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NUOVE ISTITUZIONI DI CREDITO FINANZIARIO

7.4 RIFORMARE LE ISTITUZIONI INTERNAZIONALI MONETARIE

7.4.1 NUOVE ISTITUZIONI DI CREDITO FINANZIARIO

Le nuove forme di cooperazione di paterniariato, le rimesse degli immigrati, gli scambi commerciali e finanziari a livello bilaterale, regionale, stanno creando delle istituzioni monetarie che in parte si candidano a sostituire o affiancare l’attività del FMI.

La proposta della creazione di un fondo monetario asiatico potrebbe essere estesa anche all’Africa.

Le enormi risorse finanziarie che i singoli paesi africani ricevono dalla vendita delle loro ricchezze naturali, invece di essere dissipate da poteri corrotti oligarchici in combutta con le multinazionali, potrebbero essere versate in questa banca, gestita da dei garanti, a cui i paesi o i privati cittadini possono accedere per le proprie necessità. Potrebbe essere istituita una Borsa nei PVS dove i cittadini del mondo, più sensibili alle problematiche di questi Paesi, acquisterebbero quote anche minime di piccole aziende locali, che non possono accedere ai finanziamenti bancari per mancanza di garanzie.

Il piccolo finanziamento del risparmiatore dei Paesi avanzati, permetterebbe uno sviluppo a piccole realtà locali, prospettando a questo investitore un guadagno.

Sarebbe forse un modo nuovo di collaborazione allo sviluppo paritario. Il bene massimo può essere raggiunto con attività combinate, con sforzi riuniti e volenterosi della comunità nel suo insieme. Non sforzi sproporzionati ma piccole gemme che hanno come profumola Pace.

“Secondo l’impostazione di Harrold – Domar il tasso di crescita di un Paese dipende dalla propensione al risparmio e dal rapporto capitale/prodotto”208.

In conformità a questi assunti si rileva che un maggiore risparmio, se interamente investito, crea un tasso di crescita più elevato.

Per i PVS i risparmi sono caratterizzati principalmente dagli aiuti internazionali che a loro volta i Paesi riceventi dovranno restituire. Una forma concreta e completamente autoctona di aumentare i risparmi sarebbe quella di gestire ed indirizzare all’investimento nei Paesi degli immigrati, le risorse finanziarie che questi inviano, in vari modi, alle proprie famiglie nei Paesi residenti.

Il risparmio che singolarmente il lavoratore extracomunitario spedisce alla sua famiglia, viene investito da questa in piccole singole attività, che rimangono nel ristretto cerchio della propria parentela, perché l’entità della somma inviata è tale da non consentire grossi investimenti.

“Bisognerebbe, invece, creare nei Paesi di origine un “credito a rotazione”, con il quale consentire agli eventuali aspiranti imprenditori, dove poter trovare il riferimento dei capitali. Questa forma di prestito è una caratteristica delle associazioni di immigrati, che grazie alla fiducia interna, mobilita risorse etniche permettendo iniziative imprenditoriali”209.

Il credito a rotazione potrebbe essere trasferito in quei paesi in cui giungono le rimesse degli immigrati, creando sportelli di Banche Etiche sia nei Paesi dove gli extracomunitari sono ospiti, in cui possono depositare i loro risparmi, sia nei Paesi di origine dove queste riserve potrebbero essere utilizzate dai vari richiedenti su presentazione di progetti imprenditoriali.

Queste iniziative dovranno essere esaminate da un collegio di persone comprendente sia risparmiatori che prestatori, e il rappresentante dei richiedenti. La commissione potrebbe assumere la figura di quella greca dell’agoranomos che aveva il compito di sorvegliare la legittimità del mercato.

La Banca Etica, pur assumendo un carattere transazionale, sarebbe in grado sia di gestire piccoli risparmi, sia di imprestare somme di denaro di entità minima, che le altre Banche non fanno.

In questo modo, il locale avrebbe la possibilità di iniziare un’attività fino ad allora preclusa.

Questa visione del piccolo è bello in contrapposizione dell’idolatria del gigantismo va verso il soddisfacimento dell’accesso ai consumi minimi che alzano il livello di reddito dei più poveri, facendo loro i protagonisti del loro sviluppo eliminando le disuguaglianze.

Tutte le concezioni economiche, che avevano come finalità la lotta alla povertà, nella loro visione globale hanno fallito.

La globalizzazione stessa, ultima prassi economica che aveva l’intento di eliminare le disuguaglianze, ha avuto come risultato invece quello di aumentarla.

Non è invece arrivato il momento di non pensare solo allo sviluppo economico come concetto puro e semplice materiale, ma a considerare l’uomo universalmente, come lo definisce Amartya Sen, capabilities (mettere in grado di essere capace), “ovvero l’importanza delle risorse e degli apporti istituzionali per dare a tutti e a ciascuno le stesse capacità di crescere e fare quel che ciascuna persona può davvero essere e fare: di essere liberi dalla fame, dalla malnutrizione, di partecipare alla vita politica e culturale del proprio Paese, di viaggiare, di frequentare persone e amici, di seguire le proprie vocazioni”210.

Questo concetto di vita si può conquistare, anche, con un modello diverso di aiuto allo sviluppo, non più basato sulla logica “in termine di quantità di mezzi piuttosto che di qualità di fini”, ma basato sulla reciprocità: io aiuto te, tu aiuti me, chiedendo ai paesi più avanzati di divenire donatori, di consigli per lo sviluppo nei confronti dei Paesi più poveri.

Dice Galtung, “al verbo transitivo, dopo il verbo riflessivo è il verbo reciproco, cioè confrontarsi dialogicamente tra uguali su problemi comuni, sui bambini, sugli

anziani, sui malati e sull’alienazione in generale”211.

In questo senso, lo sviluppo crea un uomo ontologico con le sue necessità e capacità di ridere, giocare, crearsi divertimenti, immaginare, vivere con gli animali e dentro la natura, soffrire, desiderare, pensare, cercarsi il senso ultimo della vita. Un uomo cioè capace di amare.

Ma cosa è l’utopia? Galtung definisce utopico “quello che cerchiamo di raggiungere, ma non è ancora realizzato. Utopistico, invece, è quell’atteggiamento che immagina una società bella, molto distante dal mondo reale ma non raggiungibile”212.

Il compito, irrinunciabile, del XXI secolo sarà quello di rendere utopico l’utopistico, andando verso il dialogo, l’aiuto reciproco, alla politica del mondo reale fatta di tante piccole cose, che non sono la somma delle necessità individuali, ma che rappresentano l’unità umana universale nella sua interezza, una Umma umanista.

Possiamo costruire un mondo migliore? Dopo questa lunga dissertazione sull’umanesimo della globalizzazione, bisogna chiederci se questa è

utopia.

(Vincenzo Valtriani)

211 J. Galtung - op cit. pag 321

CAPITOLO VIII

VERSO UN NUOVO NEW DEAL (LA GLOBALIZZAZIONE DESIDERATA)

“Anima mia, canta e cammina. Anche tu, o fratello di chissà quale fede, oppure tu, uomo di nessuna fede. Camminiamo insieme, e l’arida valle si metterà a fiorire. Qualcuno, colui che tutti cerchiamo, ci camminerà accanto”.

8.1 IL NEW DEAL AVEVA RAGIONE

La disuguaglianza ha radici antiche; Paul Krugman nel suo libro La coscienza di un liberal213, ci descrive molto bene l’iniquità della distinzione del reddito

dell’America dei primi anni Venti.

Nell’età del Jazz Age, il numero dei miliardari, cioè coloro che possiedono ricchezze maggiori del prodotto annuo di ventimila lavoratori americani medi (oggi circa due miliardi di dollari), erano 22 nel 1900, per salire a 32 nel 1925.

Questa grande concentrazione di ricchezza nelle mani di poche persone era dovuta alla debole posizione contrattuale della forza lavoro.

I grandi imprenditori furono liberi di stabilire i salari e le condizioni operative, sulla base di qualsiasi cosa il mercato del lavoro fosse in grado di sopportare, con scarso timore dell’opposizione organizzata.

Alla fine degni anni Venti, molti lavoratori americani vivevano ancora in condizioni di estrema povertà. Mancavano politiche pubbliche in materia di redistribuzione del reddito: i governi non offrivano programmi di politica sociale.

L’economia era affidata al libero mercato e alla sua legge: lo Stato era il grande assente nella gestione della stessa. Errori poi che saranno ancora perseguiti con la globalizzazione.

Roosevelt, per vincere la grande crisi del ’29, da Presidente degli Stati Uniti, intervenne invece pesantemente nelle questioni economiche, e anticipando Keynes caldeggiò una spesa in disavanzo per sostenere l’economia durante la recessione.

Con il suo programma politico, il New Deal, gettò le basi per creare quell’azione sociale atta ad eliminare la povertà e a migliorare le condizioni di vita degli americani.

Con Franklin Delano Roosevelt il governo divenne il patrocinatore del diritto dei lavoratori di organizzarsi ; intervenne con apporti massicci nell’economia; ci fu un’enorme espansione della spesa federale, compresa quella, altamente discrezionale dell’Ufficio governativo per l’esecuzione delle opere pubbliche.

“La probità del New Deal non era dovuta al caso, ma venne creata una potente divisione di richiesta incaricata di condurre accertamenti sulle denunce di atti illeciti”214

.

L’ingerenza dello Stato, non avvenne solo sul piano economico, ma anche sui diritti civili come l’emancipazione del diritto di voto, la disgregazione razziale, garantendo la previdenza sociale, l’indennità di disoccupazione.

Questo controllo dello Stato, non solo economico ma anche morale, durò negli Stati Uniti sino agli anni ’80, quando con Reagan la politica del libero mercato ritornò ad essere linea guida per l’America.