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Modifiche al Testo Unico del Casellario Giudiziale

CAPITOLO II : LA LEGGE 67/2014 E L’ESTENSIONE DELLA

16. Modifiche al Testo Unico del Casellario Giudiziale

Al fine di rendere effettiva la disciplina della messa alla prova e consentirne l’accesso soltanto a coloro che posseggano realmente i requisiti previsti dalla legge, l’art.6 della legge n. 67/2014 prevede una modifica all’art.3 del Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di casellario giudiziale, di anagrafe delle sanzioni amministrative dipendenti da reato e dei relativi carichi pendenti di cui al d.P.R. 14 novembre 2002 n. 313. In particolare, all’art.3 del citato d.P.R. è inserita la lettera i-bis) in forza della quale al novero dei provvedimenti da iscrivere per estratto si aggiunge, per l’effetto, “l’ordinanza che ai sensi dell’art.464 quater c.p.p. dispone la sospensione del procedimento con messa alla prova”. In questo modo sarà consentito al giudice di verificare, in ogni momento, se l’imputato sia già stato ammesso, per fatto diverso, alla prova e, comunque, tale circostanza potrà essere valutata in via generale al fine di eventuali valutazioni in ordine alla personalità, al pericolo di reiterazione di reati, nonché alla possibilità di formulare prognosi favorevole, ad esempio in riferimento alla sospensione condizionale della pena324.

Con sentenza n. 231, depositata il 7 dicembre 2018, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità degli articoli 24 comma 1 e 25 comma 1 d.P.R. n. 313/2002 nella parte in cui, prima del D.lgs. 122/2018, imponevano di riportare nel certificato generale e in quello del casellario, richiesti dall’interessato, sia l’ordinanza di sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato sia, implicitamente, anche la sentenza che dichiara l’estinzione del reato per il buon esito della prova.

Due sono i parametri costituzionali che sono stati richiamati all’attenzione della Corte al fine di mettere in luce l’illegittimità della mancata inclusione, fra i provvedimenti che non devono essere menzionati nei certificati richiesti dall’interessato, dell’ordinanza di sospensione del processo ex art. 464 quater c.p.p. e della sentenza che

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dichiara estinto il reato ex art. 464 septies c.p.p.: si tratta del principio di uguaglianza (art. 3 Cost.), da un lato, e del “finalismo rieducativo” che deve impregnare tutto il sistema sanzionatorio penale (art. 27, comma 3, Cost.), dall’altro, ed è con riferimento ad entrambi che le censure formulate dai giudici a quibus sono state ritenute fondate325.

Secondo la Corte “è irragionevole e contrario al principio costituzionale della finalità rieducativa della pena che i provvedimenti sulla messa alla prova siano menzionati nei certificati penali richiesti dalla persona interessata: la menzione si risolve in un ostacolo al reinserimento sociale del soggetto che abbia ottenuto, e poi concluso con successo, la messa alla prova poiché può creargli più che prevedibili difficoltà nell’accesso a nuove opportunità lavorative”.

Inoltre, oltre ad ostacolare il pieno reinserimento sociale, “la menzione nel certificato finisce per contraddire la ragion d’essere della dichiarazione di estinzione del reato con cui si chiude il processo se la prova è positiva, che è l’esclusione di qualunque effetto pregiudizievole, anche in termini di reputazione, a carico dell’imputato”.

I giudici costituzionali danno atto che, nelle more del presente giudizio, è sopravvenuto il D.lgs. n. 122/2018, con cui il Governo ha provveduto a riformare, tra l’altro, anche le disposizioni oggetto delle censure, escludendo la menzione nel certificato unico di entrambi i provvedimenti concernenti la messa alla prova (art. 4, comma 1, lett. b) n. 5, che aggiunge le lettere m bis e m ter all’elenco dell’art. 24, comma 1, del Testo unico del casellario giudiziale):

l’esclusione della menzione di tali provvedimenti nel certificato del casellario giudiziale a richiesta dell’interessato, afferma ancora la Corte “persegue lo scopo di superare i dubbi di costituzionalità relativi alla disciplina previgente. Si legge, infatti, nella relazione illustrativa al d.lgs. n. 122/2018, in riferimento ai due menzionati provvedimenti sulla messa alla prova, che la decisione di razionalizzare il sistema delle iscrizioni e dell’oscuramento parziale di tali indicazioni nelle certificazioni

325 Così D. ALBANESE, Costituzionalmente illegittima la menzione dei provvedimenti sulla messa alla prova nei certificati del casellario richiesti dall’interessato in www.penalecontemporaneo.it

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rilasciate su richiesta dell’interessato è stata ispirata proprio dall’esigenza di superare le irragionevoli disparità di trattamento e la violazione del principio rieducativo della pena già denunciate da più autorità giurisdizionali alla Corte costituzionale”. Comunque, questa modifica legislativa “non impone la restituzione degli atti ai giudici remittenti, essendo essa ininfluente nei giudizi a quibus. Il decreto legislativo n. 122 del 2018 infatti, prevede che le disposizioni in esso contenute acquistano efficacia decorso un anno dalla data della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale”.

In definitiva, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 24, comma 1, e 25, comma 1, del d.P.R. 14 novembre 2002, n. 313 nel testo anteriore alle modifiche, non ancora efficaci, recate dal decreto legislativo 2 ottobre 2018, n. 122 nella parte in cui non prevedono che nel certificato generale e nel certificato penale del casellario giudiziale richiesti dall’interessato non siano riportate le iscrizioni dell’ordinanza di sospensione del processo con messa alla prova dell’imputato ai sensi dell’art. 464 quater c.p.p. e della sentenza che dichiara l’estinzione del reato ex art. 464 septies c.p.p.326

326 Vedi sul punto Corte cost. 7 dicembre 2018 n. 231 e Redazione Giurisprudenza Penale in www.giurisprudenzapenale.com

139 CONCLUSIONI

L’istituto della sospensione del processo con messa alla prova è stato introdotto, come detto, dalla legge 28 aprile 2014 n.67 che, contestualmente, ha dettato le direttive sulla cui base il D.lgs. 28/2015 ha introdotto, all’art.131 bis c.p., una particolare causa di non punibilità per la “particolare tenuità del fatto”.

Si tratta, invero, di due istituti pensati e calibrati in funzione delle peculiarità del processo penale minorile, “trapiantati” nel corpo dell’ordinario sistema penale, non senza, però, alcuni vistosi contraccolpi. L’occasione per una riflessione sulla probation viene data dalla sentenza 27 aprile 2018 n.91 con la quale la Corte costituzionale, dissolvendo i dubbi di legittimità costituzionale avanzati dai giudici di merito, tenta di assegnare un volto, costituzionalmente compatibile, ad un meccanismo di soluzione del processo che coinvolge anche l’esistenza del reato.

Un primo aspetto sul quale sembra opportuno svolgere qualche considerazione riguarda la profonda diversità che caratterizza la messa alla prova rispetto all’omonimo istituto previsto dal d.P.R. 448/88. Le disposizioni qui previste hanno inteso sottolineare il “coinvolgimento dei servizi per le opportune attività di osservazione, trattamento e sostengo, e rendono altresì possibile la prescrizione di attività dirette a riparare le conseguenze del reato e a promuovere la conciliazione del minore con la persona offesa”.

Venne in questo modo recepita e resa possibile la mediazione, istituto previsto dalla Raccomandazione 87/20 del Consiglio d’Europa, approvata dal Consiglio dei Ministri nella seduta del 17 settembre 1987, avente lo scopo di ricomporre il conflitto tra il minore offensore e la vittima e di responsabilizzare i giovani autori di reato.

Ne deriva la logica tutt’altro che “pattizia” dell’istituto, posto che la misura viene applicata dal giudice “sentite le parti”, con un provvedimento che può essere impugnato mediante ricorso per cassazione, e considerato che all’istituto non poteva, in origine, farsi

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ricorso laddove l’imputato avesse richiesto il giudizio immediato o quello abbreviato.

Quindi, l’”adesione” al programma si esprime attraverso non una “scelta attiva” ma semplicemente astenendosi dal porre in essere opzioni processuali che esplicitino la volontà di un giudizio di merito su fatto e responsabilità. Come affermato anche dalla Corte costituzionale nella sentenza 5 aprile 1995 n.125, il legislatore “non ha condizionato il provvedimento alla prestazione del consenso del minore, ma ha rimesso al giudice la decisione circa l’opportunità di sospendere il processo al fine di valutare la personalità del minore all’esito della prova, prescrivendo soltanto che tale decisione sia adottata sentite le parti”. Le peculiarità di questo metodo di definizione della regiudicanda collocano questo modello al di fuori del concetto tradizionale di procedimento speciale, attingendo, invece, alla natura dell’intervento esterno al processo, che infatti viene “sospeso”, e alla relativa decisione conclusiva, che incide, se favorevole, sulla esistenza stessa del reato. Metodo che presuppone, sul piano ontologico, un implicito giudizio di responsabilità penale. Si configura dunque un tendenziale superamento degli equilibri propri del sistema “misto”, cui si conforma il nostro sistema penale, evitando gli eccessi e i difetti propri dei modelli soggettivistici ed oggettivistici “puri”.

La personalità del minore e l’esigenza di tutelare una sua equilibrata evoluzione giocano dunque un ruolo preminente nel bilanciamento dei valori. E questo chiarisce perché la valutazione dell’esito positivo della prova non incide sul trattamento sanzionatorio, modificandone la durata o le modalità esecutive, ma sulla stessa essenza del reato, inducendo alla rinuncia alla persecuzione penale e alla pronuncia della condanna, nonché alla celebrazione stessa del processo. Non sono, dunque, un procedimento alternativo, ma un modulo processual-sostanziale alternativo di definizione della res iudicanda.

Presupposto implicito dell’istituto è l’accertamento della responsabilità penale del minorenne, altrimenti l’intero ordito delle finalità “recuperatorie” e gli spazi di una ipotetica mediazione risulterebbero del tutto eccentrici e frustranti: non è infatti possibile mettere alla prova

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l’innocente, l’incapace di intendere e di volere o la persona che, per qualunque causa, debba prosciogliersi o della quale allo stato non risulti ragionevolmente provata la responsabilità327.

Anche sul piano soggettivo, non si può ritenere sufficiente, ai fini dello scrutinio sul fatto e sulla sua antigiuridicità, un sindacato di mera sussistenza del fumus. In giurisprudenza si ritiene che ai fini della concessione della misura il giudice deve rivolgere la sua indagine alla ricerca di elementi che consentano di valutare se sia adeguato il ricorso all’istituto al fine della rieducazione e del positivo reinserimento nella società del minore, elementi che devono essere individuati nel tipo di reato commesso, nelle modalità di attuazione dello stesso, nei motivi a delinquere, nei precedenti penali del soggetto, nella sua personalità, nel suo carattere e in quanto altro utile per il raggiungimento di questo giudizio328.

La messa alla prova per maggiorenni nasce invece come una precisa scelta dell’imputato, scelta che è da subito inquadrata come un diritto proprio dell’imputato, strettamente collegato al suo fondamentale diritto di difesa. Ed è questa la lettura data anche dalla Corte costituzionale, che nella sentenza 6 luglio 2016 n.201329 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art.460 comma 1 lett.e) c.p.p. nella parte in cui non prevedeva che il decreto penale di condanna contenesse l’avviso della facoltà dell’imputato di richiedere, mediante l’opposizione, la sospensione del procedimento con messa alla prova: la Corte rilevò come l’istituto ha effetti sostanziali, perché dà luogo all’estinzione del reato, ma è altresì connotato da una intrinseca dimensione processuale, in quanto consiste in un nuovo procedimento speciale, alternativo al giudizio, nel corso del quale il giudice, con ordinanza, decide sulla richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova.

Sul versante processuale, non c’è dubbio che il legislatore abbia inteso iscrivere il nuovo istituto nel novero dei procedimenti speciali, dal

327 In questi termini S. DI NUOVO – G. GRASSO, Diritto e procedura penale minorile. Profili giuridici, psicologici e sociali, Giuffrè, Milano, 2005 pag.343 328 Così Cassaz., Sez. I, n.5399 del 23/03/1990 in www.cortedicassazione.it 329 In www.giurcost.org

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momento che, al di là della scelta sistematica, l’ammissione alla prova comporta di per sé la sospensione del procedimento: pertanto, tra segmento temporale dedicato allo svolgimento della prova e processo, corre un rapporto di alternatività. Il punto è, tuttavia, la natura di questo segmento, in cui si sperimenta e si effettua la prova, verso “dove” tenda l’esperimento, quale sia il rapporto tra questo esperimento ed il reato e, infine, che cosa determini l’estinzione del reato.

Con la sentenza del 91/2018 la Consulta non ha fornito una risposta in chiave definitiva: il primo aspetto su cui il giudice delle leggi si è soffermato è la indeterminata natura (sostanziale) della messa alla prova. Occorreva dare una risposta al quesito riguardante la compatibilità dell’istituto con la presunzione di non colpevolezza ex art.27 comma 2 Cost., posto che, ad avviso del giudice a quo, le disposizioni oggetto di censura prevedrebbero la irrogazione e la espiazione di sanzioni penali senza che risulti pronunciata una condanna definitiva o anche non definitiva. Secondo la Corte, se è vero che nel procedimento in esame manca una condanna, è anche vero che, correlativamente, manca una attribuzione di colpevolezza: nei confronti dell’imputato, e su sua richiesta, in difetto di un formale accertamento di responsabilità, viene disposto un trattamento alternativo alla pena che sarebbe applicata in caso di una eventuale condanna. Da qui l’evocazione della applicazione della pena su richiesta delle parti, al punto di affermare che sarebbe stato sufficiente richiamare gli argomenti già utilizzati per decidere la questione relativa al patteggiamento, salvo poi affermare che altri e assai consistenti argomenti orientano in tal senso, mettendo in luce come messa alla prova e patteggiamento, a parte la comune base consensuale, non presentano altri aspetti simili: il patteggiamento, infatti, è equiparato ad una sentenza di condanna, che può ben costituire titolo per l’esecuzione della pena. La circostanza poi che la sentenza di patteggiamento possa determinare, in caso di mancata commissione di reati nel termine prescritto, l’estinzione del reato e di ogni effetto penale, avvalora la natura di “pena” di ciò che la sentenza di patteggiamento “applica” e di “reato” di quanto ne costituisce l’oggetto. Ben diversa è invece la natura della messa alla prova: la sentenza della Consulta, nel

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riportare una passo della sentenza Sorcinelli (Cassaz., Sez. Un., 31 marzo 2016 n.36272 in www.cortedicassazione.it) puntualizza che la nuova figura realizza una rinuncia statale alla potestà punitiva condizionata al buon esito di un periodo di prova controllata ed assistita e si connota per una accentuata dimensione processuale, che la colloca nell’ambito dei procedimenti alternativi al giudizio. Ma di essa deve essere riconosciuta la natura sostanziale: quindi, da un lato, si è in presenza di un nuovo rito speciale, in cui l’imputato che rinuncia al processo ordinario trova il vantaggio di un trattamento sanzionatorio non definitivo, e dall’altro un istituto che persegue scopi specialpreventivi in una fase anticipata, in cui viene “infranta” la sequenza cognizione- esecuzione della pena in funzione del raggiungimento della risocializzazione del soggetto. Ma mentre le Sezioni Unite fanno riferimento ad un “trattamento sanzionatorio non definitivo”, la Corte costituzionale è più drastica sul punto, affermando come il trattamento programmato non è una sanzione penale, eseguibile coattivamente, ma dà luogo ad una attività rimessa alla spontanea osservanza delle prescrizioni da parte dell’imputato, il quale può liberamente farla cessare con l’unica conseguenza che il processo riprenderà il suo corso. Il primo punto di criticità nella sentenza della Consulta è rappresentato dal fatto che tutto ciò che integra il contenuto necessario della misura a norma degli artt.168 bis e 168 ter c.p. non costituisce “pena” in senso giuridico. Tutto si gioca invece sul versante della riabilitazione e della rieducazione della persona che, volontariamente, vi si sottopone. Ad avviso della Corte, il trattamento è caratterizzato da una finalità specialpreventiva e risocializzante che deve perseguire e deve perciò essere ampiamente modulabile, tenendo conto della personalità dell’imputato e dei reati che costituiscono oggetto di imputazione. La normativa sulla messa alla prova comporta una diversificazione dei contenuti, del programma di trattamento, con l’affidamento al giudice di un giudizio sulla idoneità del programma, quindi sui suoi contenuti, comprensivi sia della parte “afflittiva” che di quella “rieducativa”, in una valutazione complessiva circa la rispondenza del trattamento alle

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esigenze del caso concreto, che presuppone una prognosi di non recidiva330.

Ma la funzione di rieducazione, se viene affidata al giudice penale, presuppone, per sua natura e per dettato costituzionale, un reato ed una “pena” o comunque un “trattamento penale” volto a realizzarla, altrimenti il tema non richiederebbe neppure l’intervento della giurisdizione. In sostanza o le misure risarcitorie e riparatorie e le altre di cui all’art.168 bis c.p. sono adottate in sede penale presupponendo un reato ed un reo o la misura non ha ragion d’essere.

L’assunto secondo il quale la messa alla prova non presuppone la responsabilità e l’antigiuridicità del fatto, sia pure “allo stato degli atti” equivale ad una negazione della premessa su cui può fondarsi la tollerabilità costituzionale dell’istituto e, soprattutto, giustificarsi l’effetto estintivo che deriva dall’esito positivo della prova: se non si postula la responsabilità, infatti, l’oggetto stesso della estinzione viene ad assumere i connotati di una entità diafana, che eliderebbe la possibilità giuridica di concepire un quid in funzione rieducativa. Mancando, infatti, il termine iniziale reato-reo e quello finale, ossia la pena, la rieducazione finirebbe per atteggiarsi alla stregua di un momento terminativo di un percorso che utilizza la persona come uno strumento di politica criminale, ponendosi in netto contrasto con il canone di necessaria offensività del fatto.

Occorrerebbe dunque procedere ad una diversa ricostruzione del perimetro entro il quale collocare l’istituto. E qui iniziano le difficoltà dovute alla moltitudine di regole processuali e sostanziali, che hanno reso ambigua la linea di demarcazione dei concetti e del regime degli effetti che ne devono scaturire.

Occorre partire dall’assunto che la sospensione del processo con messa alla prova è stata collocata dal legislatore tra le cause di estinzione del reato subito dopo la disciplina della sospensione condizionale della pena, la cui natura e funzione rieducativa consente di tracciare diverse analogie rispetto al probation. Il nucleo comune è dato dall’espletamento di un

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percorso di emenda, da un esperimento di ravvedimento e rieducazione in executivis, con sospensione della relativa fase, a cui si giustappone una sua “anticipazione” alla sede processuale, parimenti “sospesa”. In entrambi i casi, sussistenza del reato e responsabilità dell’imputato sono ontologicamente presupposti.

Non è dunque il richiamo alla insussistenza dei presupposti per l’immediato proscioglimento ex art.129 c.p.p. a costituire indice di quel presupposto, quanto invece lo stesso sistema delineato dal legislatore in sede di diritto penale sostanziale, altrimenti non avrebbe senso la declaratoria di estinzione del reato che consegue all’esito positivo della prova ex art.168 ter c.p. Ma è anche la disciplina processuale a fornire un indice in questo senso al comma 3 dell’art.464 quater c.p.p., quando, nell’enunciare i presupposti di ammissione alla prova, menziona la condizione che il giudice ritenga che l’imputato si asterrà dal commettere “ulteriori reati”: la richiesta deve dunque equivalere ad un sostanziale nolo contendere sui termini dell’accusa e di esenzione dall’obbligo di una pronuncia che accerti fatto e responsabilità. La factual basis si cristallizza allo stato degli atti, orientando la messa alla prova verso i confini di una misura alternativa ad una sentenza di condanna, sempre allo stato degli atti. Solo così quella locuzione “ulteriori reati” può andare esente da censure sul piano della presunzione di non colpevolezza.

I profili “rivoluzionari” dell’istituto e i suoi connotati fortemente ambigui, a metà tra istanze depenalizzanti e metodi riabilitativi surrogatori del processo e della pena, finiscono per stemperarsi in una prospettiva antiformalista di rinuncia alla punizione, in vista dell’intervenuto recupero del soggetto, secondo una logica di sopravvenuta superfluità del processo e della pena.

Meno condivisibile appare poi la scelta operata dalle Sezioni unite nella sentenza Sorcinelli, dove viene affermato il principio in forza del quale, ai fini dell’applicazione dei reati ai quali è astrattamente applicabile l’istituto in esame, il richiamo di cui all’art.168 bis c.p. alla pena edittale detentiva non superiore nel massimo a quattro anni va riferito alla pena massima prevista per la fattispecie-base, non assumendo a tal fine alcun

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rilievo le circostanze aggravanti, comprese quelle ad effetto speciale e quelle per cui la legge stabilisce una specie di pena diversa da quella ordinaria del reato. È da condividere comunque l’assunto per cui intenzione del legislatore fosse quella di ampliare la portata dell’istituto, evitando che le circostanze aggravanti potessero influire negativamente, restringendo, in maniera anche consistente, la portata del limite edittale