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L’ONU COME FOCOLAIO UNIVERSALE

L’ONU come centro del mondo, nel cui seno tutti gli elementi della Terra vengono a contatto, per mezzo di ciò che in essi vi è di più profondo e umano. Varie realtà umane che incontrandosi perdono la reciproca esteriorità ed incoerenza, che determinano la sofferenza fondamentale delle relazioni umane.

ONU come incontro di relazioni mondiali i cui sforzi indirizzati alla pace, trovino in esso l’ambiente per unificarsi senza premigetura basata sulla forza, cioè una pace non basata sulla minaccia credibile dell’aggressore, ma sulla difesa credibile dell’aggredito potenziale. “Ci aspetteremo che i vietnamiti non siano tanto interessati alle confessioni di colpevolezza fino a quando l’altra parte non insista sull’essere non colpevole, e siano molto interessati a partecipare ad un dialogo per esaminare cosa sia andato male e come potrebbero essere migliorate le relazioni. Senza dubbio un dialogo di tal genere sarebbe condotto in termini secolari dai Vietnamiti, facendo riferimento alla imperscrutabile saggezza orientale, “imperscrutabile solo per coloro che mancano di scrutare”195.

Se la regola indicata sopra fosse rispettata, tutto questo avverrebbe senza alcuna espressione di rancore, con sorrisi. Gli ingredienti fondamentali restano gli stessi: molto dialogo interno (conosciuto anche come meditazione) e molto dialogo esterno.

Questa organizzazione mondiale di Stati deve trasformarsi in un villaggio globale

194 Pierre Teillhard “Il fenomeno umano” Queriman 2008

che faciliti la presenza e la partecipazione di tutti gli abitanti della Terra alle vicende delle umanità.

Luogo in cui il dialogo universale sia la fonte principale del diritto, e il sistema politico di governo “Boltanski suggerisce che il sistema politico auspicato possa assumere solo la forma della comunità estetica di Kant, che vuol dire una comunità costruita sulla condivisione dei gusti e basata sul fedele e reciprocamente rinforzato e riconfermato impegno dei suoi componenti.

Il cammino verso tale comunità, può passare soltanto attraverso il discorso impegnato, dialogico nelle sue intenzioni, diretto fin dall’inizio e durante tutto lo sviluppo successivo all’approvazione di corollari quali è stato indirizzato: per dimostrare che il tema del discorso è degno di approvazione”196.

Quindi dialogo costante, tra culture diverse, sui diritti, che se anche non sono, come più volte detto, elencabili, tuttavia rappresentano espressione maggiore del progetto illuministico cioè “l’emancipazione dell’uomo, da ogni forma di schiavitù, dai pregiudizi e dall’ignoranza”.

Dialogo che abbia come epitome il diritto internazionale rivolto più agli uomini che agli stati.

L’ONU di oggi non va in questo senso. Scrive Bobbio “che questa istituzione internazionale è basata su un pactum societatis, e non verso un pactum subjectionis e cioè la sottomissione degli Stati contraenti a un potere comune cui spetti l’esclusività dell’esercizio del potere coattivo”197

.

Asserisce il filosofo torinese che non è nato quel superstato che avrebbe garantito quella forma di convivenza le cui caratteristiche fondamentali sono il potere sovrano e il monopolio della forza legittimata.

Quel processo democratico, che forse era nella mente dei fondatori dell’ONU,

196 “Globalizzazione – Comunicazione - Tradizione” San Paolo op cit. pag. 37

rimarrà incompiuto fino a che le garanzie dei diritti dell’uomo si arrestano alla soglia del potere sovrano dei singoli stati. Ricordando, dice Bobbio “che all’assemblea si affianca il Consiglio di Sicurezza in cui è riservato ad ognuno dei cinque membri permanenti il diritto di veto”198.

Rimanendo il concetto della non interferenza interna dei singoli Stati si privilegia il diniego all’opporsi a che il male venga fatto all’interno di quelle entità statali che sono membri dell’ONU.

L’incapacità degli enti internazionali ad intervenire per reprimere atti di genocidio fu efficacemente espressa dal presidente dell’Uganda nel discorso che tenne il 29 settembre 1979, all’Assemblea Generale dell’ONU.

Egli usò queste parole: “Il nostro popolo guardava alle Nazioni Unite per avere solidarietà e aiuto nella sua lotta contro le dittature fasciste. Per otto anni esso ha guidato nel deserto chiedendo aiuto: purtroppo le nostre grida sembravano cadere su orecchie sorde. Nel frattempo, il regime di Idi Amen continuava impunemente a perpetrare atti di genocidio”199.

In questo modo il comune dialogo tra uomini si interrompe e prevale invece quello degli interessi superiori delle Nazioni: la non interferenza nelle proprie questioni interne, anche se riguardano la questione dei diritti umani. Mentre il dialogo può opporsi alla logica Hobbesiana bellum omnium contra omnes, l’interesse del singolo Stato può diventare causa di sofferenza sociale interno ad esso.

In questo caso l’ONU rimane spettatore, può analizzare l’assenza di resistenze ma non si può opporre al male, e in questa veste di non solo spettatore ma perpetratore.

“Distinguere tra spettatori e perpetratori può avere un senso dal punto di vista legale. Infatti sottolineare la distinzione significa mettere in luce la differenza fondamentale tra azioni perseguibili e azioni (o inazione) non menzionate nel codice

198 D. Zolo “L’alito della libertà” Feltrinelli 2008, pag. 93

legale e quindi possono incorrere “soltanto nella colpevolezza morale e nell’infamia a cui tale colpevolezza riporta”200

.

Se invece della condanna morale dell’atto criminoso, avvenuto in qualche Stato ad opera dei governanti, si potesse opporre l’autorità alla lettura della legge, allora l’ONU, o meglio l’uomo globale, diverrebbe da spettatore ad attore.

La differenza tra fare il male e il non opporsi al male, cioè tra quello che dice la legge e quello che essa tace, è difficile percepirla; ma come si legge nel volume citato:

“Richiede un enorme sforzo distinguere le due categorie. Necessita ancora uno sforzo maggiore riportarle insieme”201.

Cioè creare un territorio nel quale le due affinità, i perpetratori del male ed i testimoni passivi si incontrino.

Cohen chiama questo territorio diniego (denial) che è, secondo l’autore, la risposta alla fantasiosa domanda: “Come ci comportiamo rispetto alle conoscenze del dolore altrui, e cosa ci procura tale conoscenza?”. L’autore sottolinea che questa domanda se la pongono le genti che i governi o le organizzazioni internazionali, ogni qualvolta sono testimoni di fatti disturbanti, minacciosi o anormale per essere pienamente assorbita o apertamente riconoscente. Per cui l’informazione viene repressa, sconfessata, messa da parte o reinterpretata.

“Non c’era nulla che potessi fare al di fuori di quello che ho fatto”, e questo dato è preso come cosa scontata. Non si può, invece, intravedere in questo atteggiamento, una omissione alla assoluta solidarietà umana, alla incondizionalità dell’umana responsabilità verso l’altro?”202

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200 “Globalizzazione – Comunicazione - Tradizione” San Paolo op cit. pag. 14

201 “Globalizzazione – Comunicazione - Tradizione” San Paolo op cit. pag. 15

Anche perché, non vi è alcuna azione umana che, fin quanto localmente circoscritta e confinata, sia sicuramente priva di conseguenze per tutto il resto del genere umano.

Oggi nel mondo della globalizzazione, dove il battito d’ali di una farfalla in Brasile può scatenare un tornado in Texas bisogna chiedersi oggi, nel mondo in cui ci sono sempre più avvenimenti che gridano vendetta, e richiedono rimedi, se si può ancora ritenere valido l’Articolo 2 par.7 della Carta delle Nazioni Unite.

Di fronte alle atrocità e agli orrori che vengono compiuti, e ai quali non possiamo dire non sapevamo, l’umanità non può rimanere indifferente. Il rapporto comunitario non è più ristretto al nostro confinante, la nostra pacifica convivenza non si limita solo al rapporto di buon vicinato. Le relazioni umane, oggi, ormai abbracciano l’intera umanità, che non limita al presente ma comprende anche quelli che verranno con le proprie necessità e nuovi diritti umani.

Questa intera popolazione della Terra, umana, animale, vegetale, materiale, ha bisogno di un nuovo governo, universale: quello che Held definisce “l’ordine mondiale cosmopolitico”203

, il cui obiettivo è ricondurre il potere sotto un controllo democratico.

Creare cioè uno status politico dei cittadini del mondo così che essi non appartengano all’organizzazione mondiale semplicemente attraverso il loro essere membri di uno Stato particolare, ma siano anche rappresentati da un parlamento mondiale da loro eletto (Galtung proponeva un eletto ogni milione di abitanti).

Una organizzazione statuale, come la intuisce Beck, glocale, in cui gli Stati transazionali siano concepiti come province della società mondiale e che tra loro cooperano. Un orizzonte contraddistinto dalla multidimensionalità e non dalla integrazione, ma da identità e legami sociali e politici che si sovrappongono pensando a progetti di riferimento d’azione globale, regionali e locali.

Per Beck, quindi, si tratta di dar vita ad uno “Stato sovranazionale a sovranità

inclusiva, statualità in cui vengono salvaguardate le diversità, che è il modo più concreto ed efficiente di combattere quel tragico aumento delle disuguaglianze fra paesi e gruppi sociali”204

.

Più che di Governo Mondiale bisogna parlare di Polis globale, non come valenza territoriale, come la definisce Held nel libro in questione, ma di “spazi ideologici, in cui le persone nel perseguimento di comuni interessi danno vita ai processi decisionali pubblici mondiali”.

È all’interno di questi siti che si devono trovare e sperimentare le nuove forme di compatibilità tra autodeterminazione dei singoli e dei gruppi, da un lato, e la necessità della decisione politica dall’altro; vale a dire l’autonomia legittima.

Nell’era della globalizzazione, la democrazia non può essere omogenea nelle varie realtà del villaggio globale, e quindi parlare di una democrazia cosmopolita. Il villaggio infatti, pur nella sua globalità, si differenzia per le sue diverse ricchezze peculiari che non si integrano le une con le altre, perdendo ognuna la propria identità, ma l’una collabora con l’altra, per abbattere le strutture inaccettabili di differenza e applicare ovunque il processo deliberativo pubblico definito come una autodeterminazione strutturale non individualistica.

Questa Polis si può costruire conciliando il concetto di umma universale con quello della casa comune del Mondo di Giorgio La Pira. Non come “ummat al-u

mu’minn comunità di fede ma come comunità universale in senso laico.

Umma in cui il concetto di cittadinanza non sia ristretto, come in occidente, allo Stato Nazione, ma questo status politico-sociale non sia l’allargamento di noi singole comunità ma del mondo intero.

L’unicità di Dio (tawhid), che l’Umma rappresenta, può divenire nel senso laico una forza aggregante universale che si unisce ogni qualvolta si prospetta un male comune per combatterlo. In questo modo la gihad assumerà il suo valore semantico di sforzo comune contro un male comune.

“Oggi la Umma non appare più come aggregazione di differenze etniche o nazionali nel discorso della contestazione islamica, ma sotto certi aspetti essa è

universale, perché è legata ad una visione ideologica comune”. Questa concezione

ideologica basata sulla Sharia, per il militante contemporaneo, deve trasferirsi su un confronto col mondo occidentale, a causa della deterritorializzazione della comunità (Umma) in questa parte del mondo205”.

Il credente infatti partecipa all’attività del luogo in cui vive, viene influenzato dalla globalizzazione, dalla modernizzazione della tecnologia, sperimenta leggi diverse, altre forme di governare e di essere governato, di rapporti sociali che vengono costruiti dai componenti del gruppo, cioè da uomo prettamente credente diventa anche uomo politico. È a questo concetto di polis che il musulmano moderno deve portare il suo contributo per divenire uomo universale.

Le varie religioni non devono essere dei vettori che proiettano i propri segnali in una società tradizionale che non esiste più. Il credente è innanzitutto un personaggio storico che segue l’evoluzione di questa, che oggi è proiettata verso la sovramodernità. Il suo compito è quello di indirizzarla verso un percorso umanistico e non paranoico dell’estremismo e della contrapposizione.

Le religioni devono contribuire, unitariamente, nel rispetto delle loro diversità, alla costruzione di un Nuovo Mondo è possibile.

Ognuna, nella propria distinta fede, deve trovare quello spirito di laicità che è il punto di unione e condivisione fra tutto gli uomini della Terra.

Laicità che significa “giustizia, sicurezza, democrazia rispettosa delle proprie diversità, rispetto ambientale, tutela dei diritti umani, paura della guerra, della fame, benessere economico e sociale”.

È questa laicità il loro progetto comune, in modo da costruire un progetto planetario. Una politica interna mondiale gestita non da governi nazionali, ma da soggetti della società civile transazionali portatori di culture eterogenee.

Una politica degli uomini, politica in senso secolarizzato, che sia soggetta ai vincoli di una Corte Internazionale di Giustizia, le cui sentenze siano vincolanti sia per un capo di Stato, che per il singolo cittadino, che per i governi nazionali. Un diritto internazionale, quindi, che affermi il diritto di libertà rispetto alla ragione e religione degli Stati.

In questa casa comune universale non ci sarà necessariamente una forza militare, ma una Task Force civile universale atta a prevenire o risolvere conflitti di varia natura, che potranno sorgere nel villaggio comune. Forza preparata ad intervenire in qualsiasi calamità: naturale, sanitaria, umana, che potrà avvenire.

Forza civile che essendo espressione del focolaio universale vada oltre il diniego all’opporsi.