accorrere quelli della famiglia, i quali inti-moriti ci dissero di allontanarci subito. Dovemmo quindi andar-cene, ma prima, senza lasciarci scorgere, versammo un po’ d’ac-qua benedetta accanto al trespolo che sosteneva il serpe intorpi-dito e tutte le altre stregonerie...

Nella notte successe un fatto strano: uno dei grossi pali di sostegno dell’improvvisata capanna, benché solidamente confic-cato al suolo, cadde proprio nel punto preciso in cui avevamo versato l’acqua santa, rovesciando ogni cosa, e colpendo in modo così violento lo stregone addormentato a terra, da spezzargli una costola. Il poveretto fu portato all’ambulatorio della Missione, smaniante di dolore e di sospetto, mentre tutto il prestigio della sua potenza era del pari crollato per incanto.

Sottratto così a quelle stregonerie, non fu allora difficile avvicinare il giovane infermo, il quale terrorizzato per quanto era av -venuto nella notte, acconsentì facilmente a ricevere il Sacerdo te; si confessò con vivo dolore e morì poco dopo da buon cristiano.

Una Figlia di Maria Ausiliatrice, Missionaria in Equatore

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Nel documento Lettere di suor Maria Troncatti (pagine 132-139)